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Perturbazione: «Basta luoghi comuni, reinventiamo la grammatica dell’amore»

Il concept album della band torinese ‘(dis)amore’ è costruito come una sequenza di immagini da montare, per ottenere la storia di una coppia. Dentro ci sono un po' di Ginzburg, di Carver e di autobiografia

I Perturbazione tornano con un nuovo disco intitolato (dis)amore – sul mercato dal 29 maggio, stampato dalla label Alabianca – inciso con la formazione ormai stabilizzatasi dal precedente Le storie che ci raccontiamo: Tommaso Cerasuolo (voce, percussioni), Cristiano Lo Mele (chitarre, mandolino, tastiere, programmazione, percussioni), Alex Baracco (basso, contrabbasso, chitarre) e Rossano Lo Mele (batteria, percussioni). È un lavoro “importante”, come si intuisce dal numero di brani (ben 23) e dall’impalcatura che lo sorregge, ossia quella del concept album. Abbiamo fatto una chiacchierata con Tommaso, voce del gruppo, per capire come è nato (dis)amore e farci raccontare un po’ di backstage, dall’idea alla realizzazione.

Sono passati praticamente quattro anni dall’album precedente. Cosa è successo nel frattempo e come mai ha impiegato così tanto a nascere il disco?
Non è una domanda banale. In primis perché è più difficile fare i dischi adesso, per la nostra generazione: se non vuoi farli uscire senza che nessuno lo sappia, ci vuole un po’ di lavoro. Il nostro rapporto con Mescal si era concluso verso la fine del 2016 e ci è voluto un po’ di tempo per riuscire a ri-coagulare una bella squadra intorno a noi. È stato un percorso faticoso, ma anche funzionale al fatto che, in realtà, è stata lunga la scrittura dell’album. Avevamo voglia di dare un respiro ampio e narrativo al disco, ma senza rinunciare alla forma canzone che è il nostro linguaggio.

In che modo avete tradotto questo desiderio?
Elaborando una serie di istantanee che – assemblate – mostrano un quadro più grande, una storia. Questo nasce anche da alcune cose che abbiamo già fatto contaminando il nostro linguaggio con quello del teatro. Ad esempio avevamo fatto un bellissimo lavoro col Teatro Stabile di Torino, con un giovane regista che si chiama Leonardo Righi, alla fine 2016, sul teatro di Natalia Ginzburg. Erano tre suoi testi teatrali – La segretaria, Dialogo e Ti ho sposato per allegria – messi in scena in una trilogia che si chiamava Qualcuno che tace, proprio perché l’assenza è uno dei perni della sua narrazione. Questa cosa qui ha fatto sì che scrivessimo alcune delle canzoni che ci sono nel disco: non tantissime, sono 3-4, ma costituiscono un’ossatura sulla quale, con Rossano, abbiamo cominciato a ragionare del fatto che ci sono tanti luoghi comuni sulla canzone d’amore.

La classica sindrome dello stereotipo sole-cuore-amore…
Però alla fine tante canzoni d’amore che amiamo seguono una grammatica diversa, rispetto a questo argomento. Pensa agli Smiths, ai Cure, ai R.E.M. e a come hanno insegnato che si può parlare di una cosa crudelissima in un modo ironico. E non si deve per forza assecondare la malinconia dei testi con la malinconia nella musica: si può andare in direzioni diverse. Ma soprattutto si può parlare anche di tutte quelle che sono le crepe del vaso, dei vuoti invece che dei pieni. E questa era un po’ ciò che avevamo in mente: le assenze piuttosto che il modo in cui pensiamo di essere, per esempio, noi stessi quando ci innamoriamo – ma in realtà siamo completamente perduti. Un’altra cosa che ci aveva colpito era l’idea che al colpo di fulmine si concede il beneficio dell’irrazionalità, nell’innamoramento. Invece nel disamoramento è come se tutto dovesse avvenire in modo razionale, scientifico: “Perché mi hai lasciato? Troviamo le ragioni”. Come se invece non dipendesse di nuovo da elementi magici, incontrollabili, forze molto più grandi di noi che ci governano.

