Giuseppe è venuto al concerto di Post Malone con un cartello. Non è l’unico tra i circa diecimila partecipanti alla prima data italiana di sempre, per quella che è di fatto la più fresca e inusuale popstar del momento, ad avere avuto quella pensata.
Ma sul cartello di Giuseppe c’è scritta una cosa ben precisa: “Can I play Stay?”. Austin l’ha notato appena salito sul palco e ha aspettato il momento giusto: “Ehi tu, la sai suonare davvero? Vuoi salire?”.
Basta un attimo e Giuseppe è lì di fianco al suo idolo che prova un paio di accordi con la chitarra acustica e poi via, si butta. “Cazzo, amico, suoni meglio di me!”. Non è la prima volta che un musicista fa una cosa del genere: lo abbiamo visto fare a Springsteen, a Dave Grohl, ai Green Day, ma ve lo sareste mai aspettato a un concerto – ehm – trap?
La risposta alla domanda la conosciamo già: cosa c’entra Post Malone con la trap a parte gli skrrt nei pezzi, i tatuaggi sulla faccia, la fissa per le auto di lusso e quella della codeina? Niente, ma anche tutto, ed è proprio la sua estrema versatilità a renderlo tanto interessante quanto inafferrabile. È il perfetto cantore di questa generazione: quella della confusione che regna sovrana e dei generi che – grazie a Dio – non esistono più. Una specie di Johnny Cash in versione millennial.
Prima di suonare ci ha accolti nel backstage del suo concerto romano, insieme alla sua colorata e stramba compagnia di giro, e ci ha permesso di accedere al suo particolarissimo mondo fatto di beerpong e musica anni ’90 sparata a tutto volume da una cassa portatile. Se il musicbiz fosse un film, Post Malone sarebbe il tipico dude da commedia adolescenziale americana. Il principale animatore di ogni festa di confraternita universitaria che si rispetti. Quello che si sfonda di birra, si ammazza di cannoni, ma alla fine finisce pure per pomiciare con la più figa della scuola. È la rivincita dei nerd, Drugo Lebowski che scrive e canta hit da quasi un miliardo di visualizzazioni su YouTube.
Un artista vero, che ha solo 23 anni e che probabilmente deve ancora farci vedere tutto quello di cui è capace. La sua refrattarietà alle interviste “normali” è nota: sedersi a un tavolino con un registratore acceso e Post Malone davanti è impossibile. Bene che ti va, ti ritrovi come minimo invischiato in una partita a Call of Duty. Se butta male, dipende dai punti di vista, finisci al poligono a sparare con fucili d’assalto modificati in armi domestiche. Noi, invece, ci siamo ritrovati a fare da spettatori di una sfida all’ultimo sangue che l’ha visto impegnato contro la Dark Polo Gang che aveva appena finito di performare sullo stesso palco.
La disciplina olimpica, l’abbiamo già detto, è quella del beer pong, una specie di pallacanestro che si gioca su un tavolino, una pallina da ping pong e dei bicchieri pieni di birra, disposti alla maniera dei birilli del bowling, in cui fare centro. Ogni volta che qualcuno fa canestro nel bicchiere, chi ha subito il punto deve eliminare il bicchiere colpito e berne l’intero contenuto. Vince chi manda a zero l’altro. Post Malone è un campione, ma tocca dire che Tony e compari si sono difesi fino all’ultimissimo bicchiere. Nel mentre una playlist di rock americanissimo – quel rock americano che dai Soul Asylum arriva ai Gin Blossoms passando per i Cake – fa da sottofondo alla tenzone, con il buon Austin che, noncurante di dover salire sul palco a momenti, se le canta tutte a piena voce, mentre ti offre una bottiglia di birra (Bud, rigorosamente) e ti racconta della giornata spesa a girare per Roma inseguendo, in macchina, la Vespa di un suo amico.
Arriva il turno dei Pantera, e anche chi scrive queste righe si è ritrovato a canticchiare Walk, tant’è che quando il fotografo ci chiama per una foto insieme mi dice: “Ehi, ti piace la mia playlist! Ti ho visto che le cantavi tutte!”. Chiede se c’è qualcun altro che ha voglia di giocare, ma ormai il tempo è tiranno e allora via, prende il body pack, indossa gli in-ear monitor, si fa un trenta secondi contati di aerosol e va a cominciare il concerto senza neanche il tempo di cambiarsi la sudatissima maglietta (una pescata a caso tra quelle del merch ufficiale, una di quelle con dietro elencate tutte le date del tour).
“Cazzo, sono proprio ubriaco!”, dice presentando il secondo brano in scaletta e a nessuno è venuto il dubbio che potesse, anche solo lontanamente, mentire. È tutta questione di attitudine, dice il saggio. E la sua è proprio quella di una rockstar.