Durerò fino alla fine. È questo il significato di Perdurabo, nome del progetto musicale elettronico di Davide Arneodo, polistrumentista dei Marlene Kuntz che ha da poco pubblicato il suo primo disco solista, Magnetar. Etereo e cupo, ma non privo di aperture pop, è un lavoro nato e cresciuto sulla triangolazione Cuneo-Berlino-Londra e, anche per questo, è ricco di influenze musicali articolate e collaborazioni internazionali. Tra i numerosi ospiti dell’album, ci sono infatti il produttore Gareth Jones noto per i lavori con Depeche Mode, Nick Cave ed Erasure; il chitarrista degli Einstürzende Neubauten, Jochen Arbeit; e il batterista di Apparat Jörg Wäehner, musicista che di fatto accompagna Arneodo fin dai primi giorni dell’epopea Perdurabo.
Sentiamo al telefono Davide Arneodo in un momento di pausa del tour di Catartica e ci facciamo raccontare la genesi di Magnetar, partendo proprio da un concerto di Apparat. «Nel 2012 ho visto Apparat live al Caregnano di Torino e mi ha fulminato. Io sono un musicista che arriva dalla classica, mi è sempre interessato andare oltre i confini dei generi, ma fino a quel momento non pensavo che l’elettronica potesse essere così potente, organica e avvolgente dal vivo. Nella mia testa me la immaginavo fatta al computer, prodotta in studio, fredda dal vivo. Così è successa la magia. Dopo quel concerto ho conosciuto Sasha (l’artista dietro il nome Apparat, ndr) e i suoi musicisti, e ho connesso in modo speciale con Jörg, il batterista. L’anno dopo, in un momento di pausa dalle rispettive band, sono andato a Berlino e abbiamo iniziato a fare musica insieme».
Perché ci sono voluti oltre dieci anni per pubblicare Magnetar?
Me la sono presa comoda per dare respiro a quello che stavo facendo, senza ansie e senza deadline. Se fai parte di un’altra band hai un lavoro ben strutturato da seguire – fai il disco, fai il tour – e sia io che Jorg volevamo uscire da quella dinamica. Considerate che l’attività con i Marlene è abbastanza totalizzante e poi c’è il discorso economico, quanto costa fare un album di questo livello da indipendente, ma non avrei mai immaginato di impiegarci 10 anni.
Se dovessi descrivere il sound del disco a qualcuno che non ha mai ascoltato Perdurabo, come presenteresti il tuo lavoro solista?
Magnetar è un insieme di influenze, rispecchia la mia vita musicale. Ci sono dentro la classica, l’elettronica e il rock. Sono un violinista, un musicista classico di formazione: alcune parti elettroniche sono sì suonate con un sintetizzatore, ma potrebbero avere forme compositive tipo Bach. L’elettronica è un mondo musicale vasto e vicino alla classica sia per sfumature che per profondità. E poi c’è certamente il rock, per via della mia esperienza di anni e anni di concerti e album con i Marlene. È un album organico, con degli up & down, momenti cupi alternati a momenti di luce, e non mancano passaggi più pop e accattivanti per chi non appartiene a un mondo musicale di super-nicchia. Per questo il produttore è stato fondamentale, mi ha aiutato a scegliere i pezzi giusti e costruire la scaletta dell’album.
Come sei finito quindi a lavorare con Gareth Jones?
Lui è un produttore inglese leggendario. Ha lavorato con i Depeche Mode e ha prodotto tanti dischi storici della Mute Records. Poi si è trasferito a Berlino, agli Hansa Studios, dove ha lavorato con Nick Cave ed Einstürzende Neubauten, e infine anche con Apparat. Messi in fila sono gli artisti che ho amato di più. L’ho contattato e lui mi ha invitato a Londra per ascoltare insieme i demo, oltre 30 tracce fatte in 10 anni. Alla fine mi ha guardato e mi ha chiesto: “Tu cosa vuoi esattamente da me? Questo album è già prodotto”. Questa domanda mi ha dato molta fiducia, era la dimostrazione che apprezzava il mio lavoro, non voleva intaccarne l’originalità. “Va solo fatto suonare meglio!”, mi ha detto, e quindi si è offerto di mixarlo. Gareth è stato una guida spirituale, si è messo al servizio della musica: lavorare con lui è stato un processo formativo importante, potente.
