Dall’oratorio di San Lorenzo di Parabiago ai palchi divisi con Sex Pistols e Joe Strummer, la strada è lunga, ma i Punkreas l’hanno percorsa tutta, arrivando a celebrare oltre 30 anni di attività. Hanno appena pubblicato l’album acustico Funny Goes Acoustic e lo stanno promuovendo con uno spettacolo che mixa musica e racconto autobiografico. Era d’uopo una chiacchierata con Cippa (voce) e Noyse (chitarra), due della triade – che comprende anche Paletta (basso) – del nucleo storico. In ballo, fra l’altro, c’è anche qualcosa a livello editoriale per raccontare la lunga cavalcata della band, iniziata nel 1989, ma di questo parleremo quando sarà il momento.
Come nasce l’idea dei Punkreas nel 1989?
Cippa: Io prima dei Punkreas suonavo il tamburello nella banda del paese: questo era il mio background (ride). In realtà abbiamo cominciato a suonare punk perché ci sembrava la cosa più semplice da fare. Un amico ci fece sentire Never Mind the Bollocks dei Pistols e per me e il Paletta fu la svolta. Avevamo 18-19 anni, ascoltavamo anche tanto metal, e in quel momento ci dicemmo: «Cazzo, si può fare musica anche senza saper suonare come dei virtuosi». Ci innamorammo del punk proprio per questo: quattro accordi ci danova la possibilità di esprimerci.
Noyse: Quando abbiamo iniziato noi, il punk non era in auge in Italia e credo che sia un po’ quello che ci caratterizza, oltre che essere il motivo per cui noi siamo ancora qua, dopo tutto questo tempo. Abbiamo forse rappresentato l’anello di congiunzione fra quella che è stata l’ondata hardcore punk italiana degli anni ’80 e quello che nei ’90 e nei 2000 è stato il grande successo del punk melodico californiano: NOFX, Green Day e tutti gli altri.
Ma quindi i vostri ascolti formativi quali sono stati?
Cippa: Paletta ed io arrivavamo dal metal, anche perché i ragazzi più grandi ascoltavano quello e noi di riflesso lo facevamo. Poi, aperta la diga con Never Mind The Bollocks, abbiamo iniziato a informarci. Il nostro vecchio batterista, il Mastino, ci procurò una cassetta, una TDK da 90 che girava in zona – ce l’avevano quasi tutti – con dentro Rough, Peggio Punk, Nabat e molti altri gruppi italiani anni ’80. Da lì abbiamo capito che si poteva fare il punk in italiano e funzionava.
Noyse: Anche io ho iniziato con un po’ di metal, ma in realtà ero più orientato sull’hard rock. E sul versante italiano ascoltavo molto i CCCP e gli Skiantos: adoravo il filone demenziale, andavo a vedere i primi Elio e le Storie Tese e secondo me un po’ di queste cose sono presenti nella musica dei Punkreas, soprattutto a livello di ironia.
Dove provavate agli inizi, in quel di San Lorenzo di Parabiago? In cantina, in cameretta…
Noyse: Io sono entrato nei Punkreas un anno dopo la nascita della band e rimasi sorpreso perché Cippa e Paletta mi dissero: «Ci vediamo in sala prove»… solo che la sala prove era l’oratorio di San Lorenzo di Parabiago.
Cippa: Sì, l’oratorio fu la nostra prima sala prove, visto che era l’unico posto attrezzato con una batteria e degli amplificatori. Perché non è che noi ci fossimo comprati subito gli ampli. Iniziammo in oratorio in quanto lo zio di Paletta era il chitarrista storico dei New Poker, l’orchestra del paese che faceva le prove lì, e gli chiedemmo se potevamo andare qualche volta anche noi a suonare. All’epoca era arrivato un parroco nuovo, uno moderno, abituato in Bovisa ad avere a che fare con i tossici per strada e a confrontarsi con situazioni ben pesanti… lui come segnalibro, nel breviario, teneva un adesivo dei Punkreas! Però, appena lo trasferirono, fummo cacciati dall’oratorio… così ci trasferimmo a provare nel garage di Paletta.
E in paese come vi vedevano?
