Giacca nera, camicia nera, pantaloni neri, scarpe nere. Pierpaolo Capovilla si presenta così all’appuntamento di fronte alla Stazione di Venezia Santa Lucia. Ci siamo accordati per un’intervista che in realtà sarà più una lunga chiacchierata in libertà, senza uffici stampa, senza tempo limite, senza embarghi. Senza nemmeno qualcosa da promuovere nell’immediato, visto che l’ex frontman di One Dimensional Man e Il Teatro degli Orrori ha, sì, un nuovo disco in lavorazione, ma manca ancora parecchio alla pubblicazione e allora, suggerisce lui, «recitiamo a soggetto».
Così, dopo uno scambio di battute sull’opportunità di vestirsi completamente di nero sotto il sole cocente («di altri colori ho solo calzini e mutande»), Capovilla, rocker dissacratore dal piglio intellettuale di quelli di cui si dice «o lo ami o lo odi», attacca a parlare dei temi che più gli stanno a cuore. A partire da una descrizione di sé ispirata dal giornale che tiene sotto braccio, Il Manifesto: «Sai, io sono un compagno, un comunista, un vetero-marxista».
È un inizio: perché nel 2021 insisti a definirti così?
Perché ho studiato tanto Marx e questo ha segnato il mio percorso culturale. Che poi non occorre leggerlo tutto, Il capitale, per capire cos’è il feticismo delle merci, bastano i primi 4 o 5 capitoli del primo libro: una diapositiva nitida di ciò che è ancora adesso la società in cui viviamo.
E la società che vorresti? Non sei disilluso ormai?
Tra i 35 e i 40 anni stavo scivolando in quel pantano ideologico che ti spinge a vedere la catastrofe inesorabile dappertutto e a dire che tanto non c’è più niente da fare. Poi, però, un giorno mi sono messo a rileggere Majakóvskij, che avevo letto verso i 16-17 anni, ma senza capirci granché. Me lo leggevo in albergo, dopo i concerti, a voce alta, lo enunciavo, e mi sembrava incredibile pronunciare quelle parole: “Credo nella grandezza del cuore umano! Sulla polvere sbattuta dalle battaglie, su tutti quelli che si azzuffano, disperando nell’amore, adesso l’inverosimile diventa realtà: è la grande eresia socialista!”. Sono rimasto folgorato dalla bellezza dell’intenzione poetica, quei versi mi hanno sconvolto, riacceso, mi sono detto che c’è ancora molto da fare, che lottare è gioia e dobbiamo darci una mossa. Se non ora, quando? E adesso che di anni ne ho 53 avverto ancora di più quest’urgenza, perché un piede ce l’ho già nella fossa.
Hai fretta?
Ho fretta, sì. Non ho figli, vorrei abbandonare questo mondo dopo aver lasciato delle cose buone. Ricerco l’eternità laica, quella per cui te ne vai e però resti nel buon ricordo di chi ti ha conosciuto e incontrato.
Immagino tu non creda all’eternità non laica.
No, forse alla reincarnazione.
Perché ti affascina l’idea o perché…
Perché ogni tanto mi prendo i funghetti e vedo cose (ride). A parte gli scherzi, la metempsicosi – ed è una fantasia mia, questa – va d’accordo con i quanti, con la teoria M secondo cui ci sono più dimensioni diverse e tutto è già accaduto, tutto accade e tutto accadrà ancora. Boh, è interessante! Mi piace lasciarmi affabulare da questi pensieri, ma la verità è che ho un retaggio cristiano pazzesco, sono figlio di un’ex suora – mia madre prima di sposarsi aveva finito il noviziato – e di un signore che voleva farsi prete e invece… i miracoli dell’amore!
Tuo padre era operaio, no?
Sì, madre casalinga e padre operaio, era un fonditore. Per questo io e mia sorella siamo nati a Varese; nel Veneto post-agricolo e pre-industriale degli anni ’60 non c’era lavoro, c’era miseria, e mio papà era andato a Varese in cerca di lavoro. Abbiamo vissuto cinque o sei anni nel garage di un condominio prestato ai miei genitori. Nonostante la povertà non ci hanno mai fatto mancare niente, la loro vita è stata un sacrificio costante per i figli.
Prima a Varese, poi nel trevigiano, se non sbaglio.
Esatto, in seguito siamo tornati nel paese d’origine di mia mamma.
Penso spesso che la differenza tra chi cresce in una famiglia molto benestante e i meno fortunati non siano tanto i soldi, quanto la disinvoltura nel prendere l’iniziativa, nel proporsi, che i soldi ti danno.
