Isla Diferente, il nuovo album di Populous, Andrea Mangia all’anagrafe, è molto semplicemente una cura per l’anima: un disco scuro, avvolgente, un disco che sradica via le sonorità latine dai bar chiassosi o dal mainstream paraculo per portarle invece in luoghi oscuri, rarefatti, rilassanti, anche stranianti.
Ecco, quello di Populous è un percorso molto interessante, anche perché ormai più che ventennale: da piccolo e timido wonder boy dell’elettronica che, partendo dal lontanissimo Salento, incide per l’allora prestigiosissima Morr Music tedesca (erano gli anni dell’indietronica…) a dj/producer sicuro di sé che macina dischi e date e viaggi, divertendosi, da cittadino del mondo, aggiungendoci poi sempre più spesso lavori di sonorizzazione per brand ad alto livello (per dire: in una delle ultime pubblicità in cui appare Kate Moss, la musica è sua).
Ma più di tutto, Andrea è una persona intelligente: che si diverte a giocare, ritagliandosi il personaggio di snob corrosivo, ma è in realtà una artista di rara lucidità, curiosità e senso della realtà. Doti che nel mondo musicale italiano di questi anni – a partire da quello nominalmente indipendente, sempre più ossessionato dalla necessità di numeri, esposizione e successo – sono assolutamente preziose. E sempre più rare.
Partiamo con un dubbio: prima di iniziare a lavorare questo disco, avevi già chiare in mente le tue intenzioni? Te lo chiedo perché mi sembra un album veramente coeso stilisticamente, con una identità davvero precisa, definitissima: come fosse stata decisa a tavolino prima, come fosse insomma tutto già perfettamente chiaro nella tua testa prima ancora di iniziare a registrare.
Verissimo. L’idea di fare un disco costruito sulle suggestioni di Lanzarote è nata un anno prima della sua effettiva realizzazione, idea fin da subito nitida e decisa. Ero stato lì in vacanza con amici, e mi ero trovato benissimo. Sai no che ogni tanto arrivi in un posto e senti subito una connessione speciale con esso, capendo che può darti qualcosa di importante anche a livello creativo… Quindi sì, Lanzarote è stata la spinta perfetta ed anche l’ispirazione per dare vita ad un disco molto latino e molto crepuscolare al tempo stesso. Crepuscolare nell’accezione più psichedelica del termine, ecco.
Ispirazione, certo. Ma te la butto lì: per fare bene un disco ispirato da Lanzarote è davvero necessario andare a Lanzarote a farlo materialmente?
Chissà. Manca la controprova. Quello che è certo è che si vive di suggestioni, da artista: il che significa che magari puoi fare un disco ispirato, che so, dall’Islanda anche stando a Milano e farlo bene, se l’ispirazione è forte. Però non lo so: io sono comunque affezionato a questa idea di onestà intellettuale, per cui se vuoi fare qualcosa ispirato ad altro è giusto che ti sposti dalla tua comfort zone, dal posto dove vivi. E come sai io mi divido tra Lecce e Bassano del Grappa, sono due città che amo molto, difficilmente potrei vivere in altri posti. Ad esempio difficilmente potrei vivere a Milano. Ma questo è un discorso che forse non mi va neanche di fare. Fondamentalmente, diciamo che ho un problema coi posti troppo freddi: quando arrivano gennaio e febbraio trovo sempre il modo di andarmene da qualche parte, recentemente è successo con Argentina e Messico, però quest’anno mi ero detto “Invece di stare in giro un mese e mezzo a fare un cazzo, forse potrei usare meglio questo lasso di tempo”.
E l’hai usato quindi per Isla Diferente.
Già. Anche perché mi ero ricordato di questo ragazzo che avevo conosciuto nel mio precedente viaggio a Lanzarote, che assieme al suo compagno aveva messo su questa attività che era un po’ un bed&breakfast molto eco-chic, con però una possibilità in più: quella di offrire residenze d’artista. Basta mandare un curriculum: loro valutano, e in caso ti scelgono. E mi hanno scelto.
E come è andata?
