La storia del punk, così com’è stata raccontata, è quasi tutta al maschile. Quali sono le band più citate quando si parla di questo genere musicale? Sex Pistols, Clash, Stooges, Ramones. Tutti uomini. Eppure le donne che hanno dato il loro contributo all’esplosione e all’evoluzione del punk sono tante: le ritrae Vivien Goldman nel suo libro La vendetta delle punk, uscito nella versione originale due anni fa, dal 23 novembre disponibile in italiano per Vololibero Edizioni.
Classe 1952, la giornalista e scrittrice londinese, da tempo di stanza a New York, si è data un obiettivo ambizioso: ripercorrere la storia del punk attraverso le gesta delle sue eroine. Il volume – 280 pagine in cui decine di nomi di artiste punk si rincorrono fino a comporre un arazzo coloratissimo, stratificato, vitale – è il suo “womanifesto”, così lo definisce l’autrice in ottica femminista, ma la vendetta evocata nel titolo non è niente di aggressivo o rabbioso, né ha nulla della rivalsa meschina: si tratta, semmai, di un atto riparatore volto a colmare delle lacune e a portare in primo piano le “sheroes” e il potere trasformativo che il punk ha avuto su di loro.
«Io stessa sono stata liberata dal punk!», esclama Goldman in videochiamata da New York, davanti a una tazza di tè bollente. «Ho avuto la fortuna di vivere un mondo molto, molto diverso da quello di oggi. Negli anni ’70, quando sono uscita dal college, nel Regno Unito c’erano svariate riviste musicali che uscivano in edicola ogni settimana. E vendevano, oltre a pagare bene i giornalisti. C’era un vero e proprio business per chi amava la musica e desiderava raccontarla. Io mi ero laureata da poco alla Warwich University quando mi imbattei in un annuncio su un giornale free press di quelli che si distribuiscono in metropolitana: fu così che iniziai a scrivere per Cassettes and Cartridges. Era una testata che si occupava di new tech, ma è stato il primo passo per inserirmi nel settore dell’editoria».
Di scrivere non ha più smesso, anzi, successivamente Goldman si è costruita una carriera ricca di soddisfazioni realizzando il suo sogno: oltre a lavorare come PR per la Atlantic Records e la Island, ha collaborato da freelance o come redattrice con magazine musicali quali Sounds, NME, Melody Maker, è diventata una firma approdando anche sul Guardian e sul New York Times, ha pubblicato libri, prodotto documentari e programmi tv, diretto video. E in tutto ciò è stata talmente travolta dalla passione per la musica che si è messa a farla in prima persona, prima con i Flying Lizards, poi con il duo Chantage e con brani suoi, tra cui Launderette e Private Armies, realizzati nel 1981 con la complicità di John Lydon e Keith Levene (Public Image Ltd.), Adrian Sherwood e Robert Wyatt. Non proprio gli ultimi della classe.
«Sono stata fortunata, a quei tempi la musica era la forma d’arte che più di ogni altra univa i giovani. Non c’erano i social e tutte le distrazioni che si hanno adesso, era la musica il nostro linguaggio e io ne andavo matta. Amavo anche il cinema, ma mi sembrava più allettante la discografia e tutto ciò che vi ruotava attorno, e ora, dopo tutti questi anni, mi rendo conto di quanto sia stato incredibile che grazie al mio mestiere abbia potuto conoscere di persona artisti geniali come Bob Marley, Fela Kuti, Ornette Coleman e sì, anche fare parte della scena punk. La differenza rispetto a oggi è che quei musicisti erano visti come dei veri e propri eroi. O degli antieroi, se vogliamo. E non solo per la loro arte, ma anche per il loro pensiero che si faceva vita reale: ora quante figure ci sono con quel tipo di aura mitica?».
La domanda resta in sospeso, di sicuro con La vendetta delle punk Goldman quell’aura l’ha voluta conferire a tante cantanti e musiciste che nel punk hanno individuato uno strumento di emancipazione intrinsecamente democratico in quanto legato a un’etica DIY: nel libro Kate Korris delle Mo-dettes rammenta di quando Joe Strummer le mostrò un paio di accordi di chitarra per poi dirle «con questi potrai fare qualunque cosa, devi solo provarci».
