Gandhi Djuna, 29 anni, in arte Maître Gims è sempre sospeso tra mondi. La Francia e il Congo, il pop e l’hip-hop, i Sexion d’Assault e la carriera solista, la religione cristiana con cui è cresciuto e l’Islam cui si è convertito da qualche anno. I ricordi di un’infanzia nelle case occupate e pericolanti, e il presente ricco e stiloso grazie alle vendite fenomenali in Francia. In questi giorni, in Italia per fare promozione e per preparare il terreno per la sua partecipazione da ospite al Festival di Sanremo, gli tocca di nuovo ritrovarsi in mezzo al guado, tra la celebrità di cui gode al di là delle Alpi (dove ha anche lanciato una sua linea di abbigliamento) e la curiosità esotica che da noi suscita chiunque scali le classifiche cantando in una lingua straniera che non sia l’inglese.
Sembra appropriato quindi che il suo album Mon cœur avait raison sia doppio, a rappresentare i suoi tanti dualismi: i cd che lo compongono, come le pillole del film Matrix, portano in due mondi diversi: il primo è Pilule bleue (con brani pop), il secondo Pilule rouge (con pezzi rap). Il brano che lo sta rendendo famoso in Italia, Est-ce que tu m’aimes, appartiene al primo percorso.
Ma pop e rap sono davvero due mondi separati?
Io li vivo come due universi differenti. Ma posso entrare e uscire da entrambi, e credo che anche il mio pubblico, o gran parte di esso, riesca ad assimilare tutte le loro possibilità. Anche se la maggior parte delle persone là fuori è più propensa a prendere la pillola blu del pop.
Ma oltre a permettere di raggiungere più pubblico, quali possibilità consente il pop che l’hip-hop non ha?
La differenza è che col rap si possono dire più cose. Puoi usare più metafore, giochi di parole, essere più diretto. Col pop puoi dire di più coi suoni, si lavora di più sulle emozioni.
L’Islam integralista quale pillola non prenderebbe mai, tra l’hip-hop e il pop, e i loro differenti modi di rappresentare la realtà ma anche di vivere il successo?
Io col successo ho un buon rapporto. Sono contento di averlo, e se ne arriva di più, me lo sarò meritato. E lo stesso vale per tutti i rapper francesi che conosco: sono tutti musulmani ma vogliono diventare ricchi e famosi e non diventare degli imam. Anche il fatto che l’hip-hop venga dagli Stati Uniti, non ha un particolare significato politico o culturale. I giovani rapper francesi non sanno niente della storia del rap, non hanno idea di chi siano i precursori, non prenderebbero mai un album dei Public Enemy.
Come definiresti il rap francese?
Dopo l’era del rap delle banlieue, tra gangsta e odio politico, è cresciuta una generazione che sta privilegiando divertimento e stile. Mi sembra anche giusto. La politica spesso porta all’odio. Tra tutti i miei amici non c’è alcun dubbio sul fatto che quello che è successo a Parigi a dicembre è politica, e non religione, tant’è vero che nel massacro sono stati uccisi anche dei musulmani. L’Islam non ha a che fare con la violenza. I veri musulmani ne sono vittime come tutti gli altri. Per me l’Islam non è un fatto di appartenenza a un popolo. Ho letto una frase di Cat Stevens che mi è piaciuta: “Ho conosciuto l’Islam prima di conoscere gli islamici”.
Tu sei arrivato in Francia con tuo padre, musicista nei Papa Wemba.
Sì, ero un sans papier, già a due anni. Ho vissuto in case occupate, con una famiglia che viveva di espedienti: l’infanzia di un bambino immigrato è durissima, molta gente non riesce a capirlo o non vuole capirlo.
Ho letto che non hai mai preso la cittadinanza francese.
Sì, ma non per scelta: perché la burocrazia è insopportabile e certe domande cui bisogna rispondere sono offensive. Quando ci ho provato mi è passata la voglia. Forse mi armerò di pazienza e risponderò a tutte quelle domande. Ma anche senza farlo, so di essere francese. Così come sono congolese, anche se sono stato là solo in anni recenti. Ora voglio tornarci per dare dei concerti.
Che rapporto hai con la musica di tuo padre?
Ne sono impregnato, anche se a dire la verità ho sempre cercato di staccarmi dalla rumba congolese, dalle sue ritmiche e melodie. Ma le sento tornare di continuo.
Prima parlavamo di successo. Cosa sta imparando, dall’attenzione che sta ottenendo fuori dai Paesi francofoni?
Sono stato abbastanza sorpreso dal successo di una canzone cantata in francese. Così come dal fatto che Sia nel giro di 24 ore abbia sentito un pezzo che le avevo proposto (Je te pardonne) e subito me lo abbia rimandato dopo avervi inciso la sua parte. Evidentemente una melodia può avere molto potere anche se non si capiscono le parole. Forse è una cosa che il rap sottovaluta.
Ma con questo successo solista, i Sexion d’Assaut che futuro hanno?
Il gruppo è sempre attivo, e l’anno prossimo usciremo con un nuovo album. Io intanto penserò al mio terzo disco, credo che ci metterò un po’ perché voglio fare qualcosa di completamente diverso: finora ho esplorato molte possibilità, ma non mi basta.