Pino D’Angiò, il figlio racconta l’artista e il padre che lo ha «allenato alla felicità» | Rolling Stone Italia
Ma chi era quello lì

Pino D’Angiò, il figlio racconta l’artista e il padre che lo ha «allenato alla felicità»

Oltre il personaggio del “dritto” c’era di più. Esce l’EP ‘Funky Maestro’ e Francesco Chierchia ripercorre con noi la vita di un artista libero che ha vissuto con leggerezza. E senza piagnistei. «Sono l’unico al mondo che canta senza corde vocali»

Pino D’Angiò, il figlio racconta l’artista e il padre che lo ha «allenato alla felicità»

Pino D’Angiò

Foto press

Da qualche parte Pino D’Angiò sta sorridendo a mezza bocca con la sigaretta accesa e ci guarda con quegli «occhi da serpente» (cit. Simona Ventura) mentre siamo indaffarati a interrogarci sulla sua musica. Perché se è vero che nel luglio scorso uno dei maggiori rappresentanti dell’Italo disco ci ha lasciati, è vero anche che domani uscirà un EP con quattro inediti dal titolo Funky Maestro, che dimostra che il musicista originario di Pompei (chissà cosa avrebbe detto del caso Sangiuliano) non era solo quello della mega hit Ma quale idea.

In fondo, non c’è da porsi tante domande perché è sempre stato lui stesso a dirci tutto chiaramente e con un pizzico di ironia a stemperare ogni racconto. Non fa eccezione questo EP dove i primi brani sono in perfetto stile da “dritto”, suo marchio di fabbrica, col funk a sostenere ragionamenti che stupiscono per attualità e lucidità con i quali vengono affrontati: dalle insidie della tecnologia (C’è un’app) a quelle sui rapporti amorosi (Paperina qua qua), fino a una canzone di denuncia mascherata da sonorità disco-funk che mette in guardia i giovani dalle insidie del presente e dai consigli degli adulti (Non diventate come loro). Non manca un’altra perla, più cantautorale, che sembra un vero e proprio testamento spirituale (Volando nell’anima), un pezzo volutamente lasciato grezzo e che, forse, spetterà ad altri completare.

Ma come si fa a spiegare chi era Pino D’Angiò a chi si avvicinerà per la prima volta a quest’opera? Lo abbiamo chiesto a suo figlio Francesco Chierchia, che negli ultimi anni ha lavorato fianco a fianco con il padre e ha ripercorso con noi la straordinaria figura di uomo e artista libero: il metal per allontanarlo dal mondo dello spettacolo, la quotidianità di un antidivo, la soddisfazione per l’apprezzamento a livello internazionale, i momenti bui affrontati con la leggerezza di sempre, la “beffa” della malattia, l’ultimo Sanremo che ha fatto eroicamente (e senza piagnistei) e quell’insegnamento finale: «Allenati alla felicità».

Nell’ultima intervista a Rolling Stone tuo padre ci raccontò che ti aveva tenuto «lontanissimo dal mio mondo». Per farlo, ti aveva portato a vedere dei concerti metal, «quando era bambino, affinché si spaventasse». È così?
Sì, per vaccinarmi al mondo dello spettacolo mi ha portato un paio di volte a concerti piuttosto intensi per l’età che avevo. Aveva un’idea precisa delle difficoltà e dei rischi di un ambiente che nasconde tante insidie.

Quando, invece, hai deciso di avvicinarti a questo mondo e dare una mano a tuo padre?
Per un lungo periodo ho conosciuto l’ambiente tramite il filtro di papà. Negli ultimi tre, quattro anni ho cominciato a frequentarlo in modo più diretto dandogli una mano nella gestione dei social e dei contatti con la stampa o per la partecipazione a eventi. È successo dopo il lunghissimo periodo di malattia, quando si è riaffacciato al pubblico ed è ripartito questo treno incredibile che si è fermato il 6 luglio.

Lui si diceva compiaciuto di non avere ufficio stampa e di gestire tutto da solo.
Diceva che erano i giovani e la gente il suo ufficio stampa. L’ho sempre considerato l’antidivo per eccellenza, non gli piaceva apparire a tutti i costi. Si è divertito, ha fatto quello che gli piaceva e ha sperimentato diventando un riferimento in certi ambienti, ma smettendo di essere invitato sui palchi più popolari.

Negli ultimi anni, però, era apparso sui social e anche la sua popolarità era riesplosa.
Un giorno per gioco gli ho detto: «Se vuoi proviamo ad aprire Instagram». E così, piano piano, ho preso in mano la gestione di una parte della comunicazione che mi ha permesso di vivere più attivamente il suo lavoro.

Foto press

Pino ha definito la sua hit Ma quale idea «una donna bellissima, ma un po’ zoccola».
La penso come lui, però solamente adesso. All’inizio non capivo questo rapporto di amore e odio, anche se l’amore era superiore all’odio per quella canzone. Faticavo a capire perché un mega successo del genere lo facesse sentire a disagio. Ma per un artista che nel corso di 40 anni di carriera si cimenta con tante cose, dalla musica alla composizione di poesie, dalla scrittura di programmi radiofonici al doppiaggio fino alla recitazione cinematografica, venire associato a una sola canzone può diventare una condanna.