«E aveva ragione, bisognava avere coraggio e buttarsi», osserva Goldman. «Io stavo a Londra, i Clash e le Slits erano praticamente miei vicini di casa ed è per questo che sono diventati amici. Si respirava un’atmosfera talmente liberatoria che alla fine mi misi a fare musica pure io. E non l’avevo mai nemmeno immaginato prima: non era certo facile imbattersi in donne che suonavano… Ma è così che è andata e ci tengo a dirlo perché se il libro La vendetta delle punk esiste è perché le mie incisioni sono state ripubblicate nel 2016, perciò non riesco a separare le pagine che ho scritto dai brani che ho registrato, compresi quelli inclusi nel mio album uscito pochi mesi fa, Next is Now: scrivere di quanto l’industria musicale sia stata, nei decenni, sprezzante nei confronti delle artiste donne mi ha spinto nuovamente a tirare fuori l’artista che c’è in me».
L’intrecciarsi di dimensione professionale e vita vissuta ha nutrito anche la stesura della sua “storia della musica femminista da Poly Styrene alle Pussy Riot”, come recita il sottotitolo di La vendetta delle punk: con una scrittura vivace e coinvolgente, Goldman mescola interviste e narrazione storica alle sue esperienze personali da insider e a una serie di playlist, evitando la strada del saggio nozionistico così come l’esposizione cronologica e costruendo, piuttosto, un interessante mosaico di voci anche molto lontane l’una dall’altra in quanto provenienti da contesti culturali differenti. È l’approccio multiculturale, inclusivo e intersezionale abbracciato da qualche anno dalle inglesi Big Joanie, approccio che deve molto alla succitata Styrene, leader degli X-Ray Spex, nonché prima punk di etnia mista. “Le donne del punk reclamano a gran voce il diritto di avere uno spazio tutto per sé e questo si deve tradurre nella possibilità di agire concretamente”, si legge a pagina 71, ma non solo le donne britanniche e americane: per rendere la sua indagine il più possibile esaustiva, Goldman ha incluso nel suo radar artiste punk di diverse generazioni e provenienti da molte parti del mondo, dal Giappone come dall’India, dalla Colombia come dall’Indonesia, dalla Repubblica Ceca come dalla Nigeria, dalla Germania come dalla Russia.
«Sono andata a cercarle, ci ho parlato, le ho intervistate, l’intento era di illuminare le loro esistenze per elevarle a modelli cui le giovani di oggi possano ispirarsi. È stato come riempire un vuoto: tutti conoscono i Clash, molti meno sanno chi sono le Raincoats di Ana da Silva e Gina Birch». E continua: «Come affermo nel libro, uno dei diktat più crudeli dell’industria discografica giovanilistica maschile voleva che il periodo di validità di un’artista donna fosse ancora più corto della lunghezza delle minigonne che le ragazzine avrebbero indossato nella stagione successiva. È roba del passato? Non del tutto: oggi una teenager può sognare di diventare una pittrice o una batterista, mentre fino a non così tanto tempo fa si dava per scontato che quel sogno non fosse adatto a una donna punto e basta, però certe dinamiche perdurano e il tema della rappresentanza femminile nella musica è ancora centrale. Di mio ho lottato per valorizzarla, quella rappresentanza, a dispetto dei gatekeeper tradizionali, che erano – e perlopiù sono – maschi».
«Non dimenticherò mai alcune riunioni di redazione in cui se spiegavo di voler scrivere di questa o quell’altra musicista gli uomini attorno a me reagivano dicendomi cose tipo “le donne non s’interessano di musica, perché dovremmo parlare di loro?”. Io rispondevo “look at me, what am I, chopped liver?”, che è un’espressione ebraica che si usa quando ci si sente socialmente sminuiti. Ed è ciò che dico tuttora ai colleghi uomini che magari pensano che il mio sia un libro sulle donne e quindi per le donne: conoscere la storia del punk attraverso le sue eroine e non solo attraverso i suoi eroi è l’unico modo per avere un quadro completo relativo alla nascita e allo sviluppo di questo genere musicale. Lo stesso discorso si può fare per la storia di qualsiasi tipo di musica e di espressione artistica: è giunto il momento di ribaltare la narrazione, anzi, le narrazioni, a favore di uno sguardo egualitario. E non si tratta di un’operazione separatista: la parità di genere è un traguardo comune, ha a che fare con i diritti che tutti, uomini e donne, meritiamo e nonostante i grossi passi avanti non l’abbiamo ancora raggiunta. Ci sono più donne in ogni settore professionale, è vero, ma chi detiene il potere?».
