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«Pura energia»: Bruce Springsteen racconta la storia dei concerti di No Nukes

I due show leggendari del 1979 diventeranno un film e un disco. E pensare che Bruce non voleva che qualcuno filmasse la E Street Band. «Ero giovane e insicuro». Sul palco però era una bomba

Foto: Richard E. Aaron/Redferns/Getty Images

In principio Bruce Springsteen rifiutava ogni proposta di documentare in video la magia dei concerti con la E Street Band. «Ero scaramantico», dice a Rolling Stone poche ore prima di salire sul palco per una replica del suo show a Broadway. «Cinema e televisione erano mezzi relativamente freddi, mentre noi eravamo una band calda. Pensavo: se volete sentire quel calore, dovete venire a vederci dal vivo».

Nel settembre del 1979 il Boss ha fatto un’eccezione: ha accettato di suonare ai due concerti di beneficienza No Nukes organizzati al Madison Square Garden, dove ha condiviso il palco con Jackson Browne, Tom Petty & The Heartbreakers, Crosby, Stills & Nash, Bonnie Raitt, i Doobie Brothers e Carly Simon. «Hanno ripreso tutto dicendomi che avrei potuto decidere in un secondo tempo se esserci o meno nel film. Così non mi sono dovuto preoccupare delle telecamere, sapevo che avrei potuto tagliare tutto».

Alla fine ha lasciato che gli organizzatori usassero le performance di The River, Thunder Road e Quarter to Three. I brani rappresentano il climax del film del 1980 No Nukes, ma la maggior parte delle riprese del set della E Street Band – quasi tre ore di musica, filmata nell’arco di due serate – sono finite in un archivio e non hanno visto la luce per circa quarant’anni.

Almeno fino al 16 novembre, quando il nuovo film di Springsteen The Legendary 1979 No Nukes Concerts uscirà su tutti gli store digitali. Tre giorni dopo arriverà anche una versione fisica (CD e DVD, oppure vinile). Il film è curato dal collaboratore fidato Thom Zimny e contiene tutti i momenti migliori di entrambe le performance del 1979, tra cui versioni esplosive di Born to Run, Rosalita (Come Out Tonight), Badlands, Prove It All Night e The Detroit Medley. Non ci sono dubbi: è la miglior rappresentazione cinematografica di un concerto di Springsteen negli anni ’70.

«L’energia della band è semplicemente incredibile», dice Zimny. «Un conto è leggerne o ascoltare le registrazioni, un altro è vederli in video. Erano eccitanti quanto i Clash, una band che esplode sullo schermo».

All’epoca dei concerti, Springsteen non suonava dal vivo da nove mesi ed era al lavoro su The River, che sarebbe uscito un anno dopo. Non aveva ancora sposato nessuna causa politica. Dopo l’incidente nucleare di Three Mile Island Jackson Browne, Graham Nash, Bonnie Raitt, John Hall e l’attivista Harvey Wasserman si sono uniti per fondare MUSE (Musicians United for Safe Energy) e hanno chiesto a Springsteen di partecipare così da essere sicuri che il Madison Square Garden fosse pieno per gli ultimi due show dell’evento che durava cinque giorni.

«Era un momento critico», ricorda Springsteen. «Il mio amico Jackson Browne era molto coinvolto. È un’attivista e io in qualche modo sono stato assoldato. Ma ero curioso di vedere fino a dove potessi portare la mia musica, se fossi stato in grado di dare una mano. Avevamo così tanto successo che era ovvio pensare di farci qualcosa di buono e perciò decisi di aiutarli».

Springsteen dice che non ha prestato molta attenzione a chi faceva le riprese durante gli show, ma la crew era di altissimo livello, guidata dal direttore della fotografia Haskell Wexler, conosciuto per aver lavorato a In The Heat of the Night, The Thomas Crown Affair e American Graffiti. «Erano il meglio sulla piazza», racconta Zimny. «I cameramen erano appena sotto il palco, fianco a fianco col pubblico. Non è il linguaggio di MTV, non è un concerto ripreso in multi-cam con inquadrature spettacolari e un montaggio serrato. È un documento puro».

La prima sera, Springsteen ha presentato la sua nuova The River, che sarebbe uscita solo in autunno. Era ispirata alle difficoltà della sorella Virginia, che a 17 anni aveva avuto una figlia col marito Mickey Shave.

«Quel pezzo ha cambiato il mio modo di scrivere», racconta Springsteen. «Mi sembrava di essere giunto a una scrittura più narrativa a cui non ero ancora approdato in passato», dice. «È così che sono arrivato a Nebraska, The Ghost of Tom Joad, Devils and Dust e a tante altre cose. Quella canzone ha dato vita a molte incarnazioni della mia musica. Rappresenta un momento fondamentale della mia crescita e l’ho capito non appena l’ho scritta».

Virginia Springsteen era al Madison Square Garden quando è stata suonata la prima volta. Non aveva idea che il fratello avesse trasformato la sua storia in una canzone. «L’ispirazione erano lei e mio cognato, è stato bello suonargliela senza preavviso», dice Springsteen. «È venuta nel backstage e mi ha detto solo una cosa: “Quella è la mia vita”».

Nel 2012, Virginia Springsteen ha detto al biografo Peter Ames Carlin che all’inizio The River la metteva a disagio. «Il fatto che l’avesse scritta era bellissimo, ma dentro ci sono solo cose vere», ha detto. «Io ero fra il pubblico, completamente esposta. All’inizio non mi piaceva, ora è il mio pezzo preferito».

