Il 21 settembre 2011, il cantante Michael Stipe, il bassista Mike Mills e il chitarrista Peter Buck, della band di Athens, Georgia, chiamata R.E.M. hanno pubblicato una dichiarazione sul loro sito, in cui dicevano che avrebbero concluso la loro carriera come gruppo. I R.E.M., fondati nel 1980 assieme al batterista Bill Berry, che lasciò nel 1997, sono stati i populisti della svolta underground americana, applauditi dalla critica con il loro album di debutto del 1983, Murmur, e subito lanciati verso i successi multi-platino di Out of Time del 1991 e Automatic for the People del 1992 (che insieme hanno venduto 8 milioni di copie). Senza mai tradire i loro ideali creativi e culturali.
Ma quando i tre membri rimasti della band hanno deciso di dividersi, Peter Buck ha celebrato l’avvenimento compilando una lista delle cose che ha iniziato ad odiare del music business, durante la vita passata con i R.E.M. «Era lunga cinque pagine», ha detto Buck in una rara intervista di fine gennaio, rilasciata durante la preparazione della quinta edizione del suo festival Todos Santos Music Festival, dell’omonima cittadina della Baja California, dove ha una casa.
E cosa c’era su quelle cinque pagine? «Di tutto», risponde Buck brevemente, bevendo del succo d’arancia in un bar, mentre i suoi amici Jayhawks fanno il loro soundcheck dall’altra parte della strada. «Tutto tranne scrivere canzoni, suonare e registrare. C’erano i soldi, la politica, dover conoscere persone nuove per 24 ore ogni giorno, non poter decidere per me stesso».
Anche fare gli album dei R.E.M. era diventato un problema. «Dopo l’invenzione di Pro Tools», dice Buck, «non mi divertivo più. Abbiamo fatto un paio di album in cui ho pensato, “Non so neanche se è un album. Sono solo dei suoni che abbiamo messo assieme”».
Ma più di ogni altra cosa, «odio il business», dice Buck, deciso. «E non volevo più averci niente a che fare».
Il chitarrista ha visto i suoi desideri avverarsi. Buck, oggi 59enne, è una delle ex-rock star più impegnate d’America, anche se in pochi lo sanno. Questo è perché fa quasi tutto nell’ombra, registrando dischi e facendo serate con i suoi amici più stretti. Suona in band come i Minus 5, un vecchio progetto creato insieme all’ex chitarrista dei R.E.M., Scott McCaughey, e i Filthy Friends, una nuova formazione che Buck ha messo in piedi con Corin Tucker delle Sleater-Kinney. Buck ha recentemente prodotto il nuovo album dei Jayhawks, Paging Mr. Proust. È anche un testardo, eccentrico artista solista, che incide bizzarri album in vinile come I Am Back to Blow Your Mind Once Again del 2014 e Warzone Earth dell’anno scorso, con la piccola e indipendente Mississippi Records.
Fino alla nostra conversazione di gennaio, Buck e io non avevamo mai parlato della fine dei R.E.M. Ho scritto per la prima volta di loro nel 1982, dopo aver visto un concerto torrido alla Danceteria di New York, e ho intervistato la band regolarmente nei successivi trent’anni. Ma Buck è stato l’unico membro del gruppo con cui non ho mai parlato, ufficialmente, dal tempo della separazione. In realtà, Buck – che vive a Portland, Oregon, con sua moglie Chloe Johnson e due figlie, avute da un matrimonio precedente – era in isolamento a Todos Santos nel momento in cui hanno pubblicato l’annuncio. «Voleva stare lontano da tutto», ha detto McCaughey durante un giorno del festival di quest’anno. «La band è stata la spinta della sua vita ed è stato un grande cambiamento per lui. Non voleva parlarne».
Ma, mentre beveva quel succo d’arancia, raccontando la genesi del suo festival a Todos Santos e sottolineando il piacere, oltre allo stress, che deriva dall’organizzare una festa di tre giorni con i suoi musicisti preferiti, Buck è stato diretto, aperto e anche divertito nel ricordare la sua vecchia band, nel parlare della decisione unanime di fermarsi e nel commentare le amicizie che sono sopravvissute durante questi trent’anni passati all’interno di un business che non sopportava. Anche i suoi amici hanno parlato di lui, con il massimo rispetto.
