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Perché il K-pop è così odiato?

C'entrano il razzismo, i pregiudizi sugli asiatici e la difficoltà a comprendere un sistema culturale differente da quello occidentale. Ce lo spiega meglio Paola Laforgia che sul tema ha scritto un libro 'Fattore K'

Foto: press e Rolling Stone US

La poca (e cattiva) considerazione che circonda il K-pop in Occidente mi ricorda in parte quanto già successo con in passato (e ancora ora) con il reggeaton, uno dei generi più di successo degli ultimi dieci anni, odiato e malmenato da un certo pubblico, per non parlare della stampa e dalla critica, che negli anni anche grazie all’affermazione di esponenti più interessanti (Rosalía, Bad Bunny, Karol G) è riuscito definitivamente ad affermarsi anche al di fuori del mondo latino. La resistenza trovata all’ingresso, però, non è dissimile da quella che sta vivendo oggi il K-pop.

Nonostante abbia trent’anni di storia, il K-pop ha fatto breccia nell’Occidente solamente negli ultimi dieci anni consolidando un percorso di esportazione culturale voluto dal governo coreano che noi ora conosciamo come Hallyu, l’onda coreana. Un percorso lungo, fatto di grandi investimenti e intelligente lungimiranza, che ha portato l’onda a sommergere (anche) la produzione culturale dell’Occidente. Pensiamo ai 4 Oscar di Parasite di Bong Joon-ho per il cinema, a Squid Game (e in generale all’universo dei k-drama) per quanto riguarda la serialità televisiva, a BTS e Blackpink nel pop. Ma se cinema e serie tv sono riusciti a emergere in territori in cui si è posta meno resistenza all’ingresso, nella musica il K-pop è ancora relegato a genere minore per ragazzini e ragazzine, a cui viene dato poco valore culturale e artistico. Poco importa che i massimi esponenti di quell’universo abbiano conquistato classifiche, fatto tour mondiali, suonato nei principali festival statunitensi e non; il K-pop oggi fatica ad essere riconosciuto come genere o mondo sonoro di interesse culturale.

Le motivazioni, alcune comuni con il reggeaton, sono molte: c’entra il razzismo, i pregiudizi sugli asiatici, la difficoltà a comprendere un sistema culturale differente da quello occidentale. A far chiarezza però arriva un saggio sulla cultura coreana di Paola Laforgia, ex producer radiofonica per NTS Radio (la community radio più seguita e all’avanguardia del web) che negli ultimi anni ha mollato Londra per trasferirsi proprio a Seoul. Uscito recentemente per Add Editore, casa editrice che al mondo asiatico presta da sempre molta attenzione, Fattore K analizza la storia del K-pop e dei K-drama, soffermandosi in particolare sui pregiudizi occidentali che circondano l’universo degli idol del K-pop.

Ho contattato così Paola per trovare risposta a una domanda che mi segue da qualche tempo: perché il K-pop è così odiato?

Partiamo subito con una domanda che so essere divisiva: c’è una definizione precisa per K-pop?
Non c’è un consenso univoco su cosa sia il K-pop. Io lo definisco un genere perché secondo me ha delle caratteristiche per essere definito tale: è caratterizzato da un certo tipo di artista o performer – l’idol (e difatti spesso viene anche chiamato idol pop) -, da un particolare modo di produzione: il sistema di «training», da un peculiare modo di rapportarsi con i propri fan, dall’ibridismo musicale; dalle sue aspirazioni globali, dall’importanza dell’elemento visivo. Nel mio libro definisco il K-pop nello stesso modo in cui noi definiamo la musica religiosa, o la musica per bambini: ovvero generi con un’intenzione comune ma non necessariamente uniformi dal punto di vista musicale (ad esempio nella musica religiosa si va dai canti gregoriani come ai Raga indiani). Il K-pop, in senso stretto, è musica fatta dagli idol, cioè da ragazzi e ragazze che hanno seguito un processo di training preciso e che vengono seguiti da agenzie costituite in un modo peculiare. Ricordiamoci inoltre che il K-pop è un genere che fin dagli esordi ha puntato a diffondersi all’estero, e questo lo si vede nei training in cui vengono insegnate altre lingue a fini promozionali o nel fatto che spesso vengano scelti per un gruppo membri di più nazionalità.