Verso la fine di entrambi i set, Springsteen ha invitato sul palco Jackson Browne e la corista Rosemary Butler per cantare Stay. Tom Petty si è unito a loro la seconda sera, una delle poche volte in tutta la carriera in cui ha suonato con Springsteen. «Rosemary Butler è stata fenomenale», dice il manager del Boss, Jon Landau. «Non la riprendono spesso, ma musicalmente è lì, dà il suo contributo a una splendida versione di quel pezzo».

Stay si trasforma direttamente nel Detroit Medley, un mix di Devil With the Blue Dress, Good Golly Miss Molly, C.C. Rider e Jenny Jenny che era nelle scalette di Springsteen già dal tour di Born to Run, nel 1975. Fa parte della colonna sonora di No Nukes, ma il filmato integrale della performance non è mai stato visto.

«Dopo un’ora e sette minuti, cioè quando inizia il Detroit Medley, l’energia arriva a livelli mai visti», dice Landau. «Bruce va in uno spazio dove libera completamente le endorfine. Diventa pura energia. Sembra che galleggi. È spettacolare».

Il film si chiude con una versione di nove minuti di Quarter to Three, un classico del 1961 di Gary U.S. Bonds, completo di false partenze, Springsteen che collassa sul palco come James Brown e viene rianimato da Clarence Clemons, aiutato da Van Zandt che sventola un asciugamano. Quello che non si vede è il momento in cui Springsteen vede la fotografa Lynn Goldsmith, all’epoca la sua ex ragazza, scattare da sotto il palco. La tira su e dichiara: «Signore e signori, la mia ex fidanzata!». Subito dopo la scorta dietro le quinte e chiede che venga allontanata.

Quel momento era stato eliminato dal montaggio del film No Nukes e non appare neanche qui. «Non mi interessa raccontare certe cose», dice Zimny. «Non è un momento musicale. Anche se avessi voluto mostrarlo, non è davvero documentato perché era tutto molto caotico e i cameraman non sapevano cosa stesse succedendo». Springsteen e Goldsmith hanno fatto pace decenni fa. Lei ha raccontato che quando si sono incontrati al Sunset Marquis, nel 1980, ci hanno riso su.

L’incidente e tutte le riprese di No Nukes erano nascoste in un archivio e semi dimenticate, almeno fino a quando Zimny non ha iniziato ad assemblare il film del 2020 Letter To You. «Bruce ha notato una splendida sequenza che abbiamo usato per far vedere Danny Federici e Clarence», spiega il regista. «È un’immagine bella, nitida, della E Street Band in un’era che non avevamo mai visto così bene. Abbiamo capito che quello sarebbe stato il nostro prossimo progetto, mentre Bruce voleva remixare la colonna sonora di quel film e rimettere insieme tutti i pezzi».

Le tracce registrate sono state consegnate a Bob Clearmountain, un fonico, tecnico del suono e produttore che lavora con Springsteen dall’epoca di Born in the U.S.A. «Bob Clearmountain è un gigante», dice Landau. «Abbiamo lavorato con tanti grandi fonici, ma torniamo sempre da lui. È davvero creativo e porta tutto il lavoro a livelli inaspettati. Quando si tratta di mix è un genio, punto».

Springsteen non ha visto il film fino a quando non è giunto allo stadio quasi definitivo. Quando l’ha fatto, ne è rimasto molto colpito. «Vedere Clarence e Danny così giovani è stato intenso», dice. «Clarence, in particolare, era davanti al palco, in forma, stava alla grande. È un grande momento della sua carriera, e anche della mia».

Il film gli ha ricordato ancora una volta che sbagliava a impedire che la band venisse ripresa. «Vorrei che lo avessimo fatto sempre», dice. «È stato un errore. Ero giovane e insicuro. Vorrei avere una ripresa di ogni tour, sarebbe bello. C’era un bootleg niente male di Houston, nel 1978, che chiudeva il box set di Darkness. Poi c’è quello del 1975 all’Odeon di Londra. C’è un po’ del 1973 in quello dell’Ahmanson Theatre di Los Angeles. Non abbiamo molto del periodo di Born in the U.S.A. Giravano molti video, ma nessun film dei concerti».

«Sono felice che No Nukes esista», continua. «All’epoca avevo le mie ragioni. L’idea funzionava a livello psicologico, mi aiutava a restare stabile. Ma ero giovane, non avevo la sensibilità giusta. Col senno di poi, sbagliavo».

Guardando avanti, Springsteen spera di portare in tour il prossimo anno l’album Letter to You. «Ci spero», dice. «Come tante altre persone. Stiamo cercando di capire come fare. Se sarà possibile, partiremo in tour. Se non sarà sicuro o pratico, aspetteremo come tutti gli altri».

Jon Landau è d’accordo. «L’unica cosa che posso dire è che siamo molto cauti», spiega. «Dobbiamo assicurarci che tutti, dal pubblico all’artista, dalla band alla crew, siano al sicuro, è l’unico modo per organizzare un grande tour».

Nel frattempo, No Nukes aiuterà chi ha fame di concerti del Boss a vedere la E Street Band al massimo della potenza. «È bellissimo», dice Springsteen. «Se vi siete persi l’Hammersmith Odeon del 1975, vi manderà fuori di testa. E se non eravate in giro nel 1979 vi farà capire cosa eravamo in grado di fare».

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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