È un momento difficilissimo per tutti: non esiste una categoria sociale più al riparo delle altre, più risparmiata delle altre. Sicuramente, però, in questo periodo essere una cantautrice con un album in uscita – un album a cui hai lavorato per mesi, in cui hai riversato tutta te stessa, e da cui potrebbe dipendere l’evoluzione della tua carriera da qui a un paio d’anni – non è una posizione professionalmente invidiabile. Francesca Michielin, però, l’ha presa con filosofia: domani pubblicherà ufficialmente il suo atteso nuovo album, Feat (Stato di natura), che la vede collaborare con un artista diverso in ogni canzone, ma non potrà promuoverlo di persona, e come il resto della popolazione è soggetta ai limiti e alle restrizioni della quarantena che vige su tutta Italia. «Sto cercando di vivere in maniera positiva questo momento», ci racconta al telefono dal suo appartamento di Milano. «Sono a casa da quasi tre settimane, lavorando da remoto come tutti. Suono, scrivo, mi preparo ai prossimi impegni, e magari è anche la volta buona che imparo a cucinare», scherza.
C’è senz’altro un briciolo di amarezza per il pessimo tempismo di questa uscita discografica, ma neanche troppo. «Nessuno poteva prevedere che sarebbe successo quello che è successo. «Senz’altro un po’ mi dispiace che la release date cada in un momento del genere, dopo che io, i musicisti che hanno lavorato all’album e tutto il mio team abbiamo investito così tanto tempo ed energie nel progetto. Però mi sarebbe dispiaciuto molto anche rimandare l’uscita. Sarebbe stato un brutto messaggio nei confronti dei miei fan: la musica non deve fermarsi proprio ora, ce n’è più che mai bisogno».
La cosa ironica è che, in un momento in cui la solitudine impera su tutto il Paese (ricordiamo che, in base ai dati Istat, in Italia circa un nucleo familiare su due è composto da una sola persona, e quindi dietro alla metà delle nostre porte c’è un essere umano che sta affrontando questo mese di #IoRestoACasa da solo/a), Feat (Stato di natura) esprime esattamente il concetto opposto. «Il messaggio è che la diversità è ricchezza, che l’unione fa la forza», racconta Francesca. «Il disco è una celebrazione della collettività. A prescindere dal coronavirus, viviamo in un periodo storico di grande egocentrismo, in cui sembra che vinca chi urla più forte, chi prevarica gli altri, chi mette alla gogna il prossimo. E non va bene».
Anche il processo creativo alla base del progetto è stato diverso dal solito, e all’insegna del lavoro corale. «Prima, quando scrivevo canzoni dovevo essere da sola, avevo bisogno di isolarmi», spiega. «Poi, però, facevo sempre ascoltare le prime bozze alle persone a me care. Ad esempio a Vasco Brondi, che è un artista puro e mi dà sempre un riscontro importante, o a mia mamma, che ascolta molto pop e quindi mi dà la sua opinione dal punto di vista di un’ascoltatrice di musica leggera».
Il precedente album, 2640, era molto più ermetico e personale, incentrato soprattutto sulla quotidianità. «Con Feat volevo raccontare qualcosa di più universale, profondo e politico. È un periodo in cui molte canzoni parlano di medicine, cellulari e oggetti, ma anche un oggetto deve raccontare una sottotrama, per poter emozionare davvero l’ascoltatore». Il singolo Monolocale in collaborazione con Fabri Fibra, ad esempio, è una sorta di esercizio di stile: «Mi sono messa nei panni del mio ex ragazzo del liceo, che ai tempi ha vissuto in prima persona la mia crescita professionale, non sempre capendola del tutto, perché eravamo davvero giovanissimi e vedeva che la mia vita si trasformava sotto ai suoi occhi. Non so cosa abbia pensato quando lo ha ascoltato, ma magari glielo chiederò, prima o poi».
Gli artisti coinvolti nel progetto sono diversissimi tra di loro, da Max Gazzé e Giorgio Poi a Charlie Charles e a rapper come Shiva, Gemitaiz e Fred De Palma. Alcuni erano già amici di Francesca, con altri desiderava collaborare da tempo, come ad esempio i Coma_Cose. «Hanno rappresentato la colonna sonora del mio trasferimento a Milano», racconta. «All’inizio in questa città mi sentivo molto spaesata, e la loro musica mi faceva sentire a casa: vivevo sui Navigli, ascoltare Inverno ticinese mi faceva sentire meno sola». E a proposito di solitudine, in questo periodo di clausura casalinga ha selezionato una serie di dischi ad hoc per non piombare nella desolazione: «Ascolto molto i Vampire Weekend, che non hanno quasi mai accordi minori o diminuiti e quindi suonano sempre super positivi», ride. «Graceland di Paul Simon mi dà grande conforto, e anche le Haim, che stanno per uscire con un album nuovo. Insomma, metto in play soprattutto cose che mi tirano su di morale: per quanto adori Angel Olsen, non mi sembra il momento giusto per ascoltarla».
L’ottimismo è la chiave di lettura che ha deciso di adottare in assoluto, anche rispetto a uno dei temi principali del suo album, la contrapposizione tra gli spazi aperti e incolti e il paesaggio urbano. «La natura si stia un po’ riprendendo la città, in queste settimane: c’è meno inquinamento, più silenzio», commenta. «Sicuramente è strano vedere Milano – dalla finestra, domattina uscirò per la prima volta per fare la spesa – così vuota. Ma c’è qualcosa di buono in tutto questo: le differenze geografiche e sociali sono azzerate, perché siamo tutti esposti a questa situazione e tutti dobbiamo collaborare, indipendentemente da chi siamo e dove ci troviamo».
Insomma, a quanto pare Francesca Michielin è della scuola di pensiero per cui le crisi sono anche delle opportunità. Anche perché non ci sono molte alternative, ammette candidamente. «Questa è una situazione davvero unica nel suo genere, e l’unica cosa che posso fare è essere stoica: disperarsi è inutile. Un album collettivo come Feat magari aiuterà le persone a sentirsi più vicine, anche quando fisicamente sono lontane». Nel frattempo, lei e il suo team stanno già lavorando a delle alternative per continuare a mantenere un filo diretto con i fan: «Sto cercando di creare delle modalità d’incontro alternative, come i due set speciali che dovevano essere a tutti gli effetti delle esibizioni dal vivo e invece sono stati trasmessi in streaming», dice. E là dove molti suoi colleghi si preoccupano dei mancati introiti di concerti e instore, che di questi tempi costituiscono una percentuale consistente delle economie di ogni musicista, lei cerca di relativizzare. «È un momento complesso per tutti, non solo per noi musicisti. È una situazione talmente inedita che è difficile immaginare come si evolverà: inutile preoccuparsi troppo, per ora». Forse dovremmo imparare tutti da lei.