Beh, un po’ allucinante. Cioè, aspetta: il posto è bellissimo, lo consiglierei a tutti! Ma ci sono alcune cose pratiche un po’ impegnative, che peraltro spesso riguardano tutta l’isola. Ad esempio il problema dell’acqua: ogni volta che dovevo farmi la doccia era il caso di farsi il segno della croce e sperare che ne scendesse un po’, almeno un rigolino… E visto che loro al bed & breakfast giustamente volevano spingere sul riutilizzo dell’acqua, perché per loro è una questione importante, non potevi nemmeno usare prodotti chimici tipo shampoo. Altra cosa un po’ estrema: all’interno della loro struttura non puoi introdurre nulla che sia carne o pesce, e capisci che per uno come me che arriva dal Sud Italia e si divide tra Salento e Veneto la cosa risulta all’inizio un po’ così… Però, dopo lo spaesamento iniziale, cominci ad apprezzare questa situazione. A capirla meglio, ecco. Troppo spesso ci dimentichiamo ad esempio che l’acqua è un bene essenziale e prezioso, e per nulla scontato: Lanzarote è un posto ipercivilizzato, eppure lì l’acqua vale come l’oro. Questo ti fa riflettere. È sfidante. Ti spinge a cambiare la tua percezione delle cose, portandoti ad un reset mentale molto interessante.
È stato d’aiuto anche per la musica?
Molto. I primi giorni ho girato moltissimo per l’isola – inizialmente con mio marito e i miei amici, poi da solo – a raccogliere suoni. D’altro canto, è la classica isola dove quello che puoi fare è andare in giro, fare lunghe passeggiate: Lanzarote infatti è il trionfo della natura e del relax, questo il suo fascino. A meno che uno non voglia andare nella parte sud, quella infestata da luoghi ipercommercializzati, che sinceramente trovo bruttissimi. Finita la giornata, cosa potevo fare? Potevo guardare Netflix; o potevo invece mettermi a lavorare al disco. Bene: ho fatto la seconda.
Tornerei un attimo al concetto di sfidante, parola che hai usato prima e che mi piace molto. Ti chiedo: ci sono stati dei momenti in cui la musica ha smesso di essere sfidante, per te? Una domanda che nasce dal fatto che tu, per mantenerti, fai anche un sacco di lavori su commissione per brand e simili – e lì magari la musica può diventare una routine, un lavoro come tanti altri, non un processo puramente creativo.
Mentirei se ti dicessi che non è vero. La vita degli artisti così underground, come posso essere io, è sfidante di suo: perché ogni giorno ti chiedi fino a quando riuscirai ad andare avanti facendo quello che fai, se avrai sempre il modo di trovare cose stimolanti da raccontare in musica – potendotelo permettere economicamente. È un tarlo, è una cosa che ti assilla continuamente… Poi però ti dici che se dopo tutti questi anni continui a fare il musicista, allora forse assecondare il flusso così come lo stai assecondando tu è proprio la cosa giusta da fare. Io non ho famiglia, non ho grosse spese, la musica – anche grazie alle attività collaterali come appunto i lavori su commissione – mi sta permettendo di vivere dignitosamente. Non riesco a mettere nulla di che da parte, non posso fare troppi calcoli per il futuro; però sta di fatto che ogni anno mi trovo col mio commercialista e mi rendo conto che ho guadagnato un po’ di più rispetto all’anno precedente. Una cosa te la posso dire: ho abbandonato ogni velleità di entrare nel grande giro che conta, musicalmente parlando, quello del mainstream.
Ah sì?
Ammesso e non concesso mi sia mai interessato davvero, ora proprio non mi interessa più. Sto bene dove sto. Anzi, di più: vorrei regredire ancora di più, vorrei fare cose sempre più underground, vorrei tornare ad essere davvero di nicchia.
Addirittura?
Credo che sia quello che voglio davvero. C’è stato un momento in cui il mio nome ha preso a circolare abbastanza, ed ha preso a farlo anche tra persone che non capivano davvero quello che volevo esprimere con la mis musica. E sai cosa? Quella fase lì non mi ha lasciato nulla. Questa fase di popolarità, usiamo ovviamente il termine tra virgolette, alla fine non mi ha lasciato niente di che: e lì ho capito che proprio come indole preferisco essere popolare fra dieci persone che però intendono perfettamente quello che voglio esprimere, piuttosto che fra cento che hanno un’idea un po’ confusa e superficiale di me. Lo so che è un discorso un po’ snob del cazzo (ride), ma…
Questo mi fa pensare che Isla Diferente lo hai realizzato collaborando con due persone che erano a modo loro arrivate al successo mainstream, almeno nel proprio campo di competenza, e poi per mille motivi se ne sono invece sfilate: penso a Rocco Rampino, che ha avuto un ruolo importante nella realizzazione del disco, e Bot ex metà dei Crookers, da cui sei andato a Los Angeles per fare il mastering. Entrambi ad un certo punto avevano raggiunto una fama mondiale, nel mondo della fidget house, con tournée ben pagate in mille parti del globo, ed entrambi se ne sono tirati fuori.
