È la prima volta che varco la soglia del Sunset Marquis in pieno giorno, in genere passo di notte a bere al bar, dove spesso e volentieri è capitato di fare incontri ravvicinati del quarto tipo. Ma poiché siamo in West Hollywood, bisogna fingere sia tutto normale, compreso trovarsi a disquisire con Dave Grohl di oscure band italiane degli anni ’70 o aiutare Billy Idol a reggersi in piedi quando accendono le luci per la chiusura del bar. Potrei fare una lunga, stucchevole lista di mostri sacri della scena musicale in cui mi sono imbattuta per caso fra quelle quattro mura, a loro volta tappezzate con stellari ritratti rock’n’roll.
«Tempo fa stavo seduto nel ristorante dell’hotel e vedo qualcuno sostituire la foto di Aretha Franklin con una di Morrissey. Dieci minuti dopo, vedo arrivare Morrissey e sedersi al tavolo sotto il ritratto: che scemi!». Così ricorda Jamie Hince, ridacchiando insieme all’amica Alison Mosshart. Uno inglese e l’altra americana, i due formano i Kills: una certezza nell’indie rock da oltre due decenni. Simbiotici quando uno parla e l’altra finisce la frase; sexy sul palco, senza essere una coppia, perché in fin dei conti, cosa c’è di più sexy di un sano rock’n’roll?
«Ma poi, cosa significa davvero essere rock?», s’interroga Hince. «La nostra musica non è propriamente tale come quella di altri gruppi. Eppure pensa ai Suicide: possono essere dannatamente rock anche se suonano con una merdosissima tastiera e una drum machine. Credo che il rock’n’roll abbia a che fare con la capacità di crescere, espandersi e cambiare».
Siamo qui per parlare di God Games, il nuovo album dei Kills, che tra rallentamenti da pandemia e gli impegni di Hince come produttore, arriva sette anni dopo il precedente. Con loro nella stanza c’è anche Three, il bracchetto trovatello di Hince, salvato da un laboratorio per esperimenti su cosmetici. Alison Mosshart (anche voce dei Dead Weather insieme a Jack White) fuma sigarette, mangia pesce crudo insieme a tortilla e guacamole, beve vino on the rocks. E ride. Ride a ogni battuta del suo inseparabile compagno di band perché oggettivamente Jamie Hince è parecchio simpatico, fosse solo per il modo colorito in cui dice le battute (purtroppo molti dei suoi siparietti sono intraducibili).
«Con Jamie ci vediamo quasi ogni giorno» dice Mosshart che vive tra Los Angeles e Nashville. Le confesso che rispetto al nostro primo incontro, quando entrambe vivevamo a Londra nel 2011, oggi mi appare immensamente più rilassata e gioiosa. «È stato stupendo tornare in America. Qui è tutto più facile e a me piace essere indipendente e spostarmi con l’auto; qui ognuno ha un piccolo studio di registrazione dentro casa, a Londra bisognava sempre coinvolgere 100 persone per riuscire a combinare qualcosa. Ora posso solo pensare a dipingere e a fare musica».
I primi due singoli del nuovo album sono New York, un brano decisamente in stile Kills, e LA Hex, un pezzo che invece si addentra in nuovi territori sonori…
Jamie Hince: È stata una scelta intenzionale, iniziare con qualcosa di familiare ma poi sorprendere il pubblico. LA Hex è un brano piuttosto diverso da ciò che abbiamo fatto finora. La chitarra è minima, almeno fino a quell’assolo pazzesco. Ha un andamento circolare e la voce di Alison segue una metrica inusuale per noi: abbiamo lavorato meticolosamente sulle vocals perché avessero l’effetto di una conversazione.
Alison Mosshart: Trovare nuovi suoni o comunque modi diversi di lavorare, rende le cose divertenti ed eccitanti. Ricordo che quando Jamie mi suonò per la prima volta LA Hex, si era presentato con un nome differente, come se fosse per un progetto immaginario, collaterale ai Kills.
Intendete che per togliere la pressione dai Kills, Jamie aveva creato un alter ego?
Jamie: Esatto. Perché andavo in studio, prendevo la chitarra in mano e mi fissavo sull’idea di un nuovo album dei Kills e la cosa finiva per incasinarmi la testa. Così ho iniziato un progetto collaterale chiamato LA Hex e sorprendentemente, un atto così semplice come quello di cambiare un nome nell’hard drive, mi ha completamente liberato. Ora potevo lanciarmi in qualsiasi musica avessi voluto. Almeno era ciò che pensava metà del cervello, l’altra metà sapeva benissimo che stavo scrivendo un nuovo disco dei Kills.
