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Perché Jimi Hendrix è stato il più grande chitarrista della storia?

Abbiamo girato la domanda a Federico Poggipollini, che ci ha spiegato perché, cinquant'anni dopo la morte, Hendrix è ancora unico. C'entrano gli effetti, la tensione delle corde, il fatto che fosse mancino

Foto: David Redfern/Redferns

La mattina del 18 settembre 1970 morì per asfissia causata da una overdose di barbiturici al Samarkand Hotel di Londra. Aveva solo 27 anni. Parliamo di quello che è unanimemente riconosciuto come il più grande chitarrista della storia del rock. Non a caso, secondo la classifica dei 100 migliori chitarristi stilata da Rolling Stone, Jimi Hendrix occupa la prima posizione, precedendo Eric Clapton e Jimmy Page.

A 50 anni dalla scomparsa, abbiamo chiesto a uno dei migliori chitarristi italiani come Federico Poggipollini non tanto di raccontarci la storia di una icona, né tanto meno cosa abbia rappresentato per lui, quanto tecnicamente perché, ancora oggi, Hendrix è considerato un semidio. Fra una pausa e l’altra del lavoro in studio, ha fatto una premessa: «Hendrix rimane uno dei chitarristi più importanti di sempre perché, innanzitutto, non è solo un chitarrista. Con la chitarra ha dimostrato grande talento e ha creato delle novità molto significative sul modo di usarla, ma prima di tutto è un grandissimo musicista. Un enorme compositore. Sia con le cover, ne ha fatte diverse, sia nella parte compositiva dove ha sfornato dei capolavori». E anche il suo percorso, che lo ha portato dall’America dove si cimentava nel classic blues al successo in Inghilterra, è indicativo.

Innanzitutto, bisogna ricordare che «Jimi non voleva essere un cantante. È stato il suo primo manager Chas Chandler, musicista degli Animals, a spingere affinché utilizzasse la sua voce. E alla fine ne uscì una cover meravigliosa di Hey Joe, il suo primo singolo. Lui alla chitarra era già al 100%, dimostrando di avere un enorme personalità fin dal principio».

Ma non è solo questo che lo ha caratterizzato. Da anni i cultori si chiedono in che modo Hendrix fosse in grado di stregare il pubblico attraverso il suono e l’energia che fuoriuscivano dallo strumento. Per Poggipollini molto dipende dal suo essere mancino, ma anche dai rimedi del tutto atipici utilizzati per potersi adattare a questa condizione. «I cultori di Hendrix hanno provato spesso a riprodurre esattamente il suo modo di suonare seguendo in toto l’esempio tecnico, ma non è solo l’essere mancino e l’aver invertito tutto che lo ha reso grande, quanto la sua cultura musicale e l’istinto che lo portava oltre. È grazie a queste caratteristiche che è diventato una icona che poi ha scatenato un culto viscerale. Hendrix aveva un talento mostruoso e ha sperimentato partendo dal blues e arrivando attraverso la psichedelia e il rock a portare lo strumento a degli eccessi mai raggiunti prima».

Un episodio rende l’idea di cosa rappresentò per i suoi contemporanei. «Chas Chandler lo chiamò in Inghilterra e quando arrivò gli chiese di andare ad ​ascoltare i Cream perché ci suonava il suo artista preferito che era Eric Clapton. I due si conobbero e quando Hendrix si esibì per la prima volta Clapton andò a un suo concerto insieme a Jeff Beck. Per loro fu uno choc violentissimo, visto che i due migliori chitarristi dell’epoca si accorsero da subito che quel ragazzo, che forse non aveva ancora idea del suo talento, li stava già superando spazzando via tutto ciò che era venuto prima».

In quanto alla strumentazione, «utilizzava una Fender Stratocaster e riusciva a tirarne fuori sonorità per quegli anni era rivoluzionarie, frutto della sua enorme voglia e capacità di sperimentare. Penso all’intro Hey Joe dove Jimi riesce a trovare con la Stratocaster sfumature di suono inedite che fanno capire come, già nel 1967, lui fosse avanti. Geniale». E la stessa cosa faceva con gli amplificatori e gli effetti, spremendoli come nessun altro aveva fatto. Usandoli in maniera anche anticonvenzionale e letteralmente inventando dei suoni che poi sono diventati riferimenti nella musica rock. «Penso al Fuzz Face, il pedale prodotto da Dallas Arbiter, effetto dal quale Hendrix non si limitava a prendere la classica distorsione che si associa al suono della chitarra elettrica ma sperimentava con quei feedback lancinanti che sono diventati iconici nel suo chitarrismo. Oppure l’Univox Uni-Vibe effetto grazie al quale Jimi riusciva a far oscillare e modulare il suono della Stratocaster come, sino ad allora, si era sentito fare sono ai tastieristi con l’Hammond. Nessuno aveva mai spinto l’acceleratore su una chitarra in quel modo».

Il virtuosismo di Hendrix quindi non era solo nella maniera pazzesca di suonare ma anche in quella di produrre suoni innovativi. Questo avveniva in maniera spettacolare dal vivo, anche se in studio la sua ricerca ha raggiunto l’apice: «Quando registrava utilizzava più chitarre, con arrangiamenti molto complessi che hanno raggiunto l’apoteosi nell’album Electric Ladyland e in alcuni dischi pubblicati postumi, dove c’era l’elaborazione sonora di chi la musica la intende nella sua totalità, con una propensione alla ricerca di situazioni sempre nuove e fino ad allora inesplorate».

Per Poggipollini il fatto di essere mancino è stato un elemento decisivo nella musicalità di Hendrix. «Usava la chitarra da mancino e quindi tutto era al contrario: i pickup, le corde, la leva del vibrato. Tenendola capovolta la toccava e accarezzava in maniera diversa, per cui è difficilissimo riuscire a riprodurre il suo suono». Ma la forza chitarristica di Hendrix stava nell’essere soprattutto un grande musicista. «Ha composto canzoni meravigliose arricchite dalla sua bellissima voce, che a lui non piaceva, ma che era calda e suadente e nello stesso tempo ricca di possibilità, sia nei bassi che negli alti».

«Mi è capitato di provare qualche modello di Stratocaster riprodotta per essere identica a quella di Jimi. E devo dire che il suono in effetti è diverso. Ma nulla che ti possa cambiare la vita e garantirti il suo suono. Perché il vero segreto era quello straordinario talento e tutte queste particolarità. Cose che rendono la sua leggenda immutata, tanto che la celebriamo, a ragion veduta, ancora oggi, dopo 50 anni».

 

 

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