«È il padrino», dice il cantante-chitarrista Steve Wynn, che suona con i Buck in the Baseball Project — un gruppo che propone nient’altro che canzoni originali sull’America del passato – e che l’ha incontrato per la prima volta nel 1984, quando era nei Dream Syndicate. «Da un lato conosce quello che vuole musicalmente. Ma è anche un avvocato, rigido. Ho delle cassette nel mio armadio con tutte le cose che Peter mi ha dato – il primo album degli Hüsker Dü, il primo album dei Replacements, Love You dei Beach Boys con la sua firma sull’etichetta. Ci siamo trovati subito, siamo entrambi grandi appassionati di musica, pieni di passione e con la voglia di spaccare tutto».
I R.E.M. hanno recentemente firmato un accordo di licenza con la Concord Bicycle Music per gestire il loro catalogo Warner Bros. Ma oltre alle riunioni di business, come spiega Buck, è rimasto legato a Mills, che suona e canta per tutta l’edizione di questo Todos Santos, e Stipe. «Ho cenato con Michael tre settimane fa», sotto linea Buck. «Ma vedo Mike più spesso perché gli piace uscire per andare ai concerti. E quasi tutte le band con cui suono, suonano anche con lui».
Chi ha iniziato a parlare di concludere la carriera dei R.E.M.?
Eravamo a Bergen, in Norvegia (nel 2008, ndr). Mi piace molto Bergen. Volevo visitare la città. Avevo quattro ore libere e invece, ci piazzarono un incontro di tre ore. Ero incazzato. Stavamo parlando del fatto di aggiungere qualche data al tour. C’erano molti soldi in ballo, ma non volevo partire. Non dirò dove. Ho guardato gli altri e ho detto, «Se questo è il nostro ultimo tour, non voglio finire con due show mezzi pieni». E mi risposero, «OK». Per l’ultima data eravamo a Mexico City. Siamo come i Beatles lì. È stato bellissimo per noi. E ho detto, «È un po’ triste». E Michael mi rispose, «Sì, un po’. Probabilmente non suoneremo mai più queste canzoni insieme». Gli ho risposto che forse aveva ragione.
Ma stavamo registrando il nostro ultimo album, Collapse Into Now. Non abbiamo fatto nessun annuncio o altro. Ci siamo ritrovati un giorno e Michael ha detto, «Penso che voi mi capirete. Devo stare lontano per qualche tempo da questo». E io gli ho risposto, «Che ne dici di per sempre?» Michael ha guardato Mike, e Mike ha detto, «Mi sembra giusto». Ecco come abbiamo deciso.
Siete stati straordinariamente tranquilli, pur dovendo decidere qualcosa di così importante.
Ci siamo sentiti come se avessimo fatto un ultimo grande album. Sono molto orgoglioso degli ultimi due che abbiamo fatto. Accelerate è nella mia top 5. Ma eravamo arrivati al punto in cui volevamo andare per le nostre strade. Non volevamo continuare a fare canzoni vecchie di vent’anni. Una cosa evidente di noi tre è che nessuno di noi ha mai fatto niente per farsi notare. Facciamo le nostre cose, ma non andiamo mai ai talk show, non partecipiamo ai reality o non formiamo dei supergruppi. Collapse Into Now è stato il nostro ultimo album con una major. Non voglio mai più essere sotto contratto con una label.
Qualcuno ve l’ha chiesto?
Bertis (Downes, il manager dei R.E.M., ndr), il suo lavoro è tenere le persone lontane da me, quindi non ho idea. Sono sotto contratto con la Mississippi Records, ho firmato io stesso per loro.
Hanno un bellissimo store a Portland.
Hai visto gli album che Eric (Isaacson, co-fondatore, ndr) produce: musica africana psichedelica, gospel e blues. Gli ho detto, «Hey, Eric, sto facendo un album solista, vuoi farlo uscire sulla tua etichetta?» Mi ha chiesto cosa mi aspettassi in termini di promozione e gli ho risposto «Nulla». Mi ha chiesto se volessi fare CD o download digitali e gli ho risposto «Niente». Solo vinili. Si è sentito risollevato. Mi ha poi detto che che aveva paura fosse l’ennesimo album del chitarrista della band X che suonava esattamente come la band X, solo che con un cantante peggiore. È stato contento che l’album fosse così incasinato.