Alison, come hai vissuto questo sdoppiamento di personalità?
Alison: Un giorno sono andata a trovare l’altra metà del suo cervello. Non appena ascoltato quel brano per la prima volta, gli ho detto: lo adoro, devi assolutamente lasciarmelo cantare.
Jamie: Le ho detto, ok, ma solo se ci chiamiamo Kills!
Quali sono state le innovazioni che hanno generato le nuove canzoni?
Alison: Per me si è trattato di scrivere con una piccola tastiera da 100 dollari. Me l’ha suggerito Jamie e devo dire che il trucco è funzionato, perché in genere mi limitavo a scrivere solo con la chitarra ma stavolta non avevo regole, non avevo idea di come suonare quel coso. Così ho trovato nuove metriche e nuove melodie, è stato divertente, non riuscivo a fermarmi. Ed è buffo perché oggi tutti usano una tastiera MIDI, non ho scoperto nulla di pazzesco, ma è stata cruciale nel mio processo creativo.
Tempo fa mi avevate rivelato che appunto i brani li scrivete prima da soli e poi vi confrontate con le demo pronte alla mano, è ancora così?
Jamie: Sì, lavoriamo ancora così, ma è comunque una collaborazione. Facciamo fare a un brano avanti e indietro con l’uno o con l’altro che aggiunge, toglie, modifica, in un ping pong continuo, finché non arriviamo alla versione che piace a entrambi.
Trovo interessante che dopo tutti questi anni non abbiate mai provato a scrivere insieme nella stessa stanza…
Alison: Credo sia perché entrambi amiamo quel tipo di privacy e intimità che si ha quando si è soli a scrivere. È come un’esperienza religiosa.
Jamie: Esatto, è come una meditazione. Ed è così fin da quando ero bambino perché i miei genitori non erano proprio patroni delle arti, non ero incoraggiato a suonare in una band o a fare musica, dovevo farlo in segreto, a porte chiuse…
Alison: Ci si sente come un fuorilegge.
La musica come atto di ribellione?
Jamie: Diciamo che da ragazzo prendevo tutto come un atto di ribellione. Da quando ho compiuto 14 anni non vedevo l’ora di togliermi dalle palle (intende dal Buckingamshire, nda) e immergermi nei pericoli e nel caos di Londra, con tutte le mie sciocche idee.
Alison: E le tue acconciature buffe.
Jamie: Le mie acconciature buffe e i miei abiti ambidestri (risate).
Ventuno anni insieme e siete ancora così affiatati. Se le band sono come matrimoni, direi che il vostro è molto ben riuscito: qual è il segreto?
Alison: Ci piacciamo parecchio. E quando ti piace qualcuno, devi volere che le cose funzionino continuando a lavorarci su, anche quando ci sono momenti difficili e provanti.
Jamie: Formando i Kills abbiamo fatto un patto, e abbiamo vissuto secondo questo patto e se sei guidato da una luce del genere, è vitale andare d’accordo. Comunque trovo buffo quando ci chiedono quale sia il nostro segreto: prima di tutto è un cazzo di segreto! Secondo, non ci pensiamo, lo facciamo e basta.
Qual è la qualità di Alison che a te manca e viceversa?
Jamie: Organizzazione, gestione del tempo e tutti gli altri talenti da ufficio. Alison è l’addetta allo smaltimento delle bombe, è in grado di fermare le esplosioni, i casini.
Alison: Per me Jaime significa ispirazione creativa senza fine. È sempre in grado di sorprendermi con cose incredibili. E poi è davvero divertente, non mi annoia mai. Credo sia importante avere entrambi gli aspetti, il caos e il controllo e noi siamo in grado di scambiarci i ruoli spesso. Abbiamo un equilibrio psicologico: se uno di noi sta passando un periodaccio, allora lil caos e il controlloaltro è in grado di tirarlo su. È sempre stato così.
Jamie: Riempiamo i vuoti dell’altro, proprio come quando scriviamo canzoni. Ci compensiamo nella musica, nella vita sociale e negli affari. È questo il nostro segreto, ragazzi miei!
