Pino D’Angiò: «Questa è stata la mia vita e questa sarà per quel che rimane»
Cantante per caso, ha venduto dischi a palate negli anni ’80 interpretando con ironia il personaggio del dritto. Qui racconta la sua storia: il boom con ‘Ma quale idea’, «una donna bellissima, ma un po’ zoccola», il rifiuto dei compromessi, l’incontro con Mina, il cinema e la tv, la spaghettata con Marvin Gaye, il revival, il successo all’estero, il tumore alla gola e ai polmoni. «Poi vedremo che cazzo succede»
Foto: Pino D’Angiò negli anni ’80, per gentile concessione dell’artista
Sorso d’acqua. È diventato più di una necessità per Pino D’Angiò, quasi una sorta di unità di misura del tempo. Sono tanti i sorsi d’acqua che accompagnano questa lunga chiacchierata in cui il cantautore (Giuseppe Chierchia per l’anagrafe, napoletano di Pompei, classe ’52), tra i nomi simbolo dell’Italo disco, la dance music in salsa italiana che imperversò tra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’80 circa, racconta la propria vita e la propria carriera.
Carattere gioviale ed esuberante ma poco incline al compromesso, una costante nella gestione del suo percorso artistico: una carriera nata praticamente per scherzo ed esplosa grazie a Ma quale idea, che lo trasforma in una star dalla sera alla mattina e che lo accompagnerà per tutta la vita, nel bene e nel male.
Se è vero che D’Angiò non ha più rivissuto il successo clamoroso degli anni ’80, è anche vero che la sua signature song – con la quale vive inevitabilmente un rapporto di amore e odio – è stata riscoperta e celebrata a più riprese, sia in Italia che all’estero. Succede nel 2000, ad esempio, quando il duo australiano Madison Avenue sceglie di campionarla per la hit Don’t Call Me Baby, per il quale il cantautore riceverà, l’anno seguente, l’ASCAP Rhythm & Soul Music Award. La cosa si ripeterà pochi anni dopo, questa volta sono i romani Flaminio Maphia a trovare fortuna pescando dal classico di D’Angiò, che verrà scelto anche da Mark Ronson, un vero e proprio monumento alla figaggine, per una delle sue tante playlist realizzate per il brand di moda Gucci. L’ultimo remix del pezzo, ad opera del francese Myd, è giusto della settimana scorsa, per dire.
Ma se è vero che Ma quale idea è il suo successo più noto, sarebbe miope ridurre tutta la sua carriera in quei 4 minuti e 23 secondi di groove. Pino D’Angiò è stato anche autore e conduttore di numerosi programmi per la Rai, sia in radio che in televisione, mentre altri brani della sua corposa discografia sono stati scelti per accompagnare fiction e spot di brand internazionali come Amazon. Anche le nuove generazioni sembrano aver riscoperto il suo sound, grazie a Spotify (dove registra, ad oggi, quasi 800 mila ascoltatori mensili) e alle altre piattaforme di streaming, oasi digitali senza tempo dove vecchie hit possono tornare nuove.
Gli ultimi anni non sono stati clementi, col vulcanico cantautore che è stato costretto al ritiro dalle scene. Prima c’è stato il tumore alla gola sconfitto, ma a un prezzo altissimo, con le corde vocali che ne sono uscite praticamente distrutte, e ora un cancro ai polmoni. Nel futuro a breve termine, invece, c’è un disco, intitolato semplicemente The New Album, realizzato come il singolo Non dormo mai col contributo del funkster genovese Bobby Soul. Un nuovo inizio, con un nuova voce, più bassa, ma comunque inconfondibile.
Musicista per caso («io mai nella vita ho desiderato di fare il cantante»), alla fine degli anni ’70 D’Angiò è uno studente di medicina all’Università di Siena ma di fare il dottore proprio non ne ha voglia. Figlio di un ingegnere minerario della Exxon, abituato a viaggiare fin da bambino, in America si innamora del funk e del soul di Joe Tex e James Brown («quelli suonavano il funk come qui si suonava la fisarmonica nei paesi»), generi musicali da sempre poco popolari nel nostro paese. La svolta arriva nel 1979: per mantenersi, frequenta serate di cabaret in un locale di Firenze, il Pozzo di Beatrice, dove suona la chitarra e lì viene notato da Ezio Leoni, all’epoca produttore di Mina.
