Un disco come Spira dovrebbe far notizia, almeno fuori dall’Italia, dove da tempo riviste come The Wire e piattaforme di broadcasting come NTS Radio intercettano suoni e ritmi non convenzionali, illuminando di hype produzioni di quell’artigianato global che è la musica sperimentale, sia elettronica che acustica, pop-folk, con droni e senza droni. È l’augurio che facciamo a Daniela Pes, voce di questo disco-mondo di voci (che sono sempre la sua…) magiche, arcaiche, lunari, potete aggiungere aggettivi a piacere, ogni ascolto ne suggerirà di nuovi, dilatando gli orizzonti del vostro viaggione sonoro.
Ad accompagnare Daniela Pes nella produzione c’è Iosonouncane, che ci ha già ben abituati alle sue esplorazioni musicali: a unirli in questo progetto artistico c’è, tra le altre cose, l’essere sardi, e quindi una simile idea del «percepirsi in vita», come ci racconta Jacopo in questa inedita intervista a due.
Daniela, come sei entrata in contatto con Jacopo?
Daniela Pes: Ho scritto la prima mail a Jacopo nel maggio del 2019. Dopo aver partecipato a vari premi musicali in giro per l’Italia ho sentito l’esigenza di fermarmi e capire quale fosse la strada da seguire: ero confusa, quello che stavo scrivendo non mi convinceva a pieno e allora ho contattato un amico in comune e mi sono fatto dare il suo indirizzo, scrivendogli poi una mail e mandandogli delle bozze di brani di cui non ero convinta. La sua risposta, dettagliatissima, è stata di grande aiuto e da lì è iniziata la nostra collaborazione
Jacopo, cosa ti ha convinto a lavorare insieme a Daniela?
Jacopo Incani: Quando lei mi ha scritto e mi ha mandato le prime bozze dicendomi che non era affatto soddisfatta, non ho potuto che darle ragione: erano brani che non funzionavano. Però c’era qualcosa nella voce e nell’attitudine che mi ha fatto venir voglia di andare a vedere online altre cose sue e ho trovato Daniela in vesti sempre diverse: un live con pianoforte, voce e looper, performance da cantante tradizionale e jazz. Mi trovavo davanti a una musicista dalle molteplici potenzialità e che aveva bisogno solo di qualcuno che le dicesse che era in grado di fare ciò che desiderava fare. Mi sono limitato a suggerirle di scrivere quello che voleva, istintivamente, senza sovrastrutture o troppi pensieri. Forse la mia intuizione è stata giusta perché qualche giorno dopo Daniela mi ha inviato la prima parte di A te sola, e sono rimasto impressionato per qualità vocale, struttura e scrittura armonica non tradizionale, per la bellezza della melodia. Sono cascato dalla sedia e lo ho detto di lavorare in quella direzione.
Nell’album c’è una lingua che non esiste, con antiche parole galluresi e frammenti di termini italiani, in cui i versi sono svincolati dalla metrica e le parole non sono veicolo di un concetto, bensì puro suono. Sono idee già presenti nel disco Ira di Iosonouncane. Quanto quell’album ha influenzato Spira?
Jacopo: Non ne abbiamo mai parlato finché non è uscito Ira. Quando mi ha mandato le sue bozze erano già scritte così, io stavo lavorando al mio disco e non volevo in nessun modo influenzarla, anche se sapevo che c’erano delle analogie.
Daniela: Non abbiamo mai parlato dei testi. Aver avuto Jacopo a fianco durante il processo creativo mi ha lasciato totale libertà sulle parole. I testi di Ira hanno un significato, i miei no: è solo un lavoro sul suono, tranne il brano parlato che sta al centro del disco.
Cosa ti ha portato allora a lavorare in questo modo sui testi e sulle parole?
Daniela: Prima di questo disco arrivavo da un lungo lavoro in cui ho musicato molte poesie di un poeta del Settecento del mio paese, Tempio Pausania, che utilizzava un dialetto gallurese arcaico. Ho imparato tanto da questa esperienza a livello di relazione tra suono, metrica e composizione. E poi non mi è più bastato servirmi di quelle parole per scrivere musica. Sono riuscita ad aggirare questo ostacolo scegliendo di abbandonare il concetto e la metrica così da essere libera nella composizione musicale di andare dove volevo.
