L’ultima volta che Giorgio Poi e io ci siamo incontrati era marzo del 2019, abbiamo chiacchierato seduti al tavolino di un vecchio panificio popolare dalle parti di Porta Venezia, a Milano. C’era un sole di prima primavera, di quando la stagione nuova è sulla soglia e ricordo distintamente che la conversazione musicale si è spinta molto velocemente sul senso della canzone in quell’oggi che è ormai ieri, su cosa significasse cioè fare canzoni nell’anno 2019, dopo che c’erano stati Vasco Rossi e Lucio Dalla a farle negli anni ’70 e ’80. Mentre parlavamo avevamo già in bocca un po’ di futuro, cioè quel senso sottile di futura estate che passa sempre lieve tra le persone quando si parla di canzoni e si è sospesi nel primo accenno di sole.
Oggi con Giorgio ci sentiamo al telefono, abbiamo dimenticato quanti anni siano effettivamente trascorsi da quel pomeriggio – sono solo e già tre, è lui a ricontarli e dirmelo – perché nel frattempo abbiamo subìto la compressione del tempo, dei lockdown, della pandemia e poi della pandemia reprise 1 e reprise 2 – ora speriamo nell’outro ma è chiaro, siamo cauti. Non parliamo più di cosa significhi scrivere canzoni nella contemporaneità dell’anno 2021 dopo che a farlo ci sono stati i maestri, ma di cosa significhi scriverle in una contemporaneità ancora più precisa, quella di una malattia che ha investito il pianeta senza risparmiare nemmeno le sorti dei maestri, quella che ha investito noi di nuove forme di solitudini e inediti colpi da parare, quei colpi che Giorgio Poi ha scelto di attutire con la gommapiuma della musica, Gommapiuma che poi è anche il titolo del suo nuovo disco in studio.
«Serviva un antro morbido in grado di attutire i colpi sugli spigoli all’atterraggio, perché in effetti questo momento è tutto spigoloso, lavorare al disco mi ha distratto: mi sono concentrato a scrivere e sui piccoli dubbi legati alla scrittura, all’arrangiamento, ai suoni andando il più possibile in profondità e mi sono posto problemi se vogliamo più privati. In fondo le questioni musicali, quelle legati alle canzoni, sono tutte cose che mi sentivo più in grado di gestire, magari persino di risolvere, mentre per le cose grandi che stavano accadendo non potevo ovviamente fare nulla».
Gommapiuma è un ibrido dolce, sta a metà tra classicità ed esperimento giocoso e prosegue il discorso autorale di Giorgio Poi, tra vagheggiamento e riflessione, con una maggiore attenzione a questo secondo aspetto rispetto al passato. «È vero che è un disco in cui ci sono effettivamente più considerazioni, ho avuto molto tempo, ho riflettuto molto e molto più lentamente, e pensare molto mi ha portato a formulare di più, aprirmi di più a quest’aspetto della scrittura».
Il disco è nato a cavallo tra il primo e il secondo lockdown, attraversando e inglobando in sé, dunque, l’intera sfera emotiva sfaccettata, drammatica e insieme misteriosa e sorpresa del periodo. «Anche se l’album non parla strettamente di questa pandemia, ci sono sensazioni, considerazioni emotive figlie di questo momento, è così per forza di cose: poi spesso sono pensieri generali o che hanno a che fare con il passato, pensieri che non riguardano necessariamente il periodo in cui li stavo scrivendo, ma che comunque, attraversandomi di nuovo in quel momento, di fatto, di quel momento sono il prodotto. Il mio primo impatto con questa cosa del restare chiusi per una malattia del mondo è stato spaventoso, poi al secondo giro mi sono macabramente abituato, a casa eravamo in due, io e la mia ragazza, e nel bene e nel male ha avuto un peso quell’essere in due in sospensione, qualcosa che credo abbia influenzato anche la scrittura».
Nel disco, in effetti, si respira all’ascolto un’aria di ralenti cinematografico, una gommapiuma sensoriale che sta anche nell’aere, un galleggiamento etereo, come se fossimo sospesi sopra a una nuvola, d’altronde, come sottolinea Sergio Endrigo in un celebre verso “sopra le nuvole c’è il sereno”, quindi senz’altro un ottimo riparo dalla tempesta.