Questa cosa del K-pop come genere audiovisivo torna sia nel tuo libro che in una dichiarazione di Suga dei BTS che dice: «Per capire il K-pop bisogna mettere insieme la musica, i video, i vestiti, il trucco. Tutti questi elementi si fondono in un pacchetto visivo e uditivo che lo distingue dai precedenti standard musicali. Piuttosto che intendere il K-pop come un unico genere, credo sia più facile comprenderlo come un’integrazione di diversi contenuti culturali».
Ed è esattamente così.

C’è una differenza di come viene raccontato il K-pop in Corea rispetto che qui da noi?
Guarda, anche in Corea discutono se il K-pop sia un genere o meno. Ma ci sono libri che inquadrano la storia genere e che parlano delle sue caratteristiche: la nascita negli anni Novanta, il training, il fatto che sia un genere principalmente audio-visivo. La differenza più grande è che fuori dalla Corea si fanno ancora commenti razzisti e stereotipati sul K-pop. Qui mi raccontano che fino a metà degli anni Duemila il K-pop non era benvisto dalla scena underground perché era troppo mainstream. Poi però molti produttori della scena indipendente hanno iniziato a produrre progetti K-pop, che al contempo era diventato molto popolare e ora ha un valore positivo. Il K-pop è visto come qualcosa che ha portato lustro al Paese.

In un certo senso potrebbe ricordare l’avvento delle boyband e delle girlband di fine Duemila? Penso a Backstreet Boys, Spice Girls, 5ive.
Fino a un certo punto. Se penso a Britney Spears, a Justin Timberlake e al mondo di Disney Channel qualcosa in comune c’è, ma di certo non era sistematizzato come in Corea. Oltretutto non è un sistema che in Europa e negli States è sopravvissuto. Inoltre non penso che le boyband del K-pop sia sovrapponibili alle boyband occidentali. Qui è norma partire da un gruppo e poi tentare successivamente una carriera solista. Non ci sono molti cantanti K-pop che hanno iniziato quasi solisti (mi vengono in mente BoA, Rain e IU). La questione del gruppo non mi sembra molto importante in Occidente: spesso si punta solo su uno o due membri del progetto mentre gli altri componenti sono più dei gregari, un contorno. E infatti spesso finiti i gruppi non sopravvivere quasi nessuno nello show business.

Secondo te perché il K-pop triggera così tanto il pubblico occidentale?
Gli stereotipi sugli asiatici sono tantissimi e tornano tutti all’interno delle critiche al genere. Poi ci sono parecchi commenti proprio su come il K-pop è costruito: “sono dei robot”, “fanno i training e quindi non sono veri artisti”, “non sono genuini”, “non sono autentici”. Tutti pregiudizi culturali; da noi infatti l’artista è il genio, chi dal nulla scrive il proprio capolavoro grazie all’ispirazione e al talento. Ma c’è una citazione che faccio sempre che mi pare aiuti a capire bene la differenza. È di Bang Si-hyuk, la persona che ha creato la Big Hit Entertainment, ora Hybe Corporation, colui che ha lanciato i BTS [ma anche di altri progetti come Seventeen, Enhypen, ndr]. Bang sostiene che il sistema del training del K-pop non sia molto diverso da quello della danza classica. Però nessuno dice che i ballerini e le ballerine non sono artisti solo perché passano ore ad allenarsi e a far pratica ballando coreografie di altri. Ma anche qui è importante pensare alla cultura coreana nelle università sono diffusi dipartimenti chiamati “College of Art & Physical Education” dove arte ed educazione fisica sono insieme. Ciò che mi preme sottolineare è come in Occidente si facciano di due pesi due misure.

Penso che ciò che faccia scatenare il pubblico occidentale contro il K-pop sia (anche) il fatto che il K-pop ci mostra un turbo-capitalismo perfetto, un’esasperazione del sistema, un’immagine così esplicita della contemporaneità da diventare parafulmine di chi non sta accettando un sistema che già agisce così quotidianamente anche qui da noi.
Se è così, penso sia una percezione un po’ distorta dai nostri occhi occidentali. Attorno al K-pop – è vero – c’è un marketing spesso molto capitalistico, molto intenso; di uno stesso disco vengono pubblicate più versioni per far sì che il fan le voglia tutte o c’è tutta la questione photocard, ovvero la foto di un singolo artista della band inserito all’interno di un album e che porta il fan ad acquistare più album nella speranza di collezionare tutte le photocard del gruppo. Questo è sicuramente capitalismo e ha dei risvolti che non approvo. Ma la questione del training invece non la vedo necessariamente come l’emblema del sistema capitalistico perché come dicevamo è un modo di fare cultura diverso.