Ecco, il potere: che cos’è quest’ultimo per un’artista punk? I capitoli “Denaro” e “Protesta” affrontano in parte l’argomento. Da un lato, mostrando l’arte di arrangiarsi e il rifiuto del consumismo sfrenato e omologante da parte di un mucchio di donne che nel punk hanno trovato un mezzo per realizzarsi e costruirsi la propria identità su un terreno lontano da ogni stereotipo di genere. Dall’altro, descrivendo la forza irruente di una musica che tutt’oggi – vedi il caso Pussy Riot – porta in sé un sentimento di ribellione contro lo status quo di cui è innegabile la natura politica.
«A volte sui giornali si trovano articoli dedicati alle canzoni d’amore punk e, per carità, non è che non esistano, ma la verità è che il punk è innanzitutto una musica di protesta, una musica provocatoria e antagonista che ha lo scopo di unire le persone per stimolare un cambiamento nella società. Poi, certo, il cambiamento può essere interpretato in tanti modi, ricordo bene quando negli anni ’70 il National Front provò a lanciare dei gruppi punk fascisti, però posso dire una cosa? Le band di quel tipo non sono mai durate».
Scrivendo il libro, però, lei che nel ’78, da figlia di rifugiati ebrei tedeschi nella Londra del secondo dopoguerra, aveva «provato grande conforto nella Rock Against Racism March, che aveva per la prima volta unito sul palco musicisti bianchi e di colore», è rimasta colpita da una storia: «Quella della cinese Gia Wang, unica artista punk che abbia mai conosciuto schierata con Trump e che si riconosce in posizioni antiabortiste: le sue argomentazioni mi hanno scioccata, date le sue scelte artistiche, e in cerca di una spiegazione le ho chiesto se il fatto di essere cresciuta in un Paese dove tra il 1979 e il 2015 l’aborto è stato utilizzato come strumento coercitivo per il controllo delle nascite potesse averla condizionata. Si è arrabbiata tantissimo e ha sollevato obiezioni di tipo spirituale-religioso. Ma la sua è una voce isolata, nel punk le donne sono al 99,99% per la libertà di scelta e per l’autodeterminazione nella gestione del proprio corpo, principi non certo sostenuti dai regimi autoritari. Perciò in questi ultimi il punk diviene spesso un mezzo per mettere alla prova i governi: sono una donna, voglio la mia libertà, suono la musica che mi pare dicendo tutto quello che mi pare, vediamo cosa fai. È una sfida. Serve audacia per fare una cosa del genere, eppure c’è chi lo ha fatto e chi lo fa ancora, nella consapevolezza che può finire bene, ma anche male».
«Come racconto nel libro, nel 2013, nella regione indiana del Kashmir, le Pragaash, punk band il cui nome significa “luce”, sono state addirittura colpite da fatwa e hanno dovuto rinunciare ai loro sogni. Mentre a Mumbai le Vinyl Records hanno sviluppato una loro forma di pop-punk/new wave dal sound ottimista, ma non priva di messaggi anti-misogini, che in anni recenti le ha portate a conquistare un crescente seguito, tant’è che Red Bull ha sponsorizzato alcuni loro concerti. Le storie possono essere molto diverse l’una dall’altra, ma ciò che è emerso dalla mia ricerca è che il punk è in primis un urlo contro le ingiustizie sociali, i privilegi di classe e le discriminazioni che è stato dirompente in passato e che continua a riverberare a ogni latitudine del pianeta oggi».
Parla così “the punk professor” Vivien Goldman, professoressa al Clive Davis Institute of Recorded Music della New York University, esperta di punk e post punk, oltre che di reggae, dub, afrobeat, da sempre attenta alla contaminazione tra generi. Anche da artista: non è un caso che il suo nome compaia tra i crediti di un classico del trip hop come Sly dei Massive Attack, ma soprattutto la sua produzione musicale è un miscuglio degli stili sopra citati. Il che vale anche per le tracce del nuovo Next Is Now, dopo vari singoli, un EP e la raccolta Resolutionary, il suo primo album in studio prodotto da Martin Glover alias Youth (Killing Joke, The Orb, Paul McCartney). «Ci conosciamo sin da ragazzini, stavamo entrambi a Ladbroke Grove/Notting Hill, io da brava borghese pagavo l’affitto, lui viveva in uno squat, in quel quartiere c’era tutta la scena punky-reggae, si tenevano sound system in continuazione. Youth era sempre molto brillante, amava mangiare e io ero una brava cuoca, per cui…».