«Non so se fossi bravo o meno, neanche mi interessava, bastava esser pagato. A fine serata uno viene e mi lascia un bigliettino col suo numero di telefono. Chiamami. La maggior parte degli agenti di allora erano presuntuosi, perditempo, millantatori, chiacchieroni. Tornai a casa e vidi che c’era scritto Ezio Leoni. Io stavo a Siena e già andare a Firenze era un viaggio, per me. All’epoca, pensare di andare a Milano mi pareva di andare in Australia».
Qualche mese dopo è a Milano, dove si presenta al provino con Leoni che gli propone di realizzare un 45 giri, È libero scusi?. «È come se uno ti ferma per la strada e ti dice “bella faccia, vuoi fare la copertina dell’Intrepido?”. Facemmo il primo 45 e andò malissimo. Non lo comprò neanche mia madre, non lo comprò nessuno. All’epoca avere un successo significava vendere un milione e mezzo o due milioni di copie, noi ne vendemmo 11 mila e per me la cosa finì lì, proseguii nella mia vita. Sei o sette mesi dopo, e ancora non ho capito bene perché, Ezio mi richiama e mi dice “vieni qui che ti devo parlare”. Dopo scoprii che era il produttore di Mina ma, appunto, lo scoprii dopo. “Ho deciso di produrre un LP”, mi disse. Stetti zitto ma pensai: questo è pazzo. Mi chiese di portargli 15 pezzi e ne scelse dieci. Da quel momento in poi io non ho più capito niente. Mi è successo di tutto. Ho fatto colonne sonore per film, più di dieci dischi, ho vinto un premio in America, la mia musica è diventata colonna sonora di uno spot globale per Amazon. Ho sempre seguito la corrente, mi pagavano per fare cose che avrei fatto gratuitamente».
Oggi come stai?
Benino. Potevo stare meglio, ma potevo anche stare molto peggio. Potevo anche non esserci più. Va bene così, son contento di come sto e mi diverto ancora come un pazzo
Sorso d’acqua.
Quando ti sei accorto di esser diventato famoso?
Me ne sono accorto su un aereo. Si tratta di una cosa stupida, ma io lo presi come un segnale. Beh, insomma, ero su un aereo per la Sicilia e la selezione musicale dell’Alitalia, prima del decollo, spara Ma quale idea. Mi si drizzarono i capelli. All’epoca l’Alitalia mi pareva il massimo e dopo 20 minuti ne passarono un altro. Ora ti dirò una cosa, anche se fraintenderai: ero abituato ad esser guardato con interesse. Ero quello che suonava la chitarra, quello che raccontava le barzellette, quello che faceva lo scemo per conoscere le turiste, a Siena mi conoscevano tutti. E ho il vanto nella mia vita di non aver mai avuto un ufficio stampa. Io ho fatto tutto da solo.
Perché ti vanti di questa cosa?
Perché mi piace da morire. All’inizio, nella casa dove mi piazzò Ezio Leoni, con Ivan Zanicchi, Ronny Jones e altri, io litigai con tutti subito. Già dopo un mese, un mese e mezzo, la gente mi evitava perché ero un rompicazzo terribile. Non mi piaceva la copertina, non mi piaceva l’articolo, non mi piaceva questo o quel modo di fare, e poi c’era questo imbecille che venne da me e mi disse «adesso ti rifaccio l’immagine». Già com’era vestito lui faceva ridere, figurati se questo vestiva me. Per cui cominciai a vivere da me, per i fatti miei cosa che, tra parentesi, mi ha fatto un male cane.
Tu hai spesso interpretato il personaggio del dritto, quello con la battuta pronta.
Ma io mi sono sempre preso in giro. Le mie sono tutte storie divertenti, che poi sono io. Ma quale idea parla di un buffone che entra in discoteca e il coro dice “ma non vedi che lei non ci sta?”. Io ho scritto un musical, presi come interprete Nino Castelnuovo che aveva fatto film importanti ma in Italia era noto per il saltello dell’olio. Entrammo in contatto e la prima cosa che mi domandò fu: «Pino ma perché tu racconti sempre storie divertenti?». Pensai che avesse ragione. Sai perché succede? Perché non faccio altro che prendermi in giro e questo piace alla gente. O meglio, piace alla gente che lo capisce. Chi non lo capisce mi odia.