Un’altra differenza culturale è nel rapporto coi fan. Mi pare di intendere dal tuo libro che in Corea sia visto come un atto genuino, mentre qui è visto come fan service, ma in eccezione negativa.
All’inizio lo pensavo pure io, poi ho iniziato a rendermi conto di quanto i singoli artisti ci tengano;. Jung Kook dei BTS si è tatuato il nome del fandom dei BTS (gli Army) sulla mano. Ma come dicevi, è anche questa una questione culturale: qui una celebrità è anche modello da seguire. L’idea è che se sei diventato famoso è perché qualcuno ti sta supportando ed è grazie a loro che hai avuto successo. E a queste persone qualcosa devi. Non è solo marketing, è un rapporto in cui gli artisti si sentono in debito coi propri fan. Pensa che i cantanti K-pop hanno delle app con cui puoi comunicarci, in cui si crea un rapporto più intimo tra artista e fanbase.

Visto che abbiamo parlato di autenticità, vorrei chiederti di un altro tema importante del tuo libro che torna anche questo come critica: il copiare come atto artistico.
Parto dicendoti che qui non c’è una diretta traduzione della parola autenticità. Ci sono parole che si avvicinano al concetto, ma che alla fine sono un filo diverse. Questo fa già capire molto quanta differenza ci sia. Ti faccio un esempio: in Corea se un monumento viene distrutto da una guerra, un incendio, o altro, vieni ricostruito. In Europa invece preferiamo ammirare le rovine perché una qualsivoglia ricostruzione non sarebbe vista come autentica. È quello che è successo con il Palazzo Reale di Seoul, che è stato distrutto e ricostruito mille volte. Per loro resta un simbolo della città e il fatto che non sia l’originale ma una ricostruzione non è un problema. Ma ti assicuro che quando un europeo lo scopre ci rimane male. Qui c’è abitudine a mixare e mischiare culture. E non sono d’accordo quando dicono che il K-pop è una scopiazzatura del pop occidentale perché c’è sempre qualcosa di differente in come certe cose vengono messe assieme. C’è sempre un elemento sonoro o estetico che rende il tutto diverso, non troverai mai una copia al 100%. Personalmente da ragazzina ho iniziato ad ascoltare K-pop perché era qualcosa di diverso, un’alternativa al pop occidentale. Aveva strutture e melodie più complesse.

Sempre per la questione due pesi due misure, una delle critiche più aspre al K-pop è quella che il sistema di training sia molto violento; spesso si è parlato di suicidi collegati al mondo degli idol. Però, se ci fermiamo a riflettere, anche qui da no non si scherza, con uno spettro di casi più o meno preoccupanti che va dalla storia di Britney Spears all’ultimo evento di cronaca, la morte dell’ex One Direction Liam Payne.

Il suicidio è un problema culturale della società a prescindere dal K-pop. Ovviamente essere un idol porta con sé una serie di responsabilità. Essere un modello porta enormi pressioni, ma questo in Corea capita per ogni persona “famosa”. Dagli idol ai concorrenti dei reality. La reputazione qui ha un altro valore culturale.

Il K-pop negli ultimi anni sta sicuramente tendendo di occidentalizzarsi un po’ di più, rendendosi più appetibile al nostro mercato. Penso ad esempio a progetti K-pop costruiti con cantanti pescati da ogni parte del mondo o gruppi studiati da etichette e agenzie non più esclusivamente coreane. È questo il futuro del K-pop? Tu come lo vedi?
Adattarsi troppo al pop occidentale non credo sia la formula giusta. I BTS hanno avuto successo sul mercato occidentale quando cantavano ancora in coreano, ben prima di passare a brani in inglese come Dynamite. Alla gente il K-pop piace così, non c’è bisogno che sia in inglese, o con la struttura dei brani occidentali pronti per passare in radio. Il K-pop funziona a prescindere da quel modello. La sua occidentalizzazione può aiutare ad allargare il pubblico, ma ho qualche dubbio sul fatto che possa essere un pubblico longevo.

Tu pensi sia possibile, nel breve futuro, un’apertura maggiore verso il K-pop?
Dipende dalla nostra volontà di comprendere una cultura dal suo interno e non attraverso il filtro delle nostre lenti. Molto spesso chi parla di Corea in Occidente lo fa attraverso il nostro sistema di valori che però non è applicabile a quello coreano.

In ultimo, ci lasci 5 brani che ci possano guidare attraverso la storia del K-pop?
SHINee – Ring Ding Dong
Girls’ Generation – I Got a Boy
BTS – I Need U
NCT U – Sticker
NewJeans – Ditto

Credit: Add Editore

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