Prima di Live Nation, Clear Channel, Ticketmaster e Stubhub, prima delle commissioni folli, prima dei posti a sedere nei gold circle, prima della musica live come la conosciamo oggi insomma, c’è stato Ron Delsener. Il promoter ottantasettenne ha cominciato a organizzare concerti a New York nell’estate del 1964, quando ha portato i Beatles al Forest Hills Tennis Stadium per due serate (i biglietti costavano cinque dollari e mezzo, più 45 centesimi di tassa federale).
Col tempo, Delsener è diventato il leader indiscusso del settore della musica dal vivo a New York, organizzando migliaia di show in molti locali storici. Nel 1996 ha venduto la sua società per 27 milioni di dollari, ma ha continuato a gestirla nei decenni successivi. Non c’è agente, manager o artista veterano delle scene che non lo conosca. A differenza dell’ex collega Bill Graham, ha sempre tenuto un basso profilo, tanto che non esiste nemmeno una pagina dedicata a lui su Wikipedia. Le cose potrebbero cambiare grazie al documentario Ron Delsener Presents, proiettato in anteprima a giugno durante il Tribeca Film Festival. Diretto da Jake Sumner, figlio di Sting, il film ripercorre la vita di Delsener e contiene interviste inedite a Bruce Springsteen, Steven Van Zandt, Patti Smith, Billy Joel, Jon Bon Jovi, Paul Simon e Art Garfunkel.
«Conosco Ron da sempre, visto che sono cresciuto nell’ambiente della musica», spiega Sumner. «Quando eravamo bambini, regalava a me e a mia sorella i biglietti per andare a vedere i New York Knicks e il circo. Da grande, lo vedevo ai concerti e aveva sempre un aneddoto sui Beatles o su Elton John. È un tipo speciale, un bel soggetto per un film. Più parlavo con lui e più mi rendevo conto della portata della sua storia».
Abbiamo sentito Delsener via Zoom per parlare del documentario e delle sue avventure pazzesche nel mondo della musica. Sumner ci aveva avvertito: il suo è stato un viaggio fantastico. È stato un percorso meraviglioso con tappe come il famigerato show di Bruce Springsteen con Anne Murray a Central Park nel 1974 e il concerto trionfale gratuito di Judy Garland del 1967 al Boston Common, ma anche le quattro serate di Neil Young alla Carnegie Hall nel 2014 e la residency di dieci spettacoli di Bob Dylan al Beacon Theatre nel 2019. È uno che ti può raccontare di quando ha chiuso David Cassidy nel bagagliaio della sua auto e di quando ha visto Frank Sinatra al Copacabana, negli anni ’50. Allacciate bene le cinture di sicurezza: si parte.
Che ne pensa del documentario?
Il ragazzo ha fatto un buon lavoro. Volevo che riflettesse il mio punto di vista, non il suo ed è venuto piuttosto bene. È una storia sincera, inizia da come sono cresciuto con i miei genitori ad Astoria, nel Queens. Sai, arrivo dal nulla. Ho iniziato facendo il piazzista porta a porta. Mio padre era un venditore, vendeva di tutto. Mi portava a vari eventi e match sportivi in giro per New York. Io e mia sorella organizzavamo degli spettacolini nel nostro seminterrato e facevamo pagare cinque centesimi d’ingresso agli altri bambini. Ho sempre ragionato in termini di showbiz e grazie al mio migliore amico Harry Belafonte ho conosciuto un sacco di gente e la mia carriera è progredita. Mi piace aiutare la gente, quando ha bisogno di biglietti o di soldi per fare cose. Ho un’anima. Dico sul serio. E mi piace essere così, mi fa stare bene.
Nel film si vedono molti cimeli della Carnegie Hall che lei ha conservato.
