Perché non possiamo avere una Nathy Peluso anche in Italia? | Rolling Stone Italia
nasty girl

Perché non possiamo avere una Nathy Peluso anche in Italia?

Abbiamo intervistato l'artista argentina e siamo stati al suo show a Milano. Si è mangiata il palco, mostrandoci che si può essere popstar facendo musica di qualità; il segreto è il talento, la dedizione, il coraggio di dire no

Perché non possiamo avere una Nathy Peluso anche in Italia?

Nathy Peluso live al Fabrique di Milano

Foto: Leandro Emede

La prima volta che io e Nathy Peluso ci siamo conosciuti, proprie su queste pagine, era il 2018. La sua carriera era agli esordi, ma era bastato un suo live in un festival a Barcellona per farmi decidere di contattare immediatamente il suo ufficio stampa per organizzare un’intervista. L’intervista fu fatta, in tempi record, in un piccolo locale di street food latino. Oggi, invece, siamo in un hotel 5 stelle in centro a Milano. Sette anni in cui la sua carriera è volata, tra album pubblicati (Calambre e Grasa) e nomination ai Grammy (e i Latin Grammy vinti), le cose sono cambiate, e molto, ma lei parla della (sua) musica con la stessa gioia di quei giorni, con la stessa cura. È cresciuta – ora non è più una ragazza, ma una donna di 30 anni consapevole di sé – ma l’attenzione su alcuni passaggi è la stessa: «Ho sempre la necessità di crescere, di essere una persona migliore, un’artista migliore, una donna migliore. La musica è un modo per crescere. Ci vuole disciplina. Perché se smetti di studiare tutto si ferma».

Non molto spesso si pensa al training necessario per essere una popstar, allo studio pratico e teorico che ci vuole affinché le performance si migliorino costantemente. Nathy Peluso però è un’ottima propaganda del lavoro oscuro e quotidiano, non solo fisico ma anche di pensiero, che un artista deve mettere in agenda: «Si deve allenare il corpo, la voce, i muscoli, tutto ciò che serve per esprimersi. Io ballo molto, mi alleno molto. Faccio dieta, e terapia. E mi prendo cura della mia anima; gli artisti hanno un impegno a livello spirituale. Bisogna stare attenti ai segnali del tuo pubblico, di ciò che succede nel mondo, nella tua comunità. Bisogna lavorare molto per essere all’altezza».

«Il mio è uno show intenso, quindi devo essere pronta fisicamente, per ballare, cantare, respirare», mi racconta a poche ore dal suo concerto a Milano che di fatto inaugura il tour di Grasa, uscito oramai quasi un anno fa e che presto porterà l’artista argentina prima negli States e poi in America Latina. Nathy ha ragione: il suo è show intenso, potente, in cui musica, danza, teatro, performance si fondono sotto la guida della popstar che calamita il pubblico presente con una forza attrattiva fuori dal comune.

Foto: Leandro Emede

Fuori dal comune: è questo il pensiero che si aggira tra un Fabrique praticamente sold out in un pubblico composto a grande maggioranza da una folta comunità latina che reagisce cantando e rappando ogni verso. Il suo show, come i suoi dischi, è costruito su continui cambi di genere, dal rap (sia di nuova che di vecchia suola) alla salsa, dal latin pop alla bachata, miscelando ritmi folk latini a sound più contemporanei. Da questo punto di vista, anche lei si unisce a quella schiera di artisti in lingua spagnola (Rosalía, Bad Bunny) che stanno compiendo un grande lavoro di ricerca, recupero e modernizzazione del proprio folklore, qui rappresentato da generi come la salsa, la bachata, il bolero: «Il folklore mi commuove da sempre, anche al di fuori della musica, mi tocca delle corde. Mi affascina in un modo per cui sento il bisogno di condividerlo e amplificarlo, di farlo conoscere». La partecipazione, tra magliette della nazionale argentina e bandiere, è a suo modo folkloristica.

Prima di arrivare a Grasa, di cui è da poco uscita una versione club («Volevo scoprire come i miei pezzi potevano essere interpretati da altri producer»), Nathy ha cestinato un intero album. Una scelta piuttosto singolare in un’epoca del pop in cui l’obbligo è pubblicare, nel bene e nel male, piuttosto che cancellare. Ma che rapporto ha lei con il fallimento? «Il fallimento è necessario. Se non falliamo come possiamo migliorare? Bisogna aver coraggio, sapere che dire dei no può renderti più forte». E questi no sono un’altra cosa imparata in questi anni? «In parte, sai, imparare a dire dei no è una fondamentale, a volte pensi di perdere tempo, di perdere opportunità. Ma quando dici di no si creano spazi in cui possono entrare altre cose. Bisogna credere nella propria intuizione».

Ventisei canzoni per quasi due ore di show a un ritmo incalzante. Nathy tiene in scacco l’emotività del pubblico alternando momenti più melodrammatici (Corleone, Mafiosa) a blocchi più street (come il trittico Todo Roto, Nasty Girl, Corashe), occupando il palco con un uso sfacciato ma controllato del proprio corpo. Il controllo, in fondo, è la chiave della sua filosofia, visto che è anche co-produttrice delle sue canzoni e art director dei suoi video (Grasa è stato accompagnato da tanti video originali quanti brani in scaletta): «Ho bisogno di avere il controllo sulla creatività, sul progetto, perché è tutto necessario far arrivare al meglio ciò che voglio trasmettere. Solo così il mio messaggio può essere davvero chiaro». Comunicare, dialogare, trasmettere un messaggio. Sono questi i termini cardine che risuonano nei suoi lavori così come in questo Fabrique stracolmo di entusiasmo.

Foto: Leandro Emede

Nathy Peluso è una popstar completa, che potrebbe ambire ben oltre ciò che sta ottenendo oggi, eppure in una recente intervista spagnola a El Pais (vive a Madrid da anni) ha dichiarato: «Non voglio essere una popstar che riempie gli stadi, voglio essere una popstar in contatto con la propria arte». In un’epoca dove tutti puntano ai numeri, è una dichiarazione che suona controcorrente. Le chiedo il perché: «Aver molto pubblico non significa sempre che quello che stai comunicando sta arrivando. A volte meglio un pubblico più piccolo con cui si riesce a scambiare davvero un’emozione, anche se parliamo davvero di poche persone. Se devo essere una popstar da stadi voglio arrivarci con onestà, con qualcosa di profondo capace di durare».

A sette anni da quel primo incontro, Nathy Peluso ha mantenuto le sue promesse. Voleva diventare una popstar internazionale e lo è diventata, voleva continuare a fare musica di qualità e ci è riuscita con facilità, voleva indagare il folklore delle sue radici e i suoi dischi sono qui a dimostrarci che anche questo obiettivo è stato raggiunto. E per ottenere tutto questo ci ha messo dedizione, lavoro, studio. Guardando la risposta del pubblico nel ritrovarsi nei messaggi di empowerment di cui sono infarcite le canzoni di Nathy, che restano pop anche affrontando tematiche politiche (“Tutti vogliamo la rivoluzione, ma chi le dedica un momento?”, rappa in Aprender a amar) non viene che da chiedersi: perché non possiamo avere una Nathy Peluso anche in Italia?

Altre notizie su:  Nathy Peluso