Nella musica italiana di talenti di livello globale non ce ne sono tantissimi, scandagliando tutti i generi possibili. Ma ecco: potete stare certi che uno di questi è Gianluca Petrella. Barese, classe 1975, magari non l’avete sentito nominare ma è un nome conosciutissimo nei giri del jazz duro e puro, e lo è già da tempo immemore. Ancora adolescente, primi anni ’90, già iniziava a bazzicare nelle prime formazioni delle parti sue; poco più che ventenne era già sotto l’ala protettrice di sua maestà Enrico Rava, il vero gigante del jazz italiano (che ancora oggi, a ottant’anni passati, è molto più visionario, coraggioso ed avanguardista del 90% dei colleghi). Da lì è stata una esplosione di collaborazioni d’altissimo livello, conoscenze, cursus honorum trionfale (primo italiano in assoluto ad essere votato da Down Beat, la bibbia del jazz mondiale, fra i migliori artisti emergenti al mondo, anno 2006). Era già tutto ottimo e abbondante, insomma: un posto riservato fra i grandi sacerdoti della scena, su scala sia nazionale che internazionale. Nulla di cui preoccuparsi, tutto da guadagnare.
«Ma io ragiono sempre in base al cambiamento. Sempre. Non riesco a fare altrimenti, credimi»: c’è chi lo dice tanto per fare bella figura, verso se stessi e agli occhi degli altri, e c’è invece chi lo fa veramente. Petrella ricade in questa seconda categoria, punto. Non c’è dubbio alcuno. La via tranquilla, chiara, bella spianata per entrare nel gotha del jazz e dei suoi circuiti a un certo punto ha subito dei détournement radicali. A un certo punto Gianluca lo si è visto infatti suonare spesso e volentieri con un ceffo di nome DJ Gruff (esatto, lui: genio e sregolatezza dell’hip hip italiano underground, co-fondatore dei leggendari Sangue Misto), ma lo si è anche visto stare regolarmente e felicemente nelle band live di Jovanotti prima e di Elisa poi, senza soluzione di continuità. Ora: che un musicista jazz di vaglia suoni nel pop è successo mille volte. Che lo faccia nell’hip hop, meno frequente ma comunque è successo pure questo (da Miles Davis a Branford Marsalis, per dare gli esempi più illustri). Ma che accadono entrambe le cose: beh. Vi sfidiamo a trovarne. Pochi. Pochi veramente. Su scala mondiale. E non pago di tutto questo, il Petrella forse più affascinante è quello che negli ultimi anni si avventura nell’elettronica: il suo bellissimo disco con Davide Tomat, Kepler, è uscito per la !K7, una delle label techno/house più prestigiose in assoluto, ma vale la pena andare a recuperare anche il suo visionario EP 103 uscito su Electronique, ambient mutante e autechriana permeata dalla sofisticazione armonica che il musicista barese perfettamente padroneggia, visto il suo background.
Insomma: potrebbe fare il musicista jazz di successo che si amministra bene e oculatamente la carriera, gestendosi bene e senza scossoni il passaggio progressivo da giovane promessa a venerabile maestro. Ma lo trovi in mezzo al fumo della ganja mentre disegna armonie ed assoli con Gruff, o nei beach-caravanserragli super pop jovanotteschi, o intento a scambiare file con cospiratori sotterranei del digitale più intransigente. Tempo perso? Confusione in testa? «No. Certo che no. Ti garantisco che ogni mia collaborazione è attentamente meditata e soppesata. Nulla è fatto per caso. Il fatto che attraversi spesso delle strade non scontate è semplicemente una necessità. Una necessità vitale, per me. Perché non c’è nulla di peggio del cristallizzarsi. Sono sempre stato uno che si è dato da fare. Vedi, anche quando a un certo punto le cose si sono messe bene e ho avuto la fortuna di vederlo accadere abbastanza presto nella mia carriera, invece di dirmi “Ecco, sono arrivato, ora devo giusto gestirmi” mi sono sempre imposto di non adagiarmi, di non fare le scelte più ovvie e conservative. Bisogna muoversi. Essere in movimento. Nel jazz moderno invece vedo molta scolarizzazione: gente che studia anche molto, e ci tiene a farlo vedere, ma alla fine si rifugia nell’autoreferenzialità».