Mi hanno chiamato dicendomi che avevo organizzato 390 spettacoli lì. Graham ha iniziato a organizzare spettacoli al Village East Theater, ero stato io a parlargliene per primo. Poi lui l’ha ribattezzato Fillmore East. Non mi ha mai chiamato per farci qualcosa, ha sempre lavorato con altri, anche se ero stato io ad averglielo segnalato. A quel punto radunato i miei artisti e ho detto: «Voglio fare le cose più in grande». Ho visto che Elton John suonava al Fillmore, così sono andato a trovare lui e il suo agente, Howard Rose. «Elton», gi ho detto, «questa è l’ultima volta che suoni al Fillmore. Ti piacerebbe esibirti alla Carnegie Hall?». Ha detto di sì e gli ho organizzato uno show alla Carnegie Hall, un paio di mesi dopo. C’eravamo io, Elton e Harry Belafonte nel backstage. Elton aveva un cappello da donna. Ci ha abbracciati tutti. E tutti l’hanno adorato. Da quel momento in poi, tutti volevano suonare alla Carnegie Hall.
David Bowie ci ha suonato poco dopo.
Quando ho provato a proporlo mi hanno detto: «Non vogliamo gente così. È uomo o una donna?». Ho sentito le stesse cazzate su Donna Summer. E poi un sacco di cose su Pete Seeger. Dicevano: «È un comunista». Ho dovuto scontrarmi con roba del genere. Ho detto che gli avrei fatto causa e sono riuscito a far approvare Bowie. Alla fine mi hanno dato ragione. «Quel ragazzo è un grande», dicevano. Non è che quegli artisti erano pericolosi comunisti. Non facevano nulla di male. Mica facevano sesso sul palco. Io lo ripetevo a tutti: «È una recita, non lo capite che interpretano dei personaggi?».
È una domanda difficile, ma chi è il miglior performer dal vivo che lei abbia mai visto?
Judy Garland era una delle migliori. L’ho fatta esibire nel bel mezzo di tempesta al Commons di Boston (il 31 agosto 1967, nda). Era uno spettacolo gratuito. Quella sera giocavano anche i Boston Red Sox. C’erano 135 mila persone sotto una pioggia battente. Judy è scesa da una limousine su quella collinetta fangosa con me che la riparavo con un ombrello. È stata grande. C’erano un sacco di suore lì a guardarla, sotto la pioggia. È stata semplicemente spettacolare. Ci siano poi spostati dall’altra parte della strada, in un famoso hotel dove erano soliti alloggiare i Kennedy. Io stavo lì, così come Judy Garland con Liza Minnelli e Joey [Luft], suo figlio. È stato fantastico. Judy ha bevuto della vodka e ha buttato giù un paio di pillole. Le è piaciuto così tanto quello spettacolo che in seguito è ritornata a suonare a Boston. Ma è andata bene, perché non era in forma in quel periodo. Non sapevi mai se ce l’avrebbe fatta o meno. È stata una donna travagliata per tutta la vita. L’hanno messa nelle condizioni di dovere per forza fare film e canzoni. Pessima situazione. Mi dispiaceva per lei e la chiamavo a esibirsi il più possibile.
E fra i rocker?
I miei preferiti sono senza dubbio Tina Turner e Mick Jagger. Era come se fossero la stessa persona. Li prendevo sempre in giro: erano semplicemente incredibili. Anche Prince, che ho visto molte volte a Los Angeles. Era un ragazzo gentile e tranquillo, anche se si può stentare a crederci. E sapeva ballare. Era un grande. Ovviamente James Brown era fantastico. Otis Redding ha sempre spaccato. Frank Sinatra è il mio eroe di sempre. L’ho fatto esibire parecchie volte al Garden State Arts Center. Però non gli parlavo molto, perché non volevo disturbarlo. All’epoca mi immedesimavo in lui. Pensavo sempre: «Cosa farebbe Frank? Rimarrebbe impassibile».
L’altra grande emozione sono stati i Beatles, ovviamente. Quando sono arrivati in città, il loro addetto alle pubbliche relazioni mi ha invitato al Delmonico Hotel, che è ancora lì, sulla 57a strada. Ci sono andato con Joey Heatherton, che era una ballerina-cantante, una ragazza bellissima. I Beatles ci avevano invitati entrambi (proprio durante quel soggiorno al Delmonico, Bob Dylan ha introdotto i Fab Four alla marijuana, nda). I giornalisti erano lì per intervistare i Beatles e fuori era pieno di ragazze urlanti. Due sere dopo hanno suonato a Forest Hills per due date consecutive. Sono atterrati in elicottero. Da un lato era fantastico, ma d’altro canto non lo era affatto perché non si sentiva una parola di quello che cantanti. Dovevano urlare. Li ho sentiti dire: «Ma perché lo stiamo facendo?». I fan non li lasciavano cantare. Mi è dispiaciuto.