Come descriveresti la tua giornata tipo da musicista?
Non ho una giornata tipo. Mai. Suono la chitarra quasi tutti i giorni. Quando devo scrivere, l’ispirazione tende ad arrivarmi all’improvviso. A volte mi do degli obiettivi per cui non sono pronto, quindi passo ore ed ore ad abbozzare cose per sembrare pronto. «Ho una giornata in studio sabato, vediamo cosa potrebbe uscire». Il lavoro e la mia vita sono più o meno la stessa cosa per me. In passato, erano due cose separate. Il mondo si fermava quando dovevo lavorare. E poi ricominciava a girare quando avevo finito. Ora lavoro a casa. Registro spesso a Portland. Non ho girato molto in tour. Faccio un tour come cantante solista, magari, un altro prima di diventare troppo vecchio. Ma sono a posto suonando la chitarra nei Jayhawks quando manca qualcuno.
Quando hai fatto i tuoi tre album da solo, hai pensato che fossero delle vere espressioni personali o solo un mucchio di canzoni?
Il primo (Peter Buck del 2012, ndr), beh, non avevo mai cantato prima di allora. Non ero molto bravo. Abbiamo registrato in cinque giorni. Quello che mi piace fare è preparare quattro o cinque pezzi scritti, andare in sala prove, suonare per un pomeriggio, poi incidere dal vivo con un take solo. Nel nuovo album, penso che ci siano solo due parti vocali sovraincise. Suono nella stessa stanza della batteria, del basso e della chitarra. Gli strumenti sono a 120 decibel e io urlo. È come lavoravano i Pretty Things, penso.
Quando guardi a quello che hai fatto con i R.E.M., oltre alle cose che hai odiato, cosa vedi?
Sono molto orgoglioso del fatto che abbiamo finito nel 2011 con gli stessi ideali con cui abbiamo iniziato nel 1980. Sono molto orgoglioso del nostro lavoro. Ci sono un paio di album che non sono ottimi. Ma ci sono anche un paio di album di Bob Dylan che non sono ottimi…
Quando vi siete accorti, con i R.E.M., che avevate raggiunto i vostri ideali?
Negli anni Ottanta. Eravamo al centro di questo piccolo movimento culturale che era essenzialmente formata da ragazzi del college. Parlo alle persone di una certa età e tutti mi dicono che sono stati influenzati da noi. Detto questo, molti pensano che Automatic for the People sia il nostro miglior album, ed è stato subito dopo il nostro momento di picco culturale. Mi piace il fatto che anche se ci siamo allontanati, non ci siamo mai sparlati alle spalle o denunciati per qualcosa. Tecnicamente, ci siamo separati. Ma non l’abbiamo fatto davvero. Stiamo semplicemente non facendo album nè tour.
È una vita interessante: siete tutti molto attivi ma non molto visibili. Tipicamente, invece, le band si formano per attirare attenzioni. Questa era la carriera per cui hai combattuto con i R.E.M., andare nelle arene con gli stessi ideali che avevate quando vi ho visti alla Danceteria di New York nel 1982?
È divertente perché ho fatto un tour con Alejandro Escovedo (cantautore statunitense, ndt) e il suo management mi ha chiesto un press kit. «Non ho un press kit», gli ho detto. Perché avrei dovuto avere un press kit? Chiunque viene a un mio show o mi conosce o non mi conosce. Poi mi hanno chiesto anche una foto per la stampa. Ho mandato una foto che avevo a disposizione, di me con in testa una maschera da scimmia, mentre ballo in strada (è la cover del suo singolo del 2013 You Must Fight to Live on the Planet of the Apes, ndr). Nessuno se ne occupa. Non voglio avere a che fare con tutte quelle robe. «Cosa dirà il press kit?», non mi interessa. Fate qualcosa e va bene.
Hai dell’interesse, personalmente, a scavare nel catalogo dei R.E.M. per fare qualche edizione speciale o qualche antologia, come hanno fatto Bob Dylan e gli Stones?