E che lavoro è stato fatto sulla voce, vera protagonista dell’album?
Jacopo: Per questo disco ho fatto tecnicamente un lavoro molto diverso rispetto a quello che faccio di solito. La mia voce va trattata in maniera opposta a quella di Daniela: la schiaccio, le tolgo ogni dinamica, la saturo e la immergo nel riverbero e negli effetti. La voce di Daniela invece ha bisogno di tutto lo spazio possibile per muoversi, deve poter essere dinamica.
Tutto questo ha creato un mondo sonoro molto definito, misterioso e visionario, dove passato e presente si incontrano…
Jacopo: Non ci siamo seduti a tavolino per decidere cosa raccontare. Abbiamo parlato di dischi e suoni, senza affrontare la dimensione concettuale. La possibilità di sottintendere tutto questo viene banalmente dal fatto che siamo entrambi sardi, con una simile relazione col mondo, col paesaggio, con la tragicità dell’evento naturale. La scrittura di Daniela è tragica e vitale, tipica di tutti gli autori sardi, sia che si occupino di musica o di narrativa, da Maria Lai a Marcello Fois, c’è lo stesso sentimento. È l’idea del percepirsi in vita. Quando c’è questo bagaglio non verbale, devi solo edificare sulle fondamenta. Spira vive in uno spazio abitato da forze naturali connesse con un passato arcaico. Anche se non si capisce una parola di quello che dice è chiaro che non sta parlando di amore ai tempi del social network. Anche quelli che non hanno compreso le parole di Ira, non hanno mai frainteso le tematiche. Sono trasparenti.
Spira sembra collocarsi in un territorio musicale di ricerca, con un respiro internazionale, e un’attenzione al recupero di suoni tradizionali e antichi. Penso a Lucrecia Dalt o al progetto italiano di Mai Mai Mai. Esiste una scena di cui vi sentite parte?
Jacopo: Il recupero della tradizione non ha mai smesso di esserci, penso a un disco di quasi vent’anni fa come Ovunque proteggi di Vinicio Capossela che omaggiava la musica tradizionale di tutta l’Italia. Personalmente non mi sento parte di nessuna scena e questa cosa un po’ mi dispiace. Ci sono dei musicisti che stimo, ma non parlerei di una scena.
Leggo dalla cartella stampa: «Spira è un disco di musica visionaria che interpreta la drammaturgia sonora come utopia. E l’utopia altro non è che un modello costruito per praticare una radicale critica dell’esistente». Sembra un manifesto politico. Questo disco in parte lo è?
Jacopo: Non è una cosa programmata, è un’attitudine che diventa politica a posteriori. Ogni gesto autorale o artigianale marca una differenza che si traduce in un’evidenza politica. Non abbiamo fatto nulla di speciale: avevamo della musica che andava assecondata nel suo essere. Forse risulta strano perché oggi si presta attenzione ad altro. Il mercato cambia velocemente, prima si diceva che il vinile era morto e che non si poteva fare musica senza i talent. Oggi si dice il contrario, quindi non ha senso modulare i ragionamenti sulla velocità del mercato. L’ambizione di un artista non dovrebbe essere di stare al passo coi tempi bensì di essere precedente ai tempi.
Daniela, come descriveresti il mondo in cui ci si immerge ascoltando Spira?
Daniela: La scrittura di ogni brano fa parte di un flusso, ero da sola e non mi sono fatta nessuna domanda, ho seguito un’urgenza. Per questo il disco è tante cose: la potenza, l’oscurità, la fragilità, dolcezza, carnalità, esperienze che mi appartengono e ho vissuto.
C’è qualche suggestione cinematografica in questo disco? Che film sarebbe Spira?
Jacopo: Mi vengono in mente quei momenti nei film di Fellini o di Lynch quando c’è un’asincronia totale tra il labiale dell’attore e la voce che sentiamo. L’ascoltatore deve fare un patto con l’artista e accettare il mistero della scrittura: fatto questo, il disco di Daniela si dipana in maniera molto fluida. Non è un disco difficile, è solo complesso.