Noyse: Cippa e Paletta erano due giovani bricconcelli, ma erano sostanzialmente benvoluti da tutti, tanto che gli anziani dicevano, in dialetto: «Bevono i Campari, fumano dai tubi, ma sono dei bravi ragazzi» (ride). Ci volevano bene tutti – tranne uno, il vicino di Paletta che una volta ha chiamato i carabinieri perché suonavamo in garage a tutto volume. E da quell’episodio è nata una canzone storica, ma non ti dirò quale.
Il vostro debutto su album – così come i due dischi seguenti – uscì su TVOR, etichetta storica del punk e dell’hardcore italiano gestita da Stiv “Rottame”. Come entraste in contatto con lui?
Cippa: Come tutti, frequentavamo il suo negozio, Zabriskie Point (luogo fondamentale per la scena italiana degli ’80 e ’90, era in una traversa di via Torino, a Milano, nda), che era come la Mecca per noi. Avevamo fatto un demo inciso in uno studio della zona dove andavano a registrare i canti di montagna e cose del genere, ma quando ci trovammo i pezzi pronti per un album decidemmo di andare al Jungle Sound, lo studio del giro dei Ritmo Tribale dove andavano tutti i musicisti e rockettari fighi di Milano, perché volevamo un suono finalmente più professionale. Non avevamo un’etichetta e, finite le registrazioni, portammo una cassetta da Zabriskie per proporre il disco a Stiv e alla sua TVOR. Gli piacque moltissimo e volle seguire di persona la realizzazione della copertina di quello che poi è diventato United Rumors of Punkreas: curò tutta la grafica usando un lavoro di Oliviero Toscani e modificandolo – dovremmo avere ancora le bozze originali di Stiv, da qualche parte…
Noyse: Quando il disco uscì, in negozio mise un cartello per pubblicizzarlo che recitava: “Ska punk bomba tra Bad Religion e Operation Ivy”.
Cippa: Questa cosa ci gasò tantissimo e ci aiutò molto anche perché Stiv all’epoca, dall’alto del suo trono, era uno di quelli che decidevano cosa era figo e cosa non lo era… per cui anche i promoter di concerti si fidavano del suo giudizio: era un po’ l’ago della bilancia.
Dopo la liaison con TVOR, nel ’97 avete fondato una vostra etichetta: la Atomo Dischi.
Noyse: Sì, poi ha cambiato nome e adesso è Canapa. Abbiamo fatto questo passo perché siamo sempre stati fan dell’autoproduzione e del farsi le cose da soli. Però non è stato un passaggio facilissimo, per noi, costituire una società e fondare un’etichetta: siamo tutti figli di operai e di lavoratori dipendenti, per cui non avevamo, nelle nostre storie e culture famigliari, esempi di qualcuno che si fosse cimentato con l’impresa e l’essere imprenditore. È stato un gesto di fiducia molto forte: Cippa e Paletta peraltro facevano gli operai all’epoca e si sono licenziati. Insieme abbiamo deciso di puntare tutto su ciò che facevamo. E ci abbiamo sempre tenuto a fare le cose da noi perché – come tanti altri – eravamo nati per reagire a ciò che ci proponeva il mainstream, a quello che le case discografiche imponevano e pretendevano. Per cui abbiamo deciso di prendere questa strada e penso che noi, insieme a molti altri, a un certo punto – negli anni ’90 – avessimo vinto: per qualche anno l’alternativa è stata più forte del mainstream. Riempivamo i locali…
Siete arrivati a vivere suonando?
Noyse: Sì, lo stiamo facendo. Da quando abbiamo fondato la nostra società abbiamo iniziato a vivere della nostra musica. Pure nel nostro essere indipendenti, è un’attività a tutti gli effetti. Certo, a fine anni ’90 e primi 2000 era un po’ più semplice perché – come si diceva prima – era il periodo in cui “avevamo vinto noi”. Però il mainstream è bravo, ha i mezzi e i fondi per fotterti: così si è infilato dentro questo “movimento” e se l’è un po’ mangiato.