Non è questione di volpe e uva. Non certo nel suo caso. Non insomma il musicista che rimprovera agli altri eccessi di tecnicismo perché lui, di suo, non riuscirebbe a riprodurli. Lui è un mostro, in tecnica (lo abbiamo riscontrato in prima persona, quando per un progetto speciale legato a Jazz:Re:Found l’abbiamo visto tirare giù su partitura ad orecchio tutta una serie di arrangiamenti in tempo praticamente reale). Perché c’è anche un lato serissimo in Petrella, un lato cioè che rivendica studio e competenza tecnica come aspetti maledettamente fondamentali: «Io ho speso tanto, tanto tempo a studiare. E non lo rinnego. Gli anni in conservatorio sono stati fondamentali per me, e ci sono inevitabilmente finito da figlio di musicisti. Lì è molto semplice: o studi e ti impegni, o te ne vai. In anni in cui la tecnologia fa sembrare così semplice il poter creare musica – addirittura le macchine oggi fanno gli arrangiamenti per te, e ti segnalano in che chiave stai suonando, ci pensi? – io sono felicissimo di avere una preparazione che mi permette ad esempio anche di trascrivere assoli altrui con facilità, di tirare giù su pentagramma una per una tutte le parti di una orchestra, di gestire gli arrangiamenti in un certo modo. In quanti oggi lo sanno fare? In quanti oggi pensano sia importante saperlo fare? Non puoi immaginare quante volte abbia visto personaggi anche molto quotati che, messi di fronte a una tastiera, non sanno nemmeno riconoscere un do. Sono ignoranti: e non lo dico come insulto, lo dico come constatazione tecnica. Hanno semmai il dono di saper intercettare il suono del momento, la cosa che “riverbera” nel mercato nel modo giusto al momento giusto. Cosa che rispetto molto: perché a me piace capire qual è lo spirito dei tempi ma non riesco ad essere bravo come loro a coglierlo, quindi tanto di cappello, davvero. E però io vengo da un’altra formazione. Quella in cui devi avere conoscenze tecniche di un certo tipo, sullo strumento».
Qui c’è da fare una parentesi divertente, ma significativa per capire il personaggio Petrella: contrariamente al 99% (o 100%?) dei jazzisti e forse anche dei musicisti tout court, Gianluca odia il suo strumento. Lo disprezza. «Il trombone mi è sempre stato sul cazzo!» esplode ridendo, a precisa domanda. «Il trombone è uno degli strumenti più complicati che un essere umano possa imbracciare. Quando inizi a suonarlo, per un sacco di tempo hai l’irrefrenabile istinto di buttarlo già dalla finestra, dopo aver appurato che sta per passare un camion che possa schiacciarlo completamente, e definitivamente. I primi passi con questo strumento sono tremendi, non ti danno nessuna soddisfazione. E poi, scusa: se pensi al jazz, pensi al sassofonista triste e affascinante sul ponte di Brooklyn, o al trombettista tutto azzimato e circondato dalle donne… Ma il trombonista? Che strumento è? Che ruolo è? Tanto, che quasi tutti quelli che di musica ne sanno poco mi chiamano regolarmente trombettista, “il trombettista Gianluca Petrella”, “bello il tuo assolo di tromba, bravo”. Un tempo mi incazzavo anche, eh. Ma poi, vedendo che la gente mi chiamava comunque un po’ perché sono bravo, un po’ perché sul palco sono un personaggio, un po’ perché la musica che faccio pare sia interessante, mi sono un po’ rappacificato con la cosa: non me la prendo più. Chiamatemi pure trombettista, va’. Ma se avessi iniziato suonando davvero la tromba o il sassofono e invece non il trombone, chissà ora dove sarei. Avrei avuto molto più successo. Col bel fisichino asciutto che ho, guarda! Pensa quanto avrei furorereggiato ancora di più», ride.