Di sicuro quando non hai le spalle coperte è dura fare il musicista, se non sei pienamente vocazionale prima o poi molli. A meno che non succeda qualcosa. Io incominciai a fare concerti sul serio a 29-30 anni con gli One Dimensional Man, ma dopo un po’ per continuare dovetti lasciare l’università. Ai tempi – era il periodo dei centri sociali – si suonava tanto e ovunque, ma io per vivere decentemente dovevo lavorare: ho fatto il cameriere fino più o meno all’età di 40 anni. La musica per me è sempre stata pura passione, vale per gli ODM come per Il Teatro degli Orrori. Con cui, però, a un certo punto c’è stato il botto: boom! E che succede?!
Era il periodo di A sangue freddo, vostro disco del 2009: che cosa ha significato per te?
Abbiamo iniziato a guadagnare sul serio, a riempire i grandi club: oh, santo cielo! Fu un’esperienza dirimente, che mi permise di diventare artista a pieno titolo. Non di arricchirmi, anche perché sono uno scialacquatore, nei periodi di maggiori entrate spendevo tutto.
In cosa?
Alcol, droga, divertimento, vacanze, quello che mi pareva. Vita, a me piace la vita. Ora un po’ me ne pento, se avessi qualche soldo da parte mi sentirei più tranquillo, ma ti dirò, mi sono intimamente quasi liberato dall’angoscia economica. Un giorno i soldi li hai, un altro no: cosa cambia? Mi apro un buon libro.
In questi giorni cosa stai leggendo?
Dominio di Marco D’Eramo, e non riesco a smettere. Ultimamente quando mi sveglio, verso le 11, vado al bar a leggere. Anche La trionferà, il nuovo libro di Massimo Zamboni, l’ho letto al bar. Ha una penna raffinata, lui, e sul finale ti spezza il cuore, ma meravigliosamente: ti fa venire voglia di tornare alla politica e questo mi ha commosso, mi ha fatto piangere, figurati che una ragazza è venuta a chiedermi se avevo bisogno di aiuto (ride).
E a quando un libro tuo?
Lo sto scrivendo, ho un contratto con una casa editrice firmato più di 10 anni fa, ci sto lavorando con moooolta calma e per fortuna non mi soffiano sul collo, visto che è un romanzo, forma narrativa difficile. Scrivere una canzone è più facile, se hai gli strumenti; poi io sto imparando la lezione di Iggy Pop: di’ tutto quello che hai da dire con non più di 30 parole. Ed ecco “and now I wanna be your dog”, versi che ancora ci parlano.
Quindi nel prossimo disco ti ritroveremo più sintetico?
Molto di più: meno citazioni e più poesia. Sono contento del nuovo album, uscirà in autunno, è di una cattiveria spettacolare. Il tema è la guerra, la guerra dei missili e dei proiettili, ma anche le guerre interiori. Però è anche un disco romantico: più invecchio, più sono romantico.
Sempre e comunque incazzato, mi pare.
Vero, ma anche questo è dovuto al mio sentimentalismo. Amo il mio prossimo: eccolo, il retaggio cristiano. Credo nella fratellanza e nella sorellanza, che sono più della solidarietà. Perché i compagni – i laici, diciamo – hanno sempre creduto nella solidarietà tra le persone e i popoli, ed è giusto, ma fratellanza e sorellanza sono qualcosa di più, perché implicano la parentela: siamo tutti parenti e se nelle tue vene scorre il mio stesso sangue io non ti devo solo aiutare, ti devo proteggere. È sempre lui, Majakóvskij: «Noi tutti sulla terra siamo soldati di un unico esercito che forgia la vita». Capito? Siamo tutti parenti: addio al discorso razziale, addio alle religioni con i loro sincretismi! La nostra vita è caduca, viviamocela fino in fondo e sia quello che sia. Come si fa a non tornare comunisti di fronte a questo? Io non sono trotskista né leninista né stalinista, io sono un majakóvskijsta, è questa la mia corrente: comunista per amore per la poesia. Dopodiché ho sempre apprezzato anche gli anarchici, Kropotkin o Bakunin. Ma anche negli Stati Uniti ci sono state forme di splendido anarchismo, di municipalismo. Che è quello che vorrebbero i curdi oggi: lo chiamano confederalismo democratico, ma potremmo definirlo municipalismo socialista, dato che alla base c’è l’idea di non avere lo Stato. Niente Stato, perché con lo Stato si replicano le regole borghesi del capitalismo: l’esercito, la polizia, i confini.