Anche voi siete arrivati però ad avere dei contatti col mondo major, se non erro dal 2000 con Pelle…
Noyse: In realtà ce li abbiamo adesso, ma all’epoca no. Noi per Pelle avevamo semplicemente fatto un accordo discografico con un’etichetta di Bergamo che si chiama Discopiù, capitanata da quel personaggio incredibile che è Lino Dentico, che si era appassionato tantissimo alla nostra musica. Pensa che, l’anno in cui noi firmammo con lui, aveva appena messo sotto contratto i Prodigy ed era divenuto il distributore italiano dei loro dischi… in quel momento i Prodigy erano dei signori nessuno, ma all’improvviso esplosero, per cui questa piccola etichetta bergamasca che fino ad allora aveva fatto tutt’altro si è trovata in mano un budget importante, decidendo di investire sui Punkreas. La produzione artistica di Pelle la curò Carlo Rossi – che oggi non c’è più – che si era occupato di tanti grossi artisti italiani come Jovanotti, Statuto, Negrita e Bluebeaters. Dentico, a sua volta, faceva distribuire i dischi della Discopiù da Universal, ma noi non avevamo nulla a che fare con questo suo accordo.
E nessuno vi chiese conto di questa situazione?
Noyse: Sì, certo. Sul disco c’era il marchio Universal e qualcuno si lamentò… del resto era un momento in cui alternative e mainstream si guardavano piuttosto in cagnesco, per usare un eufemismo.
Cippa: A dire il vero i nostri fan più duri e puri, che sono un po’ bacchettoni, ci ruppero le scatole anche perché avevamo fatto un videoclip. Era il video di Sosta (un brano di Pelle, nda) e la reazione era stata: «Non si può fare un video, non si deve! Ma come siete messi?». Poi, però, hanno iniziato a vedere che li facevano anche i Bad Religion e tanti altri e allora dopo il video si poteva fare (ride).
Noyse: Però ci stava, noi abbiamo sempre guardato a queste critiche con affetto. Sono comprensibili. Nel momento in cui tu rappresenti qualcosa per qualcuno, subentrano l’affezione e l’identificazione ed è naturale che, quando ti vede entrare in contatto con contesti magari a lui non affini, subentri un rapporto conflittuale all’inizio… è una cosa anche bella. All’inizio sentendo Pelle in tanti ci dissero: «Ma cos’è ‘sta roba?!». Poi, a distanza di anni, certi pezzi del disco sono diventati dei classici del nostro repertorio, perché Pelle è stato la nostra seconda grande svolta – la prima fu Paranoia e potere.
Ecco torniamo un attimo al ’95 e a Paranoia e potere, il disco che vi ha dato la prima grossa spinta. Cosa ricordate di quel periodo?
Noyse: Io in particolare mi ricordo gli zainetti pieni di dischi che ci portavamo sulle spalle facendo il giro dei negozi di dischi per portare l’album: Mariposa a Milano, La Casa del Disco a Varese… lo distribuivamo noi e spesso capitava che ci chiamassero i negozi chiedendocene delle copie. Era una cosa inaspettata, nessuno l’aveva previsto. Una bella spinta la diede il programma che facevo su Radio Lupo Solitario: io volevo mettere i Punkreas in scaletta, ma mi pareva brutto inserirli nella programmazione… per cui decisi di usare La canzone del bosco come sigla. Piano piano gli ascoltatori iniziarono a richiedere quella canzone in altri orari, telefonando in radio, tanto che il capo una volta venne da me e mi disse: «La pianti di dire ai tuoi amici di telefonare per chiedere il vostro pezzo?». Al che gli risposi: «Guarda che non c’entro niente, è gente che chiama di propria iniziativa». E poi lui ci organizzò una data al Rainbow, dove la gente sfasciò tutto: fu un macello pazzesco perché nessuno si aspettava una simile affluenza. Si presentò due o tre volte tanto la gente che poteva entrare nel locale, ma nessuno voleva restare fuori… alcuni – pare fomentati da Cippa, secondo la leggenda – presero i carrelli del supermercato che c’era li vicino e, mettendosi dentro, li usarono come arieti per sfondare le uscite di sicurezza.
