Nel 2021, per il suo primo romanzo Rovine ambientato nel 2010, il bassista dei Suede Mat Osman si era immaginato, tra i personaggi, una coppia di adulti, Jackie e Hyde, decisi a vivere ancorati agli anni ’50, avvolti in abiti vintage, circondati da vecchi oggetti della loro giovinezza quali un televisore a tubo catodico e un telefono a disco, impermeabili a ogni mutazione. Mai come oggi, in questo 2023 in cui si dibatte di intelligenza artificiale facendo superficialmente coincidere ogni tecnologia con la parolina magica “innovazione”, è facile comprendere quel tipo di tentazione e imbattersi in persone aggrappate nostalgicamente al secolo scorso. Ma parliamo di over 40. Perché una fascinazione del genere dovrebbero provarla dei ventenni?
Viene da chiederselo ascoltando la musica degli americani Lemon Twigs, che il 5 maggio hanno pubblicato il quarto album Everything Harmony, disco che li vede ancora una volta immersi in una capsula temporale, impegnati a riportare in vita le sonorità e le atmosfere tra pop barocco, folk, prog e psichedelia forgiate tra gli anni ’60 e ’70 da artisti quali Beatles e Beach Boys, Simon & Garfunkel e The Mamas & The Papas, Bee Gees e Crosby, Stills & Nash e Neil Young. Non è una rilettura in cui siano previsti elementi nuovi, quella dei fratelli Brian e Michael D’Addario; la rivisitazione di vecchi stilemi (che in questo album, rispetto ai precedenti, accantona il glam rock) non prevede alcuna attualizzazione. Anzi, i due si muovono come spinti da una missione: scrivere canzoni originali in modo che sembrino risalire a decenni addietro, con i suoni caldi delle chitarre acustiche, le melodie morbide e sensuali, le armonie vocali, gli arrangiamenti arricchiti da strumenti come archi e cembali. Un pastiche che in Everything Harmony abbraccia toni perlopiù malinconici e che ha tutto di derivativo, benché nelle recensioni la critica sia divisa tra chi nel disco sente anche qualcosa di fresco e godibile oggi e chi vi scorge unicamente il frutto di un’imitazione talmente rigorosa da risultare poco autentica, se non stucchevole.
«Dobbiamo la nostra passione per certa musica del passato alla nostra famiglia», ci tiene a precisare Brian, classe 1997. «I nostri genitori, sia suonandoci determinate canzoni quando eravamo ancora piccolissimi, sia con i dischi che ci facevano ascoltare ci hanno fatto conoscere un sacco di artisti e di gruppi che sono ancora tra i nostri preferiti: Beatles, Leonard Cohen, Beach Boys, Kinks e tutti i maggiori esponenti della cosiddetta British Invasion… Non bastasse, sin dall’infanzia ci hanno fatto vedere cose a tema come la serie tv The Beatles Anthology e il film A Hard Day’s Night. Non scherzo, da bambini abbiamo trascorso molto più tempo a guardare la Beatles Anthology che i cartoni animati. E c’erano scene spassose anche per noi che avevamo 5 o 6 anni, ci divertivamo da matti».
Per la cronaca, lui e il fratello 24enne Michael sono di New York e dopo qualche anno nel Queens la loro casa è diventata Long Island, dove hanno assorbito sin dalla tenera età l’amore per la musica del padre Ronnie D’Addario, songwriter di Manhattan, di chiare origini italiane, che nella sua biografia annovera una collaborazione con il folksinger Tommy Makem dei Clancy Brothers e un suo pezzo, Falling for Love, inciso dai Carpenters nel 1981. È in tale contesto che Brian e Michael hanno finito per bazzicare nel mondo dello spettacolo molto presto, dividendosi tra teatro, musical e televisione anche sotto l’influenza della madre Susan Hall, neuropsicologa di professione, appassionata di recitazione. In particolare, Brian è apparso in alcune produzioni di Broadway e Michael, oltre a questo, ha lavorato nella miniserie John Adams, con Paul Giamatti, e al cinema in film quali Una famiglia all’improvviso con Michelle Pfeiffer e Sinister con Ethan Hawke.
«Tutto vero, ma nella nostra infanzia la musica c’era già», osserva Brian. «Io e Michael avevamo un nostro gruppo già alle elementari, con dei compagni di scuola. Partecipavamo ai talent oppure, visto che alcuni dei nostri genitori avevano delle cover band, ci capitava di suonare qualcosa durante i loro concerti. Avevamo un repertorio di 5 o 6 canzoni, non molte, quelle che ricordo sono I Can’t Explain, The Kids Are Alright e Pictures of Lily degli Who, As Tears Go By dei Rolling Stones e Seven Nation Army dei White Stripes. E a differenza di quel che si potrebbe pensare, non era solo un gioco: io e Michael prendevamo il tutto molto sul serio, era ciò che sognavamo di fare da grandi».