Pura utopia, ti direbbero i più.
L’utopia è quell’obiettivo irraggiungibile verso il quale, però, possiamo tendere. E se questo tendere coinciderà con il percorso intero della tua vita, questa vita sarà ben spesa e più felice, più interessante, più degna. A me lo spiegarono i miei professori all’università, ho avuto fortuna con gli insegnanti. Sarei potuto diventare un delinquente, un emarginato, avevo tutte le carte in regola, tra cui un’infanzia pericolosa, vissuta nella miseria e con una madre che soffriva di depressione. Depressione dovuta alle condizioni sociali, ma anche al fatto che noi a un certo punto tornammo, sì, nel suo paese d’origine, ma lei quel paese lo aveva lasciato che era suora: apriti cielo! Quindi rendo grazie a questa cosa bellissima che chiamiamo democrazia e che mi ha permesso di avere degli educatori straordinari, altrimenti non saremmo nemmeno qui a parlare.
Oggi nelle scuole non si educa più, al massimo si istruisce, sostiene il filosofo Umberto Galimberti. Alla soggettività si è sostituita la performance.
Quella è una conseguenza del turbocapitalismo o neoliberismo, chiamalo come vuoi.
Ora che in Italia abbiamo Draghi come la vedi?
La vedo che noi italiani abbiamo sempre bisogno di un salvatore della patria. Del resto, con il ceto politico inadeguato che ci ritroviamo… Io quando leggo certi post scritti da politici di un certo livello provo vergogna, mi chiedo come possano rappresentarmi delle persone che sono evidentemente prive degli strumenti culturali necessari per comprendere appieno le circostanze storiche in cui ci si muove. E non è snobismo perché ho studiato, il mio: ho fatto l’università, due anni di pedagogia, poi lingue e letterature straniere, poi filosofia, ma non mi sono laureato. No, è solo che rispetto a questa gente è ovvio che Draghi luccichi come una perla, una perla in un porcile. Infatti riesce a dire cose giuste, vedi quando, il 25 aprile, ha dichiarato che «non tutti italiani furono brava gente, non scegliere è immorale». Ciò non toglie che sia un portatore e un protagonista di quel neoliberismo che aborro, il discorso socialista non si avrà certo con lui.
«Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema», è stata una delle frasi più postate sui social a inizio pandemia.
All’inizio anch’io ci ho sperato, ma non cambierà nulla. Per ora, perché davanti a noi c’è la catastrofe ambientale e prima o poi il modello di sviluppo dovrà mutare per forza. O vogliamo davvero distruggere tutto?
C’è un altro tema che ti sta a cuore, quello del disagio mentale, argomento che con la pandemia sta riemergendo con forza.
Accade ciclicamente, perché l’Italia è l’unico Paese al mondo ad avere abolito, con la legge Basaglia del ’78, i manicomi, che sono stati sostituiti dagli Spdc, Servizi psichiatrici di diagnosi e cura. Straordinario, peccato che in circa l’80% di queste strutture si pratichi la contenzione meccanica su quasi tutti i pazienti, il che significa che i manicomi aboliti dalla legge Basaglia sono rientrati dalle finestre di questi reparti in teoria ospedalieri, dove di fatto si violano dei diritti. Poi ci sono quei pochi dove nessuno lega nessuno che hanno formato il Club Spdc no restraint. Il mio spettacolo Interiezioni è nato su testi di Artaud proprio a sostegno della campagna del Forum Salute Mentale contro la contenzione meccanica, pratica indecente e umiliante. E non è un caso che la canzone Ottantadue ore dal mio disco solista Obtorto Collo parli della storia di Francesco Mastrogiovanni, ucciso in un Spdc. Ma possibile che in Italia non si studi Basaglia?
Mi sono chiesta la stessa cosa sentendo tanti giustificare l’operato di Muccioli quando è uscita SanPa, la docuserie.
E dire che Basaglia è la psichiatria in Italia, lui è stato forse il più grande intellettuale italiano, cooperava con Goffman, Marcuse, Foucault. Ma nel corso di laurea in psichiatria si predilige altro, perché si vuole imporre la psichiatria statunitense del DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association.
E di Basaglia si parla perlopiù come di un antipsichiatra, nel quadro di una separazione ideologica tra psichiatria e antipsichiatria.
Ideologica non nel senso di aderente a una visione del mondo, a una Weltanschauung strutturata, ma nel senso marxiano della falsa coscienza. Ossia nel medesimo senso per cui la religione è ideologia, il capitale è ideologia, la sussunzione capitalistica del lavoro è ideologia, quando ti fanno credere di essere padrone di te stesso mentre in realtà sei uno schiavo.