E qui veniamo dunque alla coppia “fotografata” nel disco.
Sì: tutta questa cosa volevamo raccontarla attraverso due protagonisti che rimanessero, come dire, tratteggiati attraverso un po’ tutto quello che sta attorno a loro. Addirittura scrivevamo pensando a degli indumenti, cioè dicendo qual è il guardaroba di questi due? Abbiamo pensato alle canzoni che potevano ascoltare queste due persone, tantissimi dettagli…

Avete creato proprio un mondo narrativo, come si fa quando si scrive un romanzo.
Ed è bello giocarci sui social: cerchiamo di evocare tutti questi dettagli attraverso delle fotografie fatte insieme a Matteo Baracco e a Luigi De Palma. E un po’ anche attraverso appunti, come i post-it che si lasciano sul frigo: il frigo è stata una metafora anche funzionale, è una cosa che hanno tutti, di massa, ma che ognuno personalizza a proprio modo. È una delle tante cose in cui ti riconosci… però riconoscersi e vedere quanto siamo simili può far scaturire una grande solitudine nell’essere umano oppure un senso d’empatia. È una sottile linea, quella cosa lì.

(dis)amore è un concept di ben 23 brani: un’informazione tosta da processare, come impatto.
Un mattonazzo (ride). Infatti si potrebbe pensare che ci spariamo sui piedi, ma ce ne freghiamo: bisogna anche rischiare. Abbiamo fatto dischi interessanti proprio quando ci siamo lasciati più andare. Penso a Del nostro tempo rubato e In circolo: c’era voglia di rischiare. Una cosa interessante, secondo me, di questo album è l’idea di lavorare su canzoni piccole: volevamo tante piccole fotografie. Così ci sono diversi pezzi da due minuti, addirittura un minuto e mezzo… delle istantanee. Abbiamo cercato di scrivere questa storia quasi come un film. E quando ci siamo messi a dire “o ne tagli metà e fai un disco normale, ma perdi quel tipo di cosa, oppure fai un disco imperfetto, ma molto più interessante”, abbiamo deciso di farlo come lo avevamo pensato.

Mi sembra ci siano quadretti alla Raymond Carver.
Hai detto bene: abbiamo cercato anche di aprirci un po’ a sperimentare da quel punto di vista. Il ragù, per esempio, è una canzone meno Perturbazione come stile.

Infatti appena l’ho sentita ho detto: “Questo è un Carver”.
Sì, l’ha scritta Rossano e mi piaceva tantissimo perché attraverso pochi dettagli c’è il modo di vivere di loro due. E la violenza, che sta nell’idea della morte che sfiora il loro vissuto quotidiano fatto, invece, di tenerezza ma anche di cose che non vuoi tanto vedere e tenti, giorno per giorno, di mettere sotto il tappeto. Ne abbiamo tante: sono gli scheletri nell’armadio – che possono anche essere le idee che ci spaventano.

Quanto vissuto c’è in questa storia?
Ci sono tante cose autobiografiche in questo disco, ma non è un disco autobiografico. Lo è nel senso che a 45-50 anni, come abbiamo noi, tendiamo ad aver visto molti amici che hanno vissuto cose simili o ci siamo già passati in prima persona. Abbiamo sentito o visto tante storie di gente che affronta questi disastri qui e non tutti li vivono nello stesso modo, non sono tutti uguali.

Avevate il disco pronto ed è arrivato il lockdown: tutto si è fermato. Come state vivendo la situazione? Farete delle cose? Cosa vi siete inventati per promuovere l’album?
È molto triste rinunciare alla parte dal vivo, ma abbiamo dovuto cancellare gli spettacoli di presentazione che avevamo organizzato a maggio insieme a Francesco Montanari. Volevamo mettere insieme, tra l’altro, le canzoni con dei narratori italiani che in parte ci sono serviti da ispirazione, compresa la Ginzburg. Volevamo proprio giocare con musica e parole. Con Alabianca, l’etichetta, abbiamo visto che c’era – di comune accordo – la volontà di non rimanere troppo congelati e paralizzati: dopo alcuni rinvii, appena si è aperta una finestra abbiamo detto “usciamo col disco” – che per la prima volta arriva in contemporanea su vinile e CD. Perché le cose devono accadere e uscire ti dà anche un senso, non tanto di ripartenza, ma proprio di lotta, di resistenza, che è una parola che mi piace di più. Purtroppo non si potrà suonare molto dal vivo, ma ci inventeremo come tutti delle cose piccole: magari suonare in un cortile, in acustico.

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