Mi racconti il suo aneddoto più bello su Dylan.
Cercavo sempre di andare nel suo backstage perché era pieno di ragazze che volevano incontrarlo, lui però non voleva vedere mai nessuno. Pensavo di fargli un favore. Una volta ero a un suo spettacolo, a Los Angeles, e fuori c’erano un sacco di belle ragazze. Gli ho detto: «Bob, guardale, vogliono entrare a salutarti». E lui: «No, lascia perdere». Ma l’episodio migliore è stato quando ha fatto dieci concerti di fila al Beacon (nel 2019, nda). È stata la volta che si è fermato più a lungo, Il pubblico è impazzito. Una sera poco prima dei bis il suo manager, Jeff Kramer, è venuto da me e mi ha detto che Bob voleva parlarmi. Ho pensato: oh Gesù, cosa ho combinato? Intanto il pubblico stava andando fuori di testa: volevano i bis. Io gli ho detto: «Bob, posso aiutarti?». E lui: «Ronnie, guarda che roba!». Gli ho risposto: «Bob, tutto questo non ti suggerisce niente? Non devi nemmeno cantare. Basta che tu salga sul palco e la gente impazzirà».
Mi ha ricordato Luciano [Pavarotti]. Gli ho dato un milione di dollari per cantare al PNC Arts Center. Alla fine del concerto è sceso dal palco coperto di sudore dicendo: «Non so se posso continuare». E io: «Ma chi se ne frega se riesci a cantare? Loro non lo sanno. Mima in playback: non mi interessa. Loro vogliono solo vederti». La stessa cosa è successa con Johnny Depp, che ho scritturato insieme a Jeff Beck, ma la gente veniva per vedere Johnny, a loro interessava solo lui. È esattamente quello che è accaduto, in tempi recenti, coi Kiss o anche con Taylor Swift. Ma chi diavolo compra dei biglietti da 1600 dollari? La gente come loro non ha nemmeno bisogno di cantare per far felici le persone: basta che si presentino, intascano l’assegno e vanno a casa. E prima o poi accadrà una cosa del genere. Spero che non vada così, visto che la dimensione live è importantissima. Non guardate la televisione: è lo spettacolo dal vivo che conta. Bisogna vedere gli artisti in persona, coi loro difetti. Così come sono davvero.
Il Covid lo ha dimostrato. Credo che la gente si sia stufata, dopo due anni chiusa in casa, e abbia iniziato a desiderare di fare esperienze vere, come i concerti. È qualcosa che non si può scaricare da Internet e ora ha più valore che mai.
Hai centrato il punto. È come andare a vedere una partita di basket dal vivo, piuttosto che guardarla in tv. Bisogna vedere le cose dal vivo: è questo a rendere tutto più interessante. Sei vicino. Senti gli odori. I sapori. Ti esplodono i timpani. Questi ragazzi fan dell’heavy metal si piazzano davanti a quelle maledette casse e si fanno saltare le orecchie. Io, invece, devo andare in giro con quelle grosse cuffie antirumore che vedi all’aeroporto: sono sordo da un orecchio. Una volta i fan lanciavano petardi durante gli spettacoli e le sedie finivano ammucchiate in una pila: alla fine delle serate dovevo mettermi a contare le sedie. La musica può essere come una zona di guerra, a volte.
In effetti mi sorprende che lei non sia del tutto sordo, dopo tutti i concerti a cui è stato.
Ho un acufene perenne.
Non pensa che i prezzi dei biglietti stiano diventando esageratamente alti? Alcuni fanno pagare fino a 5000 dollari per biglietto. Non è troppo?
