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Quando Cerrone faceva ballare il mondo

Siamo andati a trovare il musicista francese nella sua casa parigina per farci raccontare l’epopea della disco music, il successo per caso di ‘Love in C Minor’, lo Studio 54, i grandi festival e il nuovo album ‘DNA’

La definizione più perfetta della sua vita Cerrone l’ha tatuata sul braccio destro. Sorride e mostra una piccola scritta: “Right time, right place”. «Ero solo un batterista nato in Francia da immigrati italiani, amavo stare sul palco e volevo vedere il pubblico sorridere», racconta. «Mi sono trovato  al momento giusto nel posto giusto e ho potuto diffondere il mio messaggio: questa musica è per il tuo corpo, se lo vuoi muovere».

Il resto della sua storia è nello studio che ha allestito nel suo lussuoso appartamento a Saint-Germain-des-Prés a Parigi: una grande sala dai soffitti alti con una vetrata affacciata sulle luci della Rive Gauche, alle pareti le foto di lui con chiunque, da Nile Rodgers (con cui insieme a Giorgio Moroder forma una specie di triade sacra della disco music) a Quincy Jones al Dalai Lama e un desk con un arsenale di computer e sintetizzatori.

È qui che Cerrone ha costruito il suo ultimo album DNA in uscita il 7 febbraio per Because Records, nove tracce di disco-house futuristica e strumentale che hanno già attirato i remix del collettivo francese Pardon My French e di due seguaci del sound alla Cerrone, Lindstrom e Prins Thomas. È stato lanciato dai due singoli a tema ambientalista Resolution e The Impact in cui ha campionato la voce dell’etologa Jane Goodall per lanciare un messaggio: «Ogni giorno creiamo un danno al nostro pianeta. Non abbiamo ereditato la Terra dai nostri genitori, l’abbiamo presa in prestito dai nostri figli. Se agiamo insieme possiamo iniziare a curare alcune delle ferite che noi stessi abbiamo creato».


«Quella è la mia batteria», dice Cerrone indicando un kit di batteria elettronica al centro della sala. «Tutta la magia comincia sempre da lì. Sono stato il primo a mixare i pezzi con la batteria sempre in primo piano. Cosa dovrei fare? Io sono sempre stato e sarò sempre un batterista, se fossi stato un sassofonista ci avrei messo il sax. La batteria non è una macchina, non è una sequenza di beat, crea un ritmo che ti fa muovere sempre».

Nato in una cittadina della Île-de-France fuori Parigi nel 1952 da una famiglia di italiani, Marc Cerrone è una scarica di energia. Capelli bianchi, maglietta nera e occhiali scuri, si alza continuamente e si esalta nel raccontare come è riuscito a creare un groove che prima non c’era. Gli piace anche immaginare la sua nuova carriera da dj: «Ho iniziato sei anni fa e non mi sono più fermato. Prima lo consideravo un insulto perché io sono un musicista, poi ho scoperto che è divertente. Ho chiesto un consiglio al mio amico David Guetta, mi ha risposto: “Dov’è la differenza? Non suoni dal vivo ma il pubblico ascolterà comunque la tua musica”. A Glastonbury all’inizio del mio set c’era pochissima gente. Mi sono chiesto: “Che ci faccio qui?”. Quando ho messo l’ultimo pezzo ho alzato la testa e ho visto 20 mila persone».

Il titolo dell’album, DNA, è una definizione di genere: «È la mia natura, il suono degli anni ’70, ma anche la fine del mio nuovo percorso da dj». Neanche lui sa spiegare l’eterna presenza della disco nella musica pop di oggi, da Calvin Harris a Dua Lipa, ma sa che generazioni di dj hanno preso ispirazione dalla sua combinazione irresistibile di suoni analogici e sequenze digitali, su tutti Dimitri from Paris e Bob Sinclair, che ha venduto un milione di copie con l’album tributo Cerrone by Bob Sinclair. «Sono il quinto artista più campionato al mondo, capisci? E quando qualcuno ha successo con un campione della tua musica, si fa al cinquanta per cento!».

Si alza di scatto e prende una copia originale del vinile di Love in C Minor, il pezzo con cui è iniziata la sua carriera da predestinato. A soli 17 anni Cerrone convince il fondatore dei Club Mediterranée Gilbert Trigano a ingaggiare delle band per l’animazione dei suoi villaggi, diventa talent-scout di 40 Club Med nel mondo e suona con un strepitoso gruppo afro-rock, i Kongas. Nel 1972 arriva al Club Papagayo di Saint-Tropez e viene scoperto dal produttore Eddie Barclay che pubblica i due album dei Kongas, ma Cerrone ha già in mente di esordire come solista e usa i soldi che ha guadagnato per registrare e stampare a Londra un pezzo rivoluzionario. «Non volevo fare nessun compromesso con il music business, volevo fare musica da discoteca che avesse successo senza passare dalle radio». Love in C Minor è il pezzo che i dancefloor stanno aspettando: dura 16 minuti e 15 secondi, ha un giro di basso appoggiato su un arrangiamento di archi che crea la grammatica ritmica della disco music, una copertina strepitosa (Cerrone in pieno look anni ’70 in vestaglia nera con accanto una donna nuda) e una cascata ipnotica di voci femminili che simulano un orgasmo.