Ma sai che è vero? Non ci avevo pensato… Però sì, entrambi hanno avuto un percorso stranissimo. Non voglio parlare per loro, non mi permetterei mai, ma effettivamente l’impressione è che entrambi ad un certo punto si siano ritrovati in un vortice pazzesco, capendo però dopo un po’ che no, non faceva per loro, non li faceva stare bene, nonostante i risultati apparentemente invidiabili. Il successo non è una cosa facile da gestire. Sa essere qualcosa di molto squallido, anche. E ad esempio Rocco, parlo di lui perché lui lo conosco proprio bene, era ed è una persona troppo stratificata e colta per restare imbrigliata in qualcosa di troppo superficiale, per quanto ammaliante. Non deve essere stato facile per lui rinunciare a tutto questo; ma oggi mi sembra una persona molto serena, molto centrata.
Prima hai voluto dribblare un po’ il discorso Milano, io però vorrei tornarci sopra.
Milano è strana. Musicalmente, ha un potenziale enorme: ha una concentrazione di talento altissima, ora che molti musicisti sono venuti a vivere lì. Però sento che c’è qualcosa che non va, qualcosa che non torna. Sai qual è forse il problema? Il pubblico.
Il pubblico?
Non sa lasciarsi andare. A Roma – pur con tutti i suoi problemi, o magari proprio per quelli – è tutto una catarsi, quando vai in un club, soprattutto in determinati club. A Milano, no. Anche perché “lasciarsi andare” non è farsi un pezzo di coca, no; è altro, è qualcosa di molto più profondo, è davvero abbandonarsi alla musica, fare lo sforzo di entrare in connessione mentale con chi sta suonando per te – e tutto questo a Milano mi pare più difficile che in altre città. Il perché, non te lo si dire.
Provo a dirtelo io: perché a Milano un po’ tutti si sentono, a torto o a ragione, degli addetti al settore. Gente introdotta, gente inserita. “Lasciarsi andare” è da parvenu.
C’è questa cosa del presenzialismo, a Milano, per cui in certi posti ci devi essere, anche se in realtà non ti piacciono granché: vero. Accade. Chiaro che in questi casi diventa ancora più difficile lasciarsi andare. Ma al di là di questo, penso che il problema sia che ormai tutta l’industria musicale stia a Milano: di conseguenza uno si aspetta che qualsiasi cosa accada lì sia fantastica, pazzesca, ma le uniche cose fantastiche e pazzesche davvero sono quelle che accadono negli uffici, quando si tratta di firmare contratti e costruire strategie.
E le tue strategie, oggi, quali sono?
C’è stato un momento in cui abbiamo visto, io e chi mi cura il booking, che i cachet di tantissime persone stavano aumentando e, insomma, magari pure noi potevamo permetterci di iniziare a farlo, magari anche raddoppiando le nostre richieste. “Lo facciamo?”. Lì, mi sono ritrovato a pensare che non ho voglia di seguire questa dinamica, ma per un motivo ben preciso: io vorrei che la mia carriera durasse il più possibile e vorrei anche che le persone che organizzano una serata con me abbiano un buon ricordo. Non voglio insomma che ci perdano dei soldi a farmi suonare, non voglio essere il motivo di una loro infelicità. Cerco quindi di non approfittarmene: sto attento a mantenere un prezzo molto abbordabile, non voglio essere la persona che pensa ai suoi interessi a scapito dei promoter. Il risultato è che spesso mi richiamano. “Ma come, mi chiami ancora? Ho suonato da te appena due anni fa, sei sicuro?”: però si vede che ho lasciato un buon ricordo, che ho seminato bene. Anche se sono uno snob cagacazzo (risate). Naturalmente resta sempre la paura che tutto questo potrebbe finire domani, non mi sento arrivato a quel livello di sicurezza per cui dirsi “Tanto ormai un nome ce l’ho come producer, cadrò sempre in piedi”. Una cosa mi salva: se questa cosa della musica finirà, perché magari un giorno finirà, non avrò problemi a staccarmene. Non sono una di quelle persone ossessionate dal suo mestiere di musicista e dallo status che ne consegue, e che vuole solo parlare di musica tutto il giorno, perché solo in questo trova la sua identità e la sua realizzazione. Già adesso i miei migliori amici stanno nel settore enogastronomico, nell’abbigliamento, sono architetti, hanno strutture ricettive. A me piace stare con le persone. Se smettessi di fare il musicista magari mi butterei sull’ospitalità e l’enologia, penso di avere già una buona infarinatura di base: e andrebbe benissimo così. Una bella enoteca, con vini a prezzi popolari, e la migliore delle socialità possibili.