Crescere in una famiglia come quella dei fratelli D’Addario non basta, però, a spiegare il loro starsene in una macchina del tempo lanciata a tutta velocità nel passato. Anche perché nel caso dei Lemon Twigs non solo il songwriting, ma anche gli outfit, il look, l’estetica e l’immaginario veicolati da video, artwork e concerti sono curati con attenzione al fine di catapultare ascoltatori e spettatori in una bolla Sixties e Seventies lontanissima dal presente. Operazione apprezzata da Todd Rundgren, Tony Visconti ed Elton John, così pare, ma è tutta gente che ha superato i 70 anni da un po’: che possano sentirsi toccati da ragazzi come Brian e Michael, probabilmente un riflesso dei se stessi teenager, è più che comprensibile, ma non è nulla di significativo se non per un comunicato stampa promozionale. Piuttosto è interessante notare come, nel celebrare un sound d’annata, i Lemon Twigs si accostino ad altri gruppi che da qualche tempo stanno portando avanti un approccio similare: in primis i Greta Van Fleet, accusati non a caso di essere una copia dei Led Zeppelin, e, guardando all’Italia, in qualche misura i Måneskin, benché la band romana, almeno per i messaggi che associa alla sua musica, rispecchi maggiormente lo spirito dei tempi.
«Noi non abbiamo paura di essere scambiati per una tribute band o qualcosa del genere», afferma Brian. «Come siamo legati a un certo tipo di sound di decenni fa, allo stesso modo amiamo gli abiti che sfoggiava chi quel sound lo proponeva, e per noi è uno spasso attingere da quel mondo per creare la giusta atmosfera attorno alle nostre canzoni e ai nostri testi. Ma non è che avremmo voluto vivere negli anni ’60 o nei ’70: a differenza di quanto si potrebbe pensare, non proviamo nostalgia per quell’epoca per il fatto che, non avendola vissuta in prima persona, tendiamo a idealizzarla. È più una questione di attitudine: il modo in cui si facevano i vestiti allora, per esempio, era sartoriale; gli abiti si caratterizzavano per una tattilità incredibile, si lavorava ore e ore per confezionarli e la cura dei dettagli era straordinaria. Vuoi mettere con le sneakes di gomma fatte con la stampante 3D di oggi? L’automazione è ormai talmente diffusa in tutti i settori creativi che per scovare qualcosa che ci esalti ci viene spontaneo andare a cercare in periodi lontani, ma che ci parlano più di quanto ci parli la contemporaneità, perché li sentiamo più affini».
A dirla tutta, è noto che inizialmente ciò che i Lemon Twigs avevano in testa era di fare musica in bilico tra MGMT, Flaming Lips e Tame Impala, gruppi dal sapore indubbiamente rétro, ma altrettanto indubbiamente fautori di un’evoluzione originale. Brian confida che ancora prima «in un periodo in cui eravamo sotto con Nirvana e Radiohead, avevamo scritto dei pezzi con echi di quelle band. Ci piaceva l’idea di scrivere brani nostri che suonassero vicini alla musica che ci ossessionava», spiega prima di ammettere che «sia i Nirvana, sia i Radiohead hanno rappresentato solo una fase, alla fine; non era quella la musica che ci aveva nutriti sin dalla nascita fino a entrarci dentro nel profondo. Questo per dire che è vero che ci rifacciamo a certa musica di ieri, ma è qualcosa che ci viene naturale, non è il risultato di un processo razionale e calcolato. Semplicemente, a ispirarci sono i dischi e le canzoni che ci hanno formati: sono parte di ciò che siamo».
E lo scontro generazionale? La ribellione contro gusti e mode del mondo adulto e dei propri stessi genitori? Può essere abbia ragione il critico britannico Simon Reynolds quando nel suo saggio Retromania suggerisce che se l’attuale cultura pop pesca a piene mani dal passato (e qui si pensi anche all’abbondanza di canzoni costruite attorno a vecchi sample) è anche perché oggi non siamo più in grado di immaginare il futuro se non in termini distopici e finiamo così per rifugiarci nella nostalgia – sentimento confortevole – proprio come i personaggi del romanzo di Osman citati sopra.
Premesso che Brian non sa chi sia Reynolds («non lo conosco», dice, e data l’età non c’è nulla di sorprendente), è lui stesso a definire interessante la tesi del giornalista e scrittore. «Mi fa venire in mente un periodo in cui il mio sogno assoluto, quello attorno a cui fantasticavo con maggiore ardore, era di realizzare un disco del livello di Pet Sounds dei Beach Boys o di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles. Più Pet Sounds, a dire il vero. Ma chissà quanti, dopo aver ascoltato quel capolavoro, avranno sognato la stessa cosa. Se ti piace la musica bella, magari anche complessa, ma intrigante, emozionante e con un afflato universale, i Beach Boys sono la band perfetta. Personalmente credo di aver intuito presto che se le loro canzoni mi piacevano così tanto era per il modo in cui erano scritte, per quel mix di toni di voce e di accordi e armonie così sensuali… Roba che oggi non si trova quasi più, altrimenti mi tufferei nel presente senza problemi. Chi tiene l’asticella così alta? Dei grandi del passato più che altro si copia il look, mentre come Lemon Twigs, al di là dell’immagine, vogliamo fare dischi di qualità, dischi che registriamo in analogico come fanno con i loro album alcuni artisti che sentiamo vicini, dai Foxygen di Jonathan Rado, già nostro produttore, a Cut Worms a Slugbug».
E tornando a Reynolds, conclude: «Ha ragione quando dice che la nostra generazione non nutre molte speranze nel futuro. In generale una dose di incertezza e paura per l’avvenire nei giovani c’è sempre, in qualsiasi periodo storico, ma solitamente interessa gli ultimi, gli strati sociali più deboli. Mentre ormai la sfiducia è generalizzata».