Nella vita privata sei stato molto quadrato, però. Una moglie, una famiglia.
Io ho avuto la fortuna, quando ho iniziato questo lavoro, di aver già raggiunto una formazione morale. Nato e cresciuto in una famiglia che aveva girato il mondo, parlavo inglese come gli americani. Questa cosa di fare il cantante l’ho sempre presa come un gioco, un gioco che mi ha impegnato tutta la vita. Le cose importanti che ho imparato son sempre state altre, anzi mio padre ha continuato a chiedermi per anni quando mai avrei iniziato a fare un mestiere normale. Pure quando vincevo i dischi d’oro mio padre mi domandava «Giusé, ma quando ti metterai a lavorare?» (ride). Questa cosa mi piaceva, non mi ha mai messo in difficoltà perché sentivo di avere alle mie spalle una protezione che è quella con cui era cresciuto, quella con cui sono nato e quella con cui sto per morire. Questa è stata la mia vita e questa sarà per quel che rimane. Poi si starà a vedere che cazzo succede.
Sorso d’acqua.
Anche tuo figlio è musicista?
No, l’ho tenuto lontanissimo dal mio mondo. L’unica cosa che ho fatto è stato portarlo ai concerti metal, quando era bambino, affinché si spaventasse.
Affinché si spaventasse!?
Sì, non è una battuta. Lo portavo a sentire questa musica incasinata, tutta distorta, questi coi giubbotti di pelle sotto al palco che davano i pugni alle cose per vaccinarlo da questo ambiente. Non volevo assolutamente che facesse il mestiere mio. Perché a me è andata bene, ma io l’ho scelto. Ritrovarcisi e, magari, non riuscirci è parecchio peggio. Che poi quello era il periodo che mi ero ritirato perché mi era stato diagnosticato il tumore. Io facevo concerti, serate, discoteche, una valanga di programmi in radio e all’improvviso si è fermato tutto. È come se fosse passato qualcuno che mi ha detto «tu da domani parlerai a bassa voce».
E poi?
Mi chiama mio figlio. Mi dice «guarda, c’è questo dj di Milano che mi sta addosso da mesi, vuole parlare con te, posso dargli il tuo numero?». Alla fine accettai, più che altro per dar tregua a mio figlio, e parlai al telefono con questo Tommaso Zucchini. «Pino? Sono sette mesi che ti sto cercando tu devi venire qui a fare serate!». E io «ma che cazzo stai dicendo! Ma io non c’ho più la voglia, ho 67 anni, ma chi vuoi che mi venga a vedere?». Abbiamo battagliato al telefono per due mesi, poi mi sono arreso. Quindi vado a fare una serata in questo locale che si chiama Apollo. Pieno. Pensai che non fossero lì per me, del resto quella era una discoteca di Milano. Facemmo un’altra prova, stesso risultato. Altra prova, stesso risultato. Cantavano le mie canzoni. In coro. Cos’è successo in tutti questi anni che son stato fuori da tutto e da tutti? Dev’esser successo qualcosa che non ho capito.
E tu che risposta ti sei dato?
La risposta che mi sono dato io, è una risposta che mi fa comodo. Però credo anche sia l’unica che possa avvicinarsi alla verità, altrimenti sarei un presuntuoso. È successo che con questa storia di TikTok, di Instgram e di Spotify i ragazzi non sentono più le radio. O meglio, le sentono molto meno e praticamente zero la televisione, si scelgono la musica da soli. Che il grande network trasmetta dalla mattina alla sera il disco dell’artista X, ai ragazzi non frega un fico secco. Perché loro si muovono col passaparola, si confrontano fra loro, per la prima volta il pubblico ha un accesso diretto al mercato musicale.
Vero.
Oggi che tu sia su una major o che tu sia indipendente, i ragazzi manco lo sanno.
Trovo che la tua risposta sia assolutamente vicina alla realtà.