Qual è invece l’influenza di città come Berlino e Londra nel disco?
Alla fine ho vissuto quasi cinque anni a Berlino, è una città che mi ispira molto ed è lì che ho assorbito la maggior parte delle influenze musicali ed estetiche di Magnetar. Londra è arrivata successivamente per due motivi. Il primo è che volevo che alcune canzoni fossero cantate in inglese: ho una fascinazione per l’inglese, per la scrittura e la musicalità di quella lingua. Molti dei cantanti coinvolti li ho conosciuti a Berlino: Tom Adams, per esempio, è un cantautore inglese che viveva lì. Anche Daudi Matsiko è un altro cantautore inglese molto bravo. Infine c’è Echlo, che invece è canadese, ma anche lei l’ho incontrata a Berlino. Sono tutte connessioni della vita reale degli ultimi dieci anni. Le voci sono state poi registrate in Inghilterra ed è così che ho iniziato a lavorare con Londra, capendo che è ancora una città centrale in questo ambito, l’industria musicale inglese è ancora molto potente e le grandi connessioni, a livello di label oppure publishing, si fanno lì.
La protagonista del video del singolo Dark Fire è una ballerina e un elemento simile c’era anche nel tuo primissimo video, Leads Me Outside, uscito nel 2015. Cosa ti lega alla danza, tanto da essere un altro filo conduttore del tuo lavoro?
Mi è sempre piaciuta la danza: come la voce umana, il movimento del corpo umano è qualcosa che ti riconnette con una dimensione primordiale, ancestrale. Per il video di Dark Fire ho avuto la fortuna di entrare in contatto con Filipa Cavaco, una ballerina dello Staatsballett Berlin: fanno danza classica e contemporanea ed è la compagnia più grande e antica di tutta la Germania. Lei è strepitosa, mi ha regalato una performance indimenticabile.
Ma anche a te piace ballare?
Io sono rigidissimo! Riesco a ballare solo quando suono sul palco, lì mi lascio andare.
A proposito di immagine, oltre la cura per i videoclip, c’è un grandissimo lavoro sul packaging del disco per cui hai collaborato con un altro artista internazionale: come sei arrivato all’americano Andy Gilmore?
Tanto seguo la parte musicale quanto quella estetica. Volevo che l’album raccontasse anche così questi ultimi dieci anni. Ho cercato tra gli artisti che mi ispiravano e sono arrivato alla conclusione che Andy Gilmore, un artista contemporaneo digitale newyorkese, potesse essere la persona giusta. E anche con lui ha funzionato come con Gareth: entrambi hanno lavorato con me perché gli è piaciuto il progetto. Andy ha disegnato quattro cover, tre per i singoli e una per l’album finale: io gli davo delle idee che lui rielaborava. Tra colori, forme e geometrie, il risultato è molto vicino al sound dell’album e all’estetica di Perdurabo.
E tutto ciò è legato al titolo dell’album, giusto?
In tutti questi anni, l’unica idea costante è stata quella di un’emanazione di luce dal buio, così abbiamo lavorato su questo piccolo faro stilizzato che emana luce viola. Il Magnetar è una stella di neutroni che durante la fase morente passa da una massa di 35-40 volte quella del sole a 20-30 km di diametro, diventa super-luminosa e super-magnetica. È una metafora: non ce la passiamo troppo bene, sono tempi bui, che sia il buio interiore di una singola persona o il buio globale che dobbiamo affrontare tutti. La musica e l’arte aiutano a sublimare tutto questo in luce.
Per chiudere, visto che hai spiegato il titolo del disco, facciamo un ultimo passo indietro. Cosa significa Perdurabo, perché hai scelto di chiamarti così?
È un termine latino che significa “durerò fino alla fine”, una parola che ho scelto come monito. Quando è iniziato tutto facevo già parte dei Marlene Kuntz e volevo per me un nome significativo per fare musica elettronica da solista. Sapevo che sarebbe stato difficile perché l’industria musicale è complicata, non è peggiorata ma è in continua evoluzione. Da un punto di vista tradizionale ci sono tanti aspetti negativi, ma ci sono anche tante opportunità pronte ad aprirsi. Quindi Perdurabo è un motto di forza interiore, mi ricorda che devo continuare a lottare quotidianamente per l’obiettivo che mi ero prefissato.