Quale musica ascoltate in questi giorni?
Alison: Giorni fa ascoltavo La sagra della primavera di Stravinsky e ho scoperto che è la mia musica preferita per dipingere perché non ha testi: le parole mi confondono mentre disegno. Ecco, per me Stravinsky è uno davvero rock’n’roll.
Jamie: Io invece tendo ad ascoltare musica che non ha chitarre, ultimamente mi piace molto Dean Blunt, è innovativo, brillante, bizzarro. Oppure MF Doom e altri strambi artisti hip hop.
Anni fa hai avuto un grave problema al tendine della mano: l’hai superato oppure influenza ancora il modo in cui suoni la chitarra?
Jamie: Ci convivo tutt’ora. Non riesco più a suonare i power chord e questo è stato un problema mesi fa quando ero in tour con Iggy Pop (nel supergruppo creato apposta per una serie di concerti in America, qui il report, nda), non è stato facile e ho dovuto lavorare duro per superarlo. L’infortunio ha decisamente cambiato il mio stile, ora suono più note singole e più accordi minori perché senza il dito medio è più difficile fare accordi maggiori. Così è nata Better Days, scritta tutta con accordi minori.
Better Days è l’epilogo di God Games. Accattivante, orecchiabile, mi verrebbe da pensare che l’avete messa all’ultimo perché resta facilmente in testa…
Jamie: Ma anche perché è un messaggio di positività, verranno giorni migliori. È la scena finale del disco, volevo che si aprissero i cieli neri per rivelarne i colori.
La copertina dell’album però non l’ho capita, un matador e il toro…
Jamie: Viene da un dipinto amatoriale, ordinario, da negozio di beneficenza, quel tipo di arte delle case borghesi che vogliono dimostrare di avere una cultura e di avere visto il mondo. Adoro quel genere di quadri. L’hanno lasciato nella casa dove mi sono trasferito e mi sono affezionato, è una buona metafora della condizione umana.
In che modo esattamente?
Jamie: Mostra la brutalità che è ovunque. Troviamo scuse per giustificare la crudeltà dicendo che si tratta di tradizione, di uno sport, di un gioco. Ma è ridicolo perché serve solo a portare avanti una cosa del tutto barbarica. Il matador è rappresentativo di molte altre crudeltà umane, è una metafora che funziona.
Voi siete una band che dà molto negli spettacoli dal vivo. Per il precedente album Ash & Ice siete stati in tour addirittura per tre anni ma oggi il mondo è molto cambiato. Pensate sia ancora sostenibile fare tour così lunghi?
Jamie: In totale onestà, lo scopriremo presto. Sappiamo che ora c’è una nuova realtà finanziaria post pandemia, tutto costa quattro o cinque volte tanto. È una fucking follia. Non ho ancora ben capito perché i prezzi di molti prodotti siano aumentati tanto e anche il mondo professionale sembra guidato dall’avidità, ora ti prosciugano per qualsiasi richiesta. Ma per noi è vitale suonare dal vivo, ho sempre voluto che i nostri dischi servissero a promuovere gli spettacoli live, non viceversa.
Oggi si parla poco di Brexit: mi chiedo quali ripercussioni possa provocare a una band come la vostra composta da un inglese e un’americana…
Alison: È un incubo. Siamo appena stati in Europa a fare interviste e ogni singolo giorno è stato un problema spostarsi da una parte all’altra, ore intere per i controlli dell’immigrazione, è stato surreale. C’è ovunque poco personale e un’attitudine molto diversa, non ti senti più benvenuto.
Se la promo è stata difficile, non oso pensare i concerti…
Jamie: Il fatto è che i Kills sono sempre riusciti ad attirare un pubblico di due, tremila persone ovunque nel mondo, fosse in Cile, Mosca, ovunque. Ho amici che riuscivano a fare tre serate di fila tutto esaurito in venue pazzesche come la Brixton Acdemy, ad esempio, ma di cui nessuno aveva mai sentito parlare al di fuori dell’Inghilterra. E mi chiedevo: come fanno a campare? Ora il nostro vantaggio è diventato un handicap a causa dei costi annessi per volare nel mondo.
Quando avete lasciato Londra?
Jamie: Appunto quando è accaduta la Brexit. Ero tutto esaltato: fanculo Inghilterra! Fottuti idioti, me ne vado in America! Ma era il 2016 e mi sono beccato Trump…