Per la figura del “dritto” che lo ha caratterizzato è stato spesso associato a Fred Buscaglione, ma era davvero un suo modello?
Non ne ha parlato spesso. Era consapevole di essere associato a Buscaglione, ma non aveva certo lo stesso stile musicale. Ci sono delle somiglianze, il fatto di parlare sulla musica o raccontare con leggerezza quel che si vive, ma per la sua natura guardava di più alla musica fatta all’estero, come conferma la proiezione che ha avuto fuori dall’Italia, che è stata fortissima. Ha vissuto prima in Canada e poi negli Stati Uniti e quindi nelle orecchie aveva gente come James Brown o Joe Tex. E poi quelle chitarre e bassi ritmati uniti alla parte recitata nasceva dall’indole che aveva per il cabaret. Da studente si manteneva a Siena facendo spettacoli di cabaret con la chitarra.

È stato un suo cruccio il fatto che la critica non lo abbia considerato per quello che valeva?
Sicuramente non era felice di come veniva raccontato da una parte della stampa. Ma è anche vero che era consapevole che, spesso e volentieri, la critica tende a dare visibilità ai fenomeni passeggeri. Avrebbe preferito qualche parola in più spesa su quello che è accaduto nella sua carriera, invece di parlare soltanto dell’eterno ritorno di Pino D’Angiò di Ma quale idea. Poi onestamente, visto il successo che aveva all’estero, il cruccio sulla stampa italiana era poca cosa.

Come ha vissuto i tempi bui?
Non è mai cambiato e questo è dei più grandi insegnamenti che mi ha lasciato. Era sereno, visto che il personaggio Pino D’Angiò era staccato dalla vita di Giuseppe Chierchia. Affrontava con leggerezza i periodi di minor fama o progetti che non avevano il successo atteso. Ma ha avuto pochissimi periodi di stasi. Quando non c’era la musica c’erano la radio, la scrittura per altri, il teatro, il cinema. La preoccupazione, invece, è arrivata quando si è presentata la malattia.

Sul palco o di fronte alle telecamere si presentava nonostante tutto col solito atteggiamento da guascone e con la sigaretta in bocca. E nella vita privata?
È stato un caso beffardo: una malattia alle corde vocali per uno che le usa per il 60-70% della sua attività. Era infastidito dal fatto che gli fosse capitato proprio quello e non altro. È durata da fine 2009 allo scorso luglio. Una fetta significativa di vita. La sua reazione alla malattia è stata però indescrivibile. Faccio fatica a immaginarmi a fare come lui, che ha affrontato tutte quelle complicazioni e poi è riuscito a presentarsi a fare quello che amava fregandosene di non avere neanche una corda vocale. «Sono l’unico cantante al mondo che canta senza corde vocali», scherzava.

Coi Bnkr44. Foto: Lorenzo Stefanini

A Sanremo nella serata delle cover con i Bnkr44 c’è stata una nuova consacrazione.
Considera che prima di Sanremo, a fine novembre a Brescia, gli avevano tolto un polmone. Ne è seguita una riabilitazione flash. È salito sul quel palco senza una lamentela.

Effettivamente non ha mai parlato della malattia commiserandosi.
Aveva una sua filosofia di vita che ha portato avanti fino alla fine. Non amava passare come quello che si va a lamentare delle tragedie che ha vissuto. Esistono messaggi molto più importanti da trasferire. Non voleva essere uno di quelli che vanno tv perché stanno male. Preferiva il sorriso al piagnisteo.

Prima di morire Andrea Pinketts mi disse: «È stata colpa mia, il sigaro lo perdono».
Io, come più volte gli ho detto, avrei evitato che tornasse a fumare. Ma non riusciva proprio a smettere. Parliamo in fondo, sia per mio padre che per Pinketts, di esseri umani con vizi e debolezze. Forse i timori legati a ulteriori complicazioni non colmavano il bisogno che sentiva di fumare. Ne abbiamo parlato, poi ho capito che dovevo lasciar correre e accettarlo. Non si può imporre qualcosa a una persona che ha vissuto quel che ha vissuto lui e nel modo in cui l’ha vissuto.

Di Funky Maestro stupisce l’estrema contemporaneità dei temi.
Era estremamente lucido e ironicamente critico. I brani contenuti nell’EP ne sono una buona prova. Da un lato, musicalmente, ha cercato di riprendere le linee funk che lo caratterizzavano e che sono nei primi tre pezzi più ritmati, con chitarre e linee di basso piuttosto nette. E poi c’è una ballata come Volando nell’anima, che era nel cassetto da un po’ più di tempo, e che lui ha lasciato grezza. Somiglia quasi a una versione demo, voleva che uscisse proprio così, non finita. Provata poche volte in studio e registrata al volo. Gli piaceva lasciare questo brano quasi acerbo, ma con all’interno un forte messaggio.

C’è qualcosa che vi siete detti prima della sua scomparsa e che ti andrebbe di condividere?
Per tanto tempo è stato di fatto il mio migliore amico. Una parte di me se ne è andata con lui. Ricordo che mi diceva spesso, quando gli dicevo cosa andava e non andava nella mia vita: «Allenati alla felicità». Cioè inizia a guardare con occhi diversi cose che ti sembrano importantissime e cerca quello che ti fa stare bene. Così, ogni tanto mi incalzava: «Ti stai allenando?». Ecco, purtroppo una cosa che avrei voluto dirgli e non ho fatto in tempo è proprio questa: papà, sai cosa c’è? Che sono felice.

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