Tu non hai mai usato psicofarmaci?
Qualche ansiolitico quando fui mollato da Francesca, mia fidanzata di tanto tempo fa. Me li diede lei, ma li presi solo per due giorni e mi fecero impressione: l’ansia mi spariva come ti può sparire un mal di testa. Per cui smisi, di lì a poco conobbi un’altra donna e ciao. Ma siamo rimasti amici, io e Francesca, quando c’è qualcosa che non va ci chiamiamo. Perché cosa serve al sofferente psichico se non l’empatia altrui? Ci vuole amore, e so che a volte non è sufficiente, ma è la prima cosa che va donata. Sì, l’amore è un dono, cazzo, si dà senza aspettarsi nulla indietro! Come dice D’Annunzio – che non amo, ma di cui condivido questa massima – «io ho quel che ho donato». Perché nella tomba non me li porto i soldi, le case… Ma niente, la gente si fa di psicofarmaci e senza pensarci due volte. E sai perché? Perché glieli prescrivono. Ma va detto a voce alta: creano di-pen-den-za, sono droghe legali e pericolose.
Eppure il consumo è in aumento, del resto ormai si va dallo psicologo anche solo per superare una delusione sentimentale.
Il problema è che mancano gli strumenti culturali.
Il problema è la paura di soffrire…
Ma perché in una società fortemente performativa non si può soffrire, non puoi prenderti del tempo per elaborare un lutto, non puoi piangere né lamentarti, perché devi lavorare, produrre, esserci sempre. Ma come si fa a riconoscere la felicità senza aver provato il dolore? Eppure ci si affida al DSM, che a ogni nuova versione diminuisce il periodo oltre il quale, se non hai elaborato un lutto, sei da curare. Ma se mi muore un figlio avrò il diritto di soffrire?
Facendo musica ti è successo di avvertire quella pressione, diciamo così, da performance?
Sì, con Il Teatro degli Orrori, infatti la band non esiste più. E questo da quando mi fu chiaro che il gruppo stava diventando un’azienda, e un’azienda non prevede la presenza di un pazzo, fuori di testa, collerico, che se ne fotte di tutto. Ma se non fossi così il palco non sarebbe il mio habitat: ho un caratteraccio, accettami per quello che sono. Ma nella dimensione aziendale questo non è possibile e a me non sta bene. Per me la band è un collettivo di artisti e si può litigare, persino prendersi a cazzotti, ma dopo amici come prima: dov’è il problema? Però il castello è crollato e va bene così, ognuno per la sua strada, auguro ogni bene ai miei ex correligionari, adesso ho un nuovo gruppo, Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri.
Perché i Cattivi Maestri?
Perché servono, perché il cattivo maestro è l’intellettuale scomodo che indica al giovane la via più difficile, l’eresia. E perché in musica i cattivi maestri non conoscono l’armonia, quindi è come dire «siamo dei cazzoni». Che in realtà non è vero, perché nel rock è normale non avere studiato certe cose, noi la chiamiamo ignoranza strategica. E perché alla chitarra c’è Egle Sommacal, che cazzone non è e l’armonia la conosce. Poi ci sono Fabrizio Baioni ai tamburi e al basso Federico Aggio. Siamo quattro matti e pubblicheremo un disco bello rock, virulento, massimalista, a parte due canzoni più lente. Sono 10 tracce: 8 cazzotti e 2 carezze. Più un pezzo che non so come uscirà, ma a cui tengo perché tratta delle morti sul lavoro, in Italia più di 300 nei primi quattro mesi del 2021. Altro che morti bianche, dovremmo chiamarle omicidi bianchi. Quella che si sta consumando è una strage quotidiana, frutto di una cultura del lavoro che mette produttività e profitto dell’impresa al di sopra della sicurezza dei lavoratori.
E l’altro tema dell’album è la guerra, dicevi.
Sì, perché da che sono vivo io ho solo visto guerre e sono stanco.
C’è chi continua a dire che le guerre sono finite.
Eh, finite, le bombe non cadono addosso a noi, ma chiediamole ai cittadini di Baghdad. O di Belgrado. O di Damasco. Ai curdi, agli iracheni, ai turchi, ai siriani, ai palestinesi. La guerra è sistemica, necessaria all’impero capitalista, agli Usa, per mantenere un ordine mondiale basato sulla globalizzazione. Perché gli Usa non sono una democrazia, in nessun modo. Ma come fa a essere democratico un Paese dove la polizia uccide più di 1000 persone all’anno? È come se da noi ci fossero 50 Cucchi all’anno, sarebbe tollerabile? No. E che democrazia è un Paese dove non ci sono un servizio sanitario universale e un sistema scolastico uguale per tutti? Non lo è, punto. Sai, noi artisti rockstar abbiamo un privilegio: siamo più liberi di altri di dire quel cazzo che ci pare (ride).