È educatissimo e gentilissimo, Gianluca, ma al tempo stesso ha qualcosa di feroce e tagliente quando ti guarda, e per come si muove. Al tempo stesso, ha un modo di parlare quasi d’altri tempi, pieno di termini ricercati e quasi vintage, ma contemporaneamente ha una visione e un approccio alle cose molto diretto e, come dire?, di strada. È questo che lo rende un artista interessante, oltre allo smisurato talento: trasversale per viscerale necessità e attitudine personale, non per posa o convenienza. Pericoloso, musicalmente parlando, rispetto ai generi consolidati e ai luoghi comuni, ma molto attento a non cadere nel solipsismo snob e alto-intellettuale. «Uno dei problemi maggiori della scena da cui provengo, il jazz, è la comunicatività. Ci sono molte persone che dicono di avere una repulsione verso il jazz, ma lì chiedo sempre: che jazz avranno ascoltato? Quello che si perde troppo spesso in uno sfoggio di armonie complicate e melodie ostiche? Quello che, come dicevamo, fa sfoggio di scolarizzazione? Ci credo che poi certi musicisti si rifugino nell’insegnamento come unico modo per sopravvivere. Li capisco, eh, quando non nasci alto-borghese a un certo punto ti si pone molto concreto il problema della sopravvivenza, ed avere un posto sicuro come insegnante ti risolve molti problemi. Ma tutta la quotidianità della didattica, del preparare le lezioni, del partecipare agli scrutini alla fine ti porta via moltissima forza creativa, ti prosciuga. E ti rende anche un musicista coi paraocchi, perché non ti misuri più con la dinamicità del mondo, vivi solo di certezze acquisite. A quanti miei colleghi ho sentito dire con disprezzo, appena sentono una cassa in quattro, “E che è, siamo in discoteca? Sarebbe musica questa?”. Io invece sono orgogliosissimo quando dico di essere, credo, l’unico trombonista jazz che ha suonato al Cocoricò: e ci ho suonato non per fare una marchetta, ma perché invitato da DJ Ralf, un invito che so per certo essere stato sentito e musicalmente coerente. Non puoi immaginare quanto sia fiero di questa cosa».
È fiero anche del suo nuovo album per il progetto Cosmic Renaissance a nome Universal Language, Gianluca, in uscita in questi giorni. Seguito del primo lavoro uscito nel 2016. Un progetto che vuole mettere insieme l’attitudine astrale del jazz di Sun Ra con un linguaggio molto fisico, carnale, più vicino al funk e al soul che ad altro in vari passaggi; e anzi, l’album nuovo evita con ancora più attenzione svolazzi e mattane per concentrarsi sull’essenza, per essere chiaro e comprensibile. Riuscendoci alla grande. Un inno alla visionarietà più corposa della musica black. Ma ha ancora senso credere in una Renaissance, in un rinascimento? «Bisogna sempre credere in un rinascimento: altrimenti anche quello che abbiamo, muore. Gli ultimi anni, tra pandemie e guerre, sono stati quasi catastrofici: ma quello che ci può davvero tenere in vita, è continuare ad avere una idea positiva sul futuro». E non te lo dice con querulo ottimismo jovanottiano, ma con un mefistofelico lampo negli occhi. «Sono cambiato, dopo essere diventato padre. Un tempo andavo a dormire alle cinque e mezza del mattino, ora invece mi sveglio alle cinque e mezza del mattino, per andare a correre. Ma quello che resta uguale è che mi piace tantissimo vivere quell’ora strana, in cui la città è semivuota ma incontri solo persone particolari, ancora in dritta o appena sveglie. Sì. Mi piace tantissimo».