Sai, quando dico questa cosa sembra che voglia giustificare qualcosa e invece io non devo giustificare niente. A Roma c’era la fila fuori, a Milano la serata è andata sold out in due ore e abbiamo dovuto aggiungerne un’altra, sold out anche quella. A Londra è successa una cosa che mi ha riempito di soddisfazione.
Che cosa?
Mi aspettavo che a Londra venissero solo ragazzi italiani, quelli che studiano o lavorano lì. Ci siamo trovati con 1300 ragazzi inglesi, forse un centinaio saranno stati italiani. Ma io ho fatto lo spettacolo in inglese, cantando in italiano e questi cantavano in coro. Chiaro, gli inglesi cantavano solo quelle più semplici, ma è successo. Me lo dite quale cantante italiano viene chiamato in Inghilterra e a sentirlo ci vanno i ventenni inglesi? E questa cosa chi cazzo la scrive? Non la scrive nessuno.
La scriverò io.
Ti sto raccontando una vita sottotraccia per quanto riguarda questo paese e tutt’altro che sottotraccia per quanto riguarda l’estero.
È un po’ come se la tua vita si fosse mossa a due velocità diverse.
Assolutamente si. Prima questa cosa non mi interessava. Soprattutto quando è arrivato il tumore, stavo talmente male… a un certo punto sono arrivato a pesare 46 kg, non riuscivo a parlare, mi tremavano le mani, ho avuto tre operazioni di chirurgia alla gola. E adesso, mentre parlo con te, ho in corso un tumore polmonare e come vedi mi manca il fiato e devo bere ogni tot. Non è che sto proprio in forma, però a questo punto mi dispiace, perché credo che non sia giusto, però con chi me la prendo? Forse con me.
Sorso d’acqua.
Beh, in tutti i video dell’epoca eri sempre con la sigaretta in bocca.
Sì, ma infatti me la devo pigliare con me. Che poi anche questa cosa della sigaretta è nata per caso. La prima cosa in tv che ho fatto è stata il Festivalbar, quando era in diretta dall’Arena di Verona. Era solo una serata, ma era molto più importante di Sanremo perché rappresentava l’apoteosi estiva della musica del momento. Salvetti (Vittorio, ideatore della manifestazione, nda) mi chiamò a chiamare Ma quale idea. Ero dietro le quinte, stavo fumando in attesa del mio turno, ero nervoso, avevamo la scaletta ed io ero subito prima di Alan Sorrenti. Che però non si trovava, per cui il direttore di produzione era talmente inquietato che era diventato Hitchcock! Me lo ritrovo alle spalle che praticamente mi trascina sul palco. Parte il brano e io sono sul palco con la sigaretta che non ero riuscito a spegnere. Faccio anche un paio di tiri, perché già che c’ero, mi venne naturale. Tutti mi dissero che era una grande trovata, ovviamente erano altri tempi, e la cosa andò così ed è avanti sempre.
L’hai citata tu, Ma quale idea, il tuo brano simbolo, quello che tutti conoscono e che, immagino, inevitabilmente tutti ti chiedono quando ti esibisci. Che rapporto hai con questo pezzo?
Il rapporto che c’è con una donna bellissima ma un po’ zoccola (ride), Nel senso che la devi ringraziare perché ti ha cambiato la vita, ma certe volti la odi perché la gente ti riconosce per quella, come se avessi fatto solo quella. Ho fatto una valanga di cose, anche più importanti. Il premio non l’ho vinto con Ma quale idea, Amazon per lo spot globale non ha scelto Ma quale idea, adesso mi hanno chiamato dal Brasile per mettere Perdoni tenente in ogni puntata di una fiction da 50 episodi, ci sono tanti altri successi. Io ho vinto dischi d’oro per brani come Evelonpappà evelonmammà che in Italia non li hanno manco mai sentiti. E quindi a volte mi lamento.. ma, nella realtà, se non ci fosse stata quella canzone oggi non sarei qua. O meglio, sarei qua comunque ma senza tutto quello che mi è successo. Sarei un medico di terza categoria da qualche parte, non sono mai stato tagliato per fare quel lavoro.