Eppure da un po’ persino tra gli artisti vigono diplomazia e autocensura. O no?
Non c’è dubbio. Il politicamente corretto è una delle forme attraverso le quali il sistema difende se stesso dalle proprie contraddizioni e gli artisti oggi hanno sempre più paura di pestare i piedi al potente di turno, di perdere il consenso. Figurati, io al potente di turno – puoi scriverlo – non solo gli pesterei i piedi, ma lo azzopperei, ovviamente simbolicamente. E chi se ne fotte del consenso, ma dai, se non diamo scandalo noi rockettari…
Ricordi la polemica contro Alberto Ferrari dei Verdena quando, sei anni fa, durante un concerto, distrusse una chitarra sul palco?
Pensa te, ma saranno cazzi suoi?! In ogni caso io sono così e non credo muterò. Mi sono dato una calmata – la vecchiaia rende più saggi, se vogliamo –, ma mi sono ripoliticizzato e mi sono pure iscritto al partito, al PCI di Mauro Alboresi, uomo di grande umanità e cultura che come animale domestico ha un asinello e non si lascia condizionare da certi discorsi che si fanno oggi, tipo che bisogna distinguere tra diritti sociali e diritti civili.
Un mio amico scherzando mi dice sempre che l’unica differenza tra la sinistra e la destra odierne è che alla prima vanno bene i gay.
Altro risultato dell’americanizzazione della nostra società. Invece difendere la libertà dell’orientamento sessuale è un dovere quanto battersi perché a tutti siano garantiti il diritto al lavoro, alla casa, all’assistenza, all’istruzione. Diritti sociali e civili vanno sempre e soltanto insieme e devono espandersi il più possibile. Come? Ci vuole la lotta di classe. La pacificazione sociale non è sintomo di progresso umano, è un sintomo dello sviluppo tecnologico, casomai. Pasolini distingueva in maniera poeticamente drammatica questi due aspetti, e giustamente, perché progresso e sviluppo non sono la stessa cosa e una democrazia per essere viva ha bisogno della lotta di classe. Allora siamo sempre in guerra, dirà qualcuno. No, siamo in lotta e la lotta è gioia di vivere. Peccato che da tempo si sia assopita e il motivo è che lo sviluppo, non il progresso, ci ha imposto strumenti per farci pensare ad altro: i dispositivi tecnologici, i telefonini. Ricordo quanto, a fine anni ’90, ci sembrava fantastico il web, anche a me sembrava un buon mezzo per la libera informazione. Ebbene, in due decenni si è trasformato nell’esatto contrario.
E ha reso Fedez il referente politico di molti: che effetto ti fa?
Fedez, Fedez, Fedez… Lo senti nominare ogni santo giorno. Non vorrei mai essere al posto suo, è divenuto un fenomeno nazional-popolare. Per forza, non ha fatto altro che cercare di diventarlo. Ciò che più mi infastidisce della sua figura pubblica è l’ostentazione di ricchezza, la pubblicizzazione della sfera privata, l’onnipresenza sui social, insomma, le caratteristiche dell’influencer, questo far soldi sfruttando il momento, rincorrendo il consenso e approfittandosi della vulnerabilità di un pubblico tanto vasto quanto privo di strumenti culturali per comprendere il presente. Lo trovo intollerabile, come intollerabili trovo i rapper americani, la trap italiana, l’ultra-pop, Amici, X Factor, Domenica In e i calciatori con la Lamborghini. Caratteristi del nulla.
E i Måneskin?
Il loro è un passatismo glam che mi dà fastidio e di cui non sentivo alcuna necessità, ma sono giovani… Pensa a Scott Walker, a 15 anni era un teen idol negli Usa, poi fondò i Walker Brothers, boy band ante litteram, e divenne un crooner, infine verso i 40 anni iniziò a pubblicare gli album più belli della storia del rock. Con i quali è riuscito a raccontarci la morte di Mussolini e di Claretta Petacci, la fine di Ceaușescu, la figura di Pasolini. Quindi per i Måneskin si vedrà, nel frattempo ben venga tutto ciò che potrebbe contribuire a un rinsavimento dell’immaginario collettivo in senso anti-trappiano.