È disgustoso. Non ce n’è alcun bisogno. Alcuni di questi artisti stanno andando benissimo, ma non significa che debbano aumentare i prezzi. Quando, anni fa, ho sentito per la prima volta che il prezzo di un biglietto era di 100 dollari, ho pensato che fosse troppo alto. Quando Diana Ross costava 100 dollari al Radio City Music Hall, ho pensato: «Ma 100 dollari per vedere Diana Ross?». Tutto è iniziato da lì e mi dicevo: «Io vendo biglietti per un dollaro a Central Park». Non mi piaceva vedere i prezzi a 100 dollari, ma sono entrato in quell’ordine di idee quando ho iniziato a organizzare show come quelli dei Moody Blues e dei Pink Floyd. Erano spettacoli che imponevano prezzi più alti perché servivano tanti camion. I Pink Floyd hanno portato circa 44 camion quando sono venuti: ci è voluto tutto il giorno per scaricare l’attrezzatura e dovevamo per forza far pagare di più. Ma quelli erano casi straordinari e non si trattava di qualcuno che cantava da solo con una chitarra. C’era in ballo un esercito, era uno spettacolone. Una volta i Pink Floyd hanno suonato tutto Dark Side of the Moon alla Carnegie Hall.
Perché pensa che i biglietti abbiano ormai dei prezzi così folli?
Credono di poterla fare franca. E in effetti è così. Le ragazzine, soprattutto, pensano: «Devo averlo!». Così ci sono persone che volano accompagnate dai i genitori in qualche città e sborsano certe cifre. Eppure ci deve essere un modo migliore. Questo è tremendo.
Non credo di aver mai visto una domanda di biglietti come quella per il tour di Taylor Swift. Ha fatto tre serate al MetLife Stadium, ma avrebbe potuto farne venti.
Anni fa, David Cassidy era molto famoso. Ho dovuto nasconderlo nel bagagliaio della mia auto per farlo uscire dal posto dove si era esibito. L’ho portato fin negli Hamptons e per tutto il tempo ho fatto gli scongiuri sperando che fosse ancora vivo. Ma quello che hai appena citato è un fenomeno eccezionale. Chi non riesce ad andarci ci resta malissimo e sono soprattutto giovanissimi. Guarda anche quel ragazzo che faceva parte degli One Direction, Harry Styles. Anche per lui è la stessa cosa. Un tempo c’erano i Beatles: le donne lanciavano le mutandine. Idem con Tom Jones. Le persone che lavoravano nel settore della biancheria intima facevano una fortuna (ride).
Perché, secondo lei, oggi sono così pochi i gruppi rock che riescono a fare il salto dai club e dai palazzetti alle arene?
Fammi un esempio di rock band.
Quello che intendo è che negli anni ’90 un gruppo come i Pearl Jam faceva il botto. Ma ora non succede più.
Prima di tutto, Eddie Vedder è un grande: non vuole che i suoi fan paghino un sacco di soldi per i biglietti. Sta molto attento a dove si esibisce e a quanto costa. Ci sono pochissime persone così, si possono contare sulle dita di una mano quelli che non vogliono fregare la gente. Anni fa, quando ho iniziato con i biglietti da un dollaro, dovevo far pagare una commissione extra di 25 centesimi. A quei tempi non c’era Ticketmaster, avevamo Ticketron. Poi è arrivata Ticketmaster e ha detto: «Ehi, alzate le commissioni». All’improvviso, il supplemento è diventato 25 o 35 dollari su un biglietto da 50. È sbagliato.
Pensa che la fusione tra Live Nation e Ticketmaster sia stata positiva per i consumatori?
(Ride) Dirò quel che dice Trump: non posso rispondere a questa domanda.
I bagarini potranno mai essere fermati o non c’è speranza?
No. Sono come la merda. Prima o poi finisci per calpestarla.
Immagino la faccia molto arrabbiare il fatto che persone che non sono minimamente coinvolte nella faccenda facciano soldi sfruttando i suoi spettacoli.
Già. Sono ovunque. Sono come mosche. Non riesci a liberartene.
Ha intenzione di lavorare fino alla fine?
Sì. Morirò chiamando un taxi. Voglio essere sepolto in un taxi. Ti ricordi quelli vecchi?
Da Rolling Stone US.