Cerrone stampa 5000 copie e le vende agli amici, finché un giorno un commesso del negozio Champs Disques di Parigi spedisce per sbaglio una cassa con 300 vinili di Love in C Minor a un rivenditore di New York, al posto delle copie invendute di un singolo di Barry White. Nel giro di un paio di weekend, Love in C Minor riempie le piste dei club di tutta New York e una cover fatta da Frankie Crocker per la Casablanca Records diventa una hit. «Io non sapevo nulla, mi cercavano ovunque ma non riuscivano a trovarmi: avevo un nome italiano e l’etichetta era inglese», racconta Cerrone. «Quando mi hanno detto quello che stava succedendo ero al Midem di Cannes a vendere i miei dischi. Sono andato allo stand di Billboard e ho chiesto di vedere le classifiche di quella settimana. Sono salito sul primo aereo per New York e mi sono presentato nell’ufficio della Atlantic Records dicendo: “Cerrone sono io”. Il grande Ahmet Ertegun mi ha fatto firmare un contratto il giorno stesso». Un mese dopo Love in C Minor è in classifica con il suo nome.


Cerrone si gira verso il suo desk e mette le mani sull’ARP Odissey con cui un anno dopo compone Supernature, numero uno in classifica in America nella classifica disco/dance e numero 8 in Inghilterra, primo singolo dell’album Cerrone 3: Supernature con cui nel 1978 vende otto milioni di copie e vince cinque Grammy. «All’inizio pensavo di intitolarlo Malligator, dal nome della mia etichetta», dice indicando sul parquet un tappeto nero con il logo gigante di un alligatore verde, che era sulla copertina del primo album dei Kongas  «Stava benissimo sulla melodia, non trovi?».

La svolta del pezzo è quel titolo così psichedelico (il testo con un tema ambientalista in anticipo sui tempi è di Lene Lovich), la voce soul di Kay Garner e un sound che Cerrone ha trovato quasi per caso: «Ci ho messo un po’ di tempo a capire l’Odissey, poi ho trovato due suoni monofonici e li ho messi in sequenza. Funzionava. A quel punto ho fatto il giro di basso e ci ho messo un kick di batteria perché la drum machine non esisteva, ho aggiunto l’accordo di un altro sintetizzatore e la melodia mi è venuta fuori subito. Una settimana di lavoro per produrre 11 minuti di canzone che sono durati per sempre».

La Atlantic organizza un party di lancio di Supernature allo Studio 54, Cerrone diventa amico di Jean Paul Gautier e Andy Warhol e non torna più da New York. «Lo Studio 54 era la cattedrale dello stile disco: musica, atteggiamento, moda, sesso, droga. Dovevi essere qualcuno per entrare lì dentro, non necessariamente un artista, un attore o un musicista, dovevi essere originale. Era un fantastico teatro del divertimento, con una musica bellissima, su cui tutti hanno una leggenda da raccontare. Io c’ero quando Bianca Jagger è entrata in pista sul cavallo bianco», racconta a proposito di un’immagine che è diventata uno dei simboli degli anni ’70. «Ha fatto un giro in pista e poi ha mandato un saluto verso la balconata, nella zona riservata ai VIP dove c’era Mick. Ma lui era con un’altra e non l’ha vista».


Circondato dai ricordi, Cerrone dice di non essersi mai dimenticato da dove arriva e per questo si è goduto tutto, anche le cadute e rinascite di uno stile di vita scintillante. Ha seguito un sound, ed è pronto ad andare avanti finché il pubblico continuerà a sorridere. «Love in C Minor doveva essere il mio ultimo disco. Pensavo: “Ha avuto un successo ma tra qualche mese finirà tutto”. Poi sono arrivate Supernature, Give Me Love e tutte le hit che ogni dieci anni vengono riscoperte dai dj e dal pubblico. La mia vita è stata fantastica. Sono ancora qui perché sono sempre rimasto fedele al mio suono e continuo a stare sul palco e in giro per il mondo: on the ground, on stage and on the road!».

E se oggi lo Studio 54 non esiste più né come luogo né come idea, per Cerrone va bene lo stesso. «L’energia dei club si è trasferita nei festival. Per me è la prova di ciò in cui credo da 45 anni: la disco è una sensazione, un’atmosfera. Musica seducente che ti fa ballare e ti fa stare bene e fa in modo che di notte tu non sia la stessa persona che sei di giorno».

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