Da Paranoia e potere in poi iniziate a girare tantissimo e ad acquisire un profilo sempre più elevato, oltre a dividere il palco con nomi sempre più grossi e importanti. Avete qualche aneddoto legato a una band con cui avete suonato?
Noyse: Molti aneddoti del genere li raccontiamo nello spettacolo che stiamo portando in giro adesso e non vorremmo spoilerare troppo… Però dai, ce n’è uno divertente su Johnny Rotten. Nel 2008 suonammo al Traffic Festival con i Sex Pistols riuniti: io ero nel backstage, stavo cercando qualcosa da bere e non trovavo il classico spazio con il bar e il catering. A un certo punto vedo un tendone chiuso e lo apro, credendo di avere trovato il bar… invece mi trovo di fronte Johnny Rotten, piegato in avanti su un tavolo, con i calzoni abbassati, chiappe al vento, e una suora che gli fa una puntura sul sedere. Aveva mal di schiena e l’organizzazione gli aveva mandato una suora per l’iniezione (ride). Un’altra situazione bizzarra fu quando suonammo con Joe Strummer all’Independent Days Festival: con lui eravamo diventati amici e ci aveva chiesto di salire sul palco a vedere il suo concerto da vicino. Solo che la security non voleva farci passare: ci bloccarono, ma insieme a noi fermarono anche Joe Strummer, non riconoscendolo, gli impedivano di andare sul palco a fare il suo concerto. Lui continuava a urlare: «It’s my show, it’s my show!» e loro niente, non lo facevano passare. Poi arrivò Rizzotto, l’organizzatore, con le mani nei capelli e Strummer a quel punto disse: «Se loro non salgono sul palco con me, io non suono». Ci lasciarono andare e lui ci dedicò anche un paio di canzoni. E il buttafuori che aveva bloccato Strummer senza riconoscerlo fu probabilmente mandato a pulire i gabinetti al volo.
Passiamo a un argomento più mainstream: non posso esimermi dal chiedervi della vostra collaborazion per il suo pezzo Santa Madonna con Fedez. Come vi siete incrociati?
Noyse: Allora è andata così: all’epoca ci dava una mano un manager che si chiamava Claudio Ungaro, che aveva lavorato con Fedez. Lui allora non era ancora così noto e famoso e un giorno nell’ufficio di Ungaro vide un nostro poster e gli disse: «Io voglio assolutamente fare qualcosa con loro perché mi piacciono un casino e sono un loro fan!». Ungaro ci chiamò per dirci di questa cosa e noi, che non conoscevamo Fedez, gli rispondemmo: «Va bene, digli di venire in saletta da noi così ne parliamo». Fedez si presentò in sala prove: un bravissimo ragazzo, portò delle birre… ci risultò subito simpatico. Ci disse che voleva collaborare con noi e ci fece ascoltare qualche suo brano già pronto di quelli che sarebbero poi finiti nell’album Sig. Brainwash – L’arte di accontentare del 2013 che per lui fu una svolta. Però in quei pezzi lì non avevamo idea di come inserirci, perché erano già molto strutturati. Così gli dicemmo che ci avremmo pensato su e se ci fosse venuta un’idea interessante ci saremmo fatti vivi… e alla fine è successo. Il punto di partenza fu la misoginia del mondo del rap di allora – e anche di oggi – per cui la donna era vista come un oggetto: una cosa che a noi non piace per nulla ed è decisamente sessista. Così nacque il pezzo e se lo ascolti ti rendi anche conto del fatto che non è stata un’operazione commerciale, perché di sicuro non è un pezzo radiofonico per sound e contenuti.
In 32 anni avete avuto due soli cambi di formazione: è una specie di record. Come spiegate questa cosa?
Noyse: Credo che funzioni come nelle famiglie o nei rapporti di coppia… la cosa fondamentale è imparare a gestire i difetti dell’altro. In tanti anni abbiamo capito che ognuno ha delle caratteristiche positive, ma soprattutto sappiamo affrontare quelle negative. E poi c’è un profondo rispetto reciproco. Sappiamo di essere interdipendenti l’uno dall’altro… Cippa, Paletta ed io siamo il nucleo fondamentale e ognuno di noi è essenziale all’esistenza della band, ognuno per un motivo diverso.