Nel 2005 quel brano fu campionato dai Flaminio Maphia che ne fecero una nuova hit e rivelarono la tua musica a una nuova generazione di ascoltatori. Che ricordi hai di quel momento?
Vennero a trovarmi sulla costiera amalfitana, dove vivevo all’epoca e mi chiesero di fare il pezzo con loro. Risposi «per carità! Ragazzi, io ho 50 anni, voi 22, io faccio la parte del vecchietto, voi dei fighi, non se ne parla. Se la fate da soli può funzionare, se la fate con me sembrate i miei figliocci». La fecero loro e fu un bel successo, i ragazzi pensarono che era una loro canzone, poi con internet hanno scoperto che era mia. E si ritorna al discorso di prima.
La malattia come ha cambiato la tua voce e, di conseguenza, il tuo modo di fare dischi?
Il modo di fare musica non è cambiato, ma se abbasso il tono, la mia voce diventa un’altra. Molto bassa ma senza affanni. Con un buon microfono posso fare un rap, magari a 0,4 decibel (ride). Ringraziamo la Madonna che mi è rimasto questo.
Sorso d’acqua.
Hai avuto una grande carriera, che hai sempre cercato di vivere con leggerezza. Qual è la cosa di cui sei più orgoglioso e quella che non sei riuscita ad ottenere?
Due cose. A inizio carriera il produttore che mi lanciò, Ezio Leoni, mi chiamò a Milano per provare È libero scusi? di fronte a Mina. Andai a Milano, entrai in questa stanza dove c’era Mina seduta con una rivista in mano che non mi guardò mai. Disse solo «mi faccia sentire». Mi sedetti, mi sentivo piccolissimo e la feci. Lei mi guardò un attimo, così per curiosità, giusto per vedere che faccia avevo e si ributtò sulla rivista. Disse «mi faccia un provino», per cui me ne andai, feci avere una cassetta a Leoni ma quel pezzo lei non lo ha mai cantato. La storia finisce qua? No. Passano 20 anni, abito sulla costiera amalfitana, mi son comprato una villa della madonna. Un giorno torno a casa e mia moglie dice: «Oh Giusè, ha chiamato una certa Mazzini, che ti cercava». Boh, chissà chi è. Dopo tre giorni, un’altra volta la signora Mazzini. Stavolta ero in caso per cui prendo la cornetta. «Salve, sono la signora Mazzini, cercavo il signor Pino». «Sono io». «Salve sono Mina». Oh cazzo. Rimasi senza parole. «Salve, mi dica». Lei mi disse testualmente «sai, ho un disco pieno di canzoni d’amore. Volevo un pezzo di quelli che fai tu, una cosa diversa, divertente». Punto. Basta. Non mi serve altro. Trent’anni fa non mi hai neanche guardato in faccia e adesso mi chiami continuamente a casa? Perché vuoi un pezzo di quelli che faccio io? E infatti gliel’ho fatto. Anche Monica Vitti mi fece i complimenti, mi disse che si era divertita a girare il video. Fu incredibile perché per me fu come se me lo avesse detto la Madonna. I fallimenti invece non li vado a raccontare in giro.
Beh, avrai un qualche rimpianto.
C’è una cosa che non riguarda la musica e mi è andata male due volte, il cinema. Devi sapere che, ogni volta che mi cercavano, mi chiamavano sempre per fare il delinquente. Non so perché, anche perché in televisione ero sempre divertente. Tornatore mi cercò per interpretare uno dei fratelli Bardellino, uno dei più importanti criminali della Camorra, invece Zeffirelli mi chiamò per fare Iago in Otello. Lo andai a trovare nella sua villa a Posillipo, gli dissi che vivevo sulla costiera amalfitana e non mi credette. Forse mi prese per un millantatore, un fanfarone, non so, comunque non se ne fece di nulla. Il film alla fine non fu fatto. Un’altra volta invece chiese di me Francis Ford Coppola tramite un agente del cinema, che mi venne a cercare perché non avevo un manager. Dovevo fare Salvatore Giuliano, il bandito, un film da girare in Tunisia, ma in quel periodo c’erano stati molti attentati contro gli americani e quindi la produzione bloccò tutto. Ah, non ho mai incontrato Lucio Dalla.