Scoppia a ridere, ammette che i ricordi la commuovono, parlare di reggae la porta a un’altra frequentazione storica: «All’inizio della mia carriera ho lavorato come PR e mi sono ritrovata nel team che seguiva Bob Marley & The Wailers e… Bob è diventato una sorta di mentore per me, lavorare con lui è stato favoloso, mi ha trasmesso valori in cui credo ancora adesso. Era un uomo sincero e ha vissuto per la sua musica, i soldi gli servivano come a tutti, ma per lui suonare, scrivere canzoni e condividerle con altri era una missione, e l’ha portata avanti fino alla morte. Ogni tanto parlavamo di punk e di reggae, ricordo che la prima volta che sentii la sua Punky Reggae Party (del 1977, nda) mi venne da sorridere perché vi riconoscevo molte delle nostre conversazioni: lui che mi chiedeva chi fossero tutte quelle persone con quelle buffe spille da balia ovunque e io che gli rispondevo che erano diseredati come lui, giovani irrequieti, disprezzati dalla società, ma desiderosi di fare sentire la loro voce e di smuovere le coscienze. Fu così che Marley scrisse quel pezzo. E sai una cosa? Nella versione originale che all’epoca avevo avuto modo di sentire in studio citava le Slits! Poi le ha tolte dal testo, forse erano troppo per lui: benché non concordi con chi ritiene che Bob fosse sessista, perché l’ho conosciuto e so che tipo di ragazzo fosse, aveva i suoi limiti. Ma erano anche altri tempi, altri contesti, e ciò che mi ha insegnato lo porterò sempre con me. “La lotta continua”, mi diceva sempre, e aveva ragione: non dobbiamo smettere di combattere per un mondo migliore».
Il tempo sta per finire, Vivien ci confida che Revenge of the She-punks potrebbe diventare uno show tv in più puntate. Si accenna anche al suo vecchio amico John Lydon («ha dichiarato di sostenere Trump, deludendo molti…») e a Patti Smith, l’icona punk che più di tutte è riuscita ad assicurarsi un’invidiabile longevità dividendosi tra poesia, libri, dischi e concerti che sono inni di pace e speranza. «Comunica bene persino su Instagram, ovunque vada è accolta come una dea», osserva Goldman. «Perché è, sì, un’icona punk, ma non dimentichiamo che ha iniziato prima dell’esplosione di questo genere collaborando con gente come William Burroughs e Allen Ginsberg, per poi portare la filosofia bohemian-beatnik dentro al punk».
Rimane un’ultima curiosità: che cosa pensa una femminista punk come la giornalista britannica di un’icona del femminismo odierno come Beyoncé? «Il femminismo per me è sempre stato legato a un tipo di musica per outsider e il punk appartiene a questa categoria, per cui è stato strano per me vedere una popstar come Beyoncé assumere quel ruolo. Ma apprezzo il modo in cui ha costruito il suo immaginario e da professoressa universitaria, avendo il privilegio di poter osservare le nuove generazioni da vicino, ho visto con i miei occhi l’impatto positivo che ha avuto su molte ragazze negli ultimi anni: si tratta sempre di avere il maggior numero possibile di modelli femminili e non solo maschili. Hai visto, per esempio, cosa sta combinando Willow, la figlia di Will Smith e Jada Pinkett? Fa la cantante e si rivolge al suo pubblico con un linguaggio e un’estetica punk, ed è interessante perché ovviamente è una ragazza privilegiata. Quel che voglio dire è che l’importante è che ogni donna sia libera di essere ciò che sogna di essere, dopodiché per le anime ribelli e anticonformiste il punk resta la via più naturale. C’è sempre qualcuno che vorrebbe destituirlo, ma la verità è che lo spirito libero e l’atteggiamento DIY che questo genere porta con sé non hanno mai smesso di circolare. Solo settimana scorsa una fotografa mi faceva notare quanto punk ci sia a New York in questo momento: se ami la musica e hai qualcosa da dire, ma non sai come farti ascoltare, trovi uno spazio per le prove, contatti qualche locale per i concerti, crei tu stesso una comunità. Non serve chissà quale struttura ed è questo che rende l’energia travolgente del punk potenzialmente eterna. Nemmeno la cultura capitalistica oggi dominante può metterla a tacere: è una specie di istinto primigenio».