Cippa: Sì, questo conta moltissimo. Soprattutto il rispetto fra di noi e nei confronti di ciò che facciamo, oltre che di quello che ci ha sempre dato… perché ci ha dato moltissimo. Sia come musicisti che come persone, in 32 anni abbiamo raccolto tantissimo dai Punkreas.
Avete sperimentato non poco, a livello di sonorità, nei vostri tre decenni di carriera: come sono state accolte le incursioni in altri generi, dai vostri fan?
Noyse: Come dicevamo prima, all’inizio molti protestavano, ma alla fine c’è da dire una cosa: qualsiasi cosa noi suoniamo, diventa automaticamente Punkreas, riconoscibile come roba nostra… e alla fine lo si sente molto anche nel nostro ultimo disco acustico: siamo sempre i Punkreas al 100%, indipendentemente dall’acustico o l’elettrico.
Cippa: Sì, potremmo anche fare La mazurka di periferia, ma alla fine ci troveremmo con un pezzo dei Punkreas in mano.
Ecco parliamo del nuovo disco acustico Funny Goes Acoustic…
Noyse: Pensiamo sia una delle nostre cose migliori. Addirittura forse secondo solo a Paranoia e potere e magari a Pelle. È un piccolo capolavoro che nemmeno noi ci aspettavamo.
Cippa: E aggiungo che è un disco che ci aiuterà a cambiare approccio, in futuro, anche nei lavori elettrici. Per me il fatto di non urlare, per Paletta non prendere a pugni le corde del basso o per Noyse non cartellare sulla chitarra è una cosa che ci ha aperto nuovi orizzonti anche proiettata nella dimensione elettrica futura.
Ma come nasce l’album? È figlio della pandemia e delle sue gravi limitazioni o di altre esigenze espressive?
Cippa: La prima che hai detto.
Noyse: Sì, è assolutamente figlio della pandemia, anche se in realtà è un’idea che gira in testa a Cippa da anni… Una volta ha parlato con Pau dei Negrita e lui gli aveva consigliato di provare a fare delle versioni unplugged dei nostri brani, sostenendo che sarebbero venuti una figata. E Cippa ogni tanto metteva sul piatto questa suggestione. Poi con l’arrivo della pandemia e delle limitazioni alle attività live ha tirato nuovamente fuori quest’idea… Paletta ed io eravamo scettici, lo confesso, ma è anche vero che Cippa è un po’ il nostro Soviet Supremo: a lui va l’ultima parola su tutto, soprattutto quando ci viene in mente di far qualcosa di un po’ diverso. Quindi alla fine abbiamo capito che la sua proposta era da prendere in seria considerazione e ci siamo messi a lavorare a queste versioni acustiche, con l’obiettivo di non rifare semplicemente i pezzi senza strumenti elettrici, ma di dare a ogni brano una nuova veste. Nel disco ci ha aiutato tantissimo a fare questa cosa – oltre ai nostri due fonici Dario Colombo e Marco Basiletti – la direzione artistica del nostro amico Rhobbo Bovolenta, ex chitarrista de Gli Amici di Roland, che è diventato cintura nera di strumenti acustici.
Adesso lo state promuovendo, immagino: come vi state muovendo?
Noyse: Il disco è fuori dalla seconda metà di giugno, abbiamo pubblicato due video – quello di Sosta e di Il prossimo show – e poi è partito il tour in cui portiamo in giro i pezzi con uno spettacolo in cui raccontiamo aneddoti ed episodi, fra una canzone e l’altra, della storia della band. È uno spettacolo un po’ particolare che forse, fatte le debite proporzioni, ricorda un po’ il teatro canzone di Giorgio Gaber – di cui io sono grande estimatore – fatto e pensato per essere fruito anche da seduti, in ottemperanza alle restrizioni post Covid. La reazione del pubblico è ogni volta sorprendente. Certo, non vediamo l’ora di tornare ad alzare gli ampli a cannone e far sudare i muri, come dice Paletta… ma a questa veste acustica ci siamo affezionati tantissimo. Perché è stata anche quella che ci ha permesso di resistere in un periodo di incertezza così grave come questo.