«Durante il primo lockdown ero in un appartamento abbastanza piccolo, facevo fatica a scrivere, ero confuso e non riuscivo a trarre giovamento da questo riparo forzato dal mondo. Poi d’estate ho cambiato casa e sono andato in uno spazio più grande, quando mi sono rimesso sulla scrittura, mi sono accorto le vere basi le avevo gettate di là, nella fatica: della decina di brani scritti in quell’inizio burrascoso, cinque li ho tenuti com’erano pensando che quindi non fossero davvero male come pensavo. Quindi scrivere è stato come essere su una nuvola morbida anche quando non me ne accorgevo, ora se guardo queste canzoni da lontano, pensando al momento in cui le ho scritte, credo mi abbiano fatto da materasso, da tappetone».
La title track si prende in carico tutto l’apice del galleggiamento sonoro del disco e lo fa col suo scheletro, la sua ossatura tutta strumentale, figlia delle originarie radici jazz degli studi di Poi. «Io di jazz ne ho ascoltato molto e l’ho studiato e poi abbandonato dall’ascolto continuativo forse proprio perché l’avevo studiato, invece adesso ci sono tornato, ho riascoltato tanto Bill Evans, John Coltrane, Miles Davis, mi sono anche comprato un sax soprano, prima avevo un sax tenore, questo che ho preso è di bassa lega, faticoso da suonare, è presente anche in Gommapiuma che è pezzo che restituisce una sensazione tattile, è emotivamente in bilico, non si capisce se sia triste o allegro, ha entrambi i sapori, è molto mio. In fondo non è né triste né allegro, anche perché non esistono musiche spudoratamente allegre, nemmeno quelle per bambini».
Il disco è però frequentemente attraversato da un senso di leggerezza, un’alchimia, una magia, se pensiamo proprio al momento in cui è nato di cui dicevamo quassù, è una leggerezza ricercata, sofisticata ma anche perseguita, come da donarsi e da donare, nel pezzo Rococò, in apertura, questo elemento emerge fortissimo, e “la granita al limone anche se fuori piove” ricorda tanto il dono del Gelato al limon di Paolo Conte, fatto di freschezza, asperità, “libertà e perline colorate”… «Nei momenti più inquietanti ho pensato proprio alla leggerezza, il dono è offrire ma anche alleggerirsi, poi scopro cose parlando con altri, come ora con te, io a volte effettivamente aderisco solo a un sentire ma conversando scopro cose dei miei brani che mi chiariscono i significati; quando scrivo non voglio mai dire qualcosa di troppo preciso, per me delle parole sono importanti e molto anche il suono, la metrica, tutto, e poi come un termine si sposa col suono della tua voce: il significato del senso compiuto del brano si capisce solo alla fine».
Il disco rivela in effetti un passo ulteriore dell’autore nell’attenzione globale nei confronti della parola, da sempre uno dei dati sensibilmente più caratterizzanti della canzone di Poi, che fa un uso del vocabolo da artigiano contemporaneo, designer forse, nel senso più nobile e à la Munari del termine. Questa parola, qui, si fa anche un po’ più letteraria, figlia forse delle letture dell’artista.
«Leggo molto, in effetti, ora mi metto davanti alla mia libreria e ti dico un po’ di cose che ho amato ultimamente: Invito a una decapitazione di Nabokov mi è piaciuto moltissimo, ho letto La bella estate di Cesare Pavese, ho amato Rimini di Pier Vittorio Tondelli, poi ho riletto Il barone rampante di Calvino. Io di solito non rileggo, ma amo il fatto che Calvino sia il più sudamericano e magico degli scrittori italiani, le descrizioni dei suoi personaggi e le sue storie che non sono mai drammi, ha un modo che sento vicino a Cortázar, Allende, Marquez, ma sono cose che ti dico da semplice lettore».
«Poi ho amato molto anche Elogio dell’ozio di Bertrand Russell, ora ti leggo qualcosa da lì, ricordo c’era un brano, “Uomini contro insetti”, in cui si diceva che l’uomo riesce a controllare e dominare solo le cose delle sue dimensioni, quelle grandi e quelle microscopiche no. Il periodo che abbiamo vissuto mi ha fatto riflettere, un virus è microscopico e ci distrugge, oppure a distruggerci sarà un asteroide. Ora non lo trovo qua, mi pare troppo lungo, dovrei fare dei tagli… allora dai, te lo leggo la prossima volta».