Lucio Dalla?
Sì, ho incontrato tutti, Kid Creole, Boy George, i Dire Straits. Marvin Gaye è venuto a mangiare gli spaghetti a casa mia.
Hai cucinato gli spaghetti per Marvin Gaye?
No, ha cucinato lui. Una schifezza. Stavo facendo questo programma, si chiamava Sotto le stelle, presentavamo io e Edwige Fenech che, tra parentesi, è una delle donne più belle che abbia mai visto. Si faceva all’auditorium di Napoli.
No, aspetta, l’edizione di Sotto le stelle condotta dalla Fenech risulta essere dell’86 e Marvin Gaye è morto nell’84.
No no, Marvin Gaye era ospite, non ci sono santi. Lo ricordo, eravamo là, abbiamo parlato, è venuto, abbiamo fatto gli spaghetti, ma che scherzi? Forse l’edizione era un’altra o forse era un’altra trasmissione.
Scusa se te lo chiedo così, ma sei sicuro che fosse Marvin Gaye?
Oh Madonna, ma vuoi che sia impazzito fino a questo punto? L’ho visto, l’ho toccato, ci ho parlato. Era ospite di una trasmissione agli studi dell’Auditorium di Napoli. Ricordo che il direttore d’orchestra era Bacalov, che tra l’altro venne ad abitare da me in occasione delle registrazioni. Abitando sulla costiera, facevo su e giù. Facciamo le prove, io ho la mia scaletta, Fenech la sua. Ci mettiamo d’accordo, io entro di qui, tu esci di là, cose così. Finite le prove io andavo a casa, neanche sapevo chi fossero gli ospiti della puntata, io ero il presentatore non me ne poteva fregare di meno. Nei camerini incontro questo tizio gigante di un metro e 90 e cominciamo a parlare, capisco che è uno degli ospiti della serata, ma non ho idea di chi sia. Rompiamo il ghiaccio e parliamo del più e del meno, cose davvero banali. Si presentò come Winny. Io, abituato com’ero a fare amicizia subito, dato che avevo cambiato casa mille volte, lo invitai a casa mia. Venne, c’era anche mia moglie, lo chiamammo Winny per tutta la serata. Ripeto, non sapevo che faccia avesse Marvin Gaye, non avevo idea di chi fosse. Per cui mi ritrovo con questo Winny a casa che dice «spaghetti spaghetti!» e vabbè, facciamo gli spaghetti. Io mi metto a fare il sugo e questo prende e mette gli spaghetti nell’acqua prima che stesse bollendo. ’Nsomma, gli spaghetti vengono mollicci e lui si ferma a dormire nella tavernetta di casa mia. Suonava la chitarra da Dio e abbiamo cantato qualche canzone assieme. Due giorni dopo siamo tornati a Napoli perché c’era la registrazione della puntata. Io e Edwige ripassiamo la scaletta, tutto ok. Tocca a lei che sale sul palco esclamando «ed ecco l’ospite internazionale, Marvin Gaye!». Ed esce Winny!
E tu?
Ci sono rimasto come un imbecille. Anche perché non ho neanche approfittato della cosa. L’avessi saputo ci saremmo fatti 40 fotografie insieme, scambiamoci i numeri di telefono, vengo in America, che ne so, qualsiasi cosa! Quindi me ne andai nel camerino e lo chiamai «Marvin?» e lui «yeees!» e cominciò a ridere, come a prendermi per il culo, perché aveva capito che io non avevo capito. E si era proprio divertito a fare il tizio qualsiasi. Poi grazie e buona notte ognuno per la sua strada. Sono stato malissimo quando è successo quello che gli è successo. Perché morire è già terrificante, ma morire così, ammazzato dal padre, ci son rimasto di merda. Avrei potuto fare mille cose, ma non so neanche cosa, però, piuttosto che stare lì a fare gli spaghetti… te ne potrei raccontare a milioni di esperienze così. Certe volte va bene, certe volte va male, certe volte non sai neanche cosa stai facendo. È tutto qua.
PS. Nel 2023 Pino D’Angiò non ha ancora, caparbiamente ma anche coerentemente col proprio percorso, un ufficio stampa.
Sorso d’acqua.