Non abbiamo molto materiale in studio non finito. Probabilmente potremmo fare un album di canzoni che abbiamo pensato fossero troppo scarse per finire sugli album. Michael generalmente non finiva i pezzi se non era convinto. Non ne avevamo 20 per ogni album. Ne avevamo 14, e 12 finivano sull’album. Le altre due finivano sul lato B dei singoli. Se non avessimo già pubblicato tutti i pezzi da lato B possibili, avremmo un bel doppio CD di canzoni non male. Ma non ci penso molto. Sarebbe bello che la musica potrebbe continuare a essere sotto gli occhi di tutti. E in un certo senso, lo è già ora.
Come vedi il mondo del rock di oggi? I R.E.M. si sono goduti il loro successo nel periodo migliore?
Stavo parlando con Colin Meloy (dei The Decemberists, ndr). Mi diceva, «Vi siete ritirati giusto in tempo. I festival fanno schifo. Hanno tutti quel cazzo di tendone. I ragazzini sono tutti fatti, camminano, urlano mentre suoni, e c’è questo battito per tutta la notte». L’ultima cosa che mi ha colpito sono state le riot grrrl. Sono appena andato a Seattle per vedere le Bratmobile, Bikini Kill e Sleater-Kinney, davanti a venti persone. Queste sono band che hanno cambiato il mondo. Quando io e Corin Tucker siamo in giro a lavorare insieme, continuo a incontrare ragazzine di quindici anni che le dicono quanto la sua musica abbia voluto dire per loro. Ma per fortuna la buona musica c’è sempre. La trovo tutti i giorni.
Pensi che, tra i vostri amici e colleghi, ci sia ancora quel senso di comunità che univa le band underground negli anni Ottanta?
La maggior parte delle persone con cui parlo qui hanno tutte un album in uscita. Il mio ultimo lavoro è uscito due mesi fa. È qualcosa che diventa parte della tua vita. Che hai iniziato tu a fare e che continui a fare. Ho perso i contatti con molti amici, perché non vanno in tour o non registrano. Hanno dei lavori o dei figli. I figli sono un lavoro. Non tutti sono così fortunati da poter fare questo nella vita.
Prendi tutta la classe dal 1981 al 1984 — non sono sicuro che saresti riuscito a indovinare chi sarebbe rimasto a fare album a 30 anni di distanza. Io avrei puntato tutto su una band che vendeva un milione di album a ogni uscita, di cui tutti avrebbero detto «Wow, questi ragazzi stanno raccontando davvero qualcosa dell’America». Non so cosa sia successo in quegli anni. Anche quando sei fortunato, è dura farcela. E quando non sei fortunato, è davvero dura. Ma io sono sempre stato fortunato.
Ad un certo punto a metà anni Ottanta, le case discografiche hanno capito come fare, come dirigere il music business come se stessero vendendo fagioli. Quando è successo, tutto si è riempito di regolamente. E le persone hanno iniziato a farci più attenzione. Ora tutti quanti sanno come fare questo lavoro. Formi una band, registri qualcosa, lo metti su Bandcamp, fai un piccolo video su Youtube. Non voglio sminuirlo. Ma prima era il Far West. Adesso è Hollywood.
Ovviamente non ho 21 anni. Non esco con gli amici di mia figlia. Ma non vedo nessuna band di 21enni che mi fa dire «Cazzo, eccoli qui!». Mettono in piedi delle band perché possono guadagnarsi da vivere. E non c’è niente di sbagliato in questo.
Non avete formato i R.E.M. per guadagnarvi da vivere?
No. Pensavo che avremmo fatto un paio di album, e poi saremmo diventati i tizi che stanno al record store e che la gente riconosce, «Hey, ha fatto un album figo nel 1983». Non mi aspettavo di guadagnarci da vivere. Non ho mai avuto una macchina di proprietà. Ho comprato tutti i miei vestiti usati. Ho comprato una casa ma mi è costata 52 mila dollari. Ero il primo dei miei amici ad avere una casa. «Non è male», mi dicevo. «Ha anche due camere da letto extra, quindi posso affittarla e pagarmi il mutuo».
Sono stato fortunato. Non avrei mai dovuto lavorare se non avessi voluto. Ma lavoro molto. Il mio ragioniere me lo dice sempre: «Lavori un sacco. E non vieni mai pagato per quello che fai».