«Dopo il concerto con i Bad Seeds, alcuni dissero che avevamo suonato meglio noi di loro. Non ci credo, ma sono comunque cose che fa piacere sentirsi dire». Mauro Ermanno Giovanardi, altrimenti noto come Joe dei La Crus, ricorda così un live con i suoi Carnival of Fools al Palalido di Milano nel 1994, come gruppo d’apertura, appunto, di Nick Cave and the Bad Seeds.
Una serata memorabile, anche per via dell’aftershow in giro per Milano, su cui torneremo nel corso di questa intervista fatta in occasione della ristampa dell’intera discografia della band: The Carnival of Fools – Complete Discography 1989-1993, un doppio CD pubblicato dall’etichetta Area Pirata.
Oltre al ritorno in digitale dei tre album registrati tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, c’è ora anche un documentario che ripercorre la storia di un gruppo che – parafrasiamo Kim Salmon dei Beasts of Bourbon, uno dei punti di riferimento artistici di Joe – fosse stato australiano e non italiano avrebbero goduto, forse, di fama internazionale.
Il film, firmato da Filippo D’Angelo, Dimitris Statiris e lo stesso Mauro Ermanno Giovanardi, si chiama Jesus Loves the Fools: Un carnevale dei pazzi, dei sedotti e degli abbandonati – The Carnival of Fools Story e sarà proiettato in anteprima nazionale venerdì 11 ottobre al Cinema Beltrade di Milano.
Joe, chi erano i Carnival of Fools?
I Carnival of Fools sono stati un’esperienza bellissima nata verso la fine degli anni ’80: ero partito dal post punk e, innamorato di alcune mutazioni della new wave, volevo mettere su disco una serie di suggestioni e il mio amore per certi tipi di musica, dal blues al country più oscuro mischiato con il punk: Gun Club, Cramps, la scena australiana con Birthday Party, Bad Seeds, Beasts of Bourbon. Come per ogni corrente artistica, è possibile farsi influenzare, ma è anche importante non scimmiottare e aggiungere uno sguardo personale. Così la mia cultura musicale era sì anglofona, ma inconsciamente c’erano già melodie che appartenevano alla musica italiana, dagli anni ’60 a Ennio Morricone.
Avevi comunque scelto di cantare in inglese.
Tutta la nostra generazione, a parte pochi tipo CCCP e Litfiba, pensava forse anche ingenuamente che l’Italietta musicale fosse un orticello troppo piccolo. Probabilmente c’era anche una buona parte di snobismo. Nella seconda metà degli anni ’80 era imprescindibile: se ascoltavi certe cose, dovevi cantare in inglese.
E il nome Carnival of Fools da dove arrivava?
Scrivendo in inglese, le mie letture erano in inglese: per carpire alcuni modi di dire, citare determinate cose. Così avevo tanti appunti messi da parte e quando ho dovuto scegliere il nome per la band ho scelto Carnival of Fools, da alcuni versi poetici di Patti Smith da Witt: “un carnevale dei pazzi, dei sedotti e degli abbandonati”…
Sono versi che nel documentario recita Violante Placido. Perché hai scelto la sua voce?
Siamo molto amici, ci conosciamo dal 2010 e abbiamo fatto molte cose insieme, l’ho invitata più volte a diversi festival di cui ero direttore artistico e aveva cantato con me Bang bang sull’album Ho sognato troppo l’altra notte?. Mi è sembrato naturalissimo chiamarla per recitare quei versi.
E invece da ragazzo come ti eri avvicinato a Patti Smith?
La mia folgorazione per Patti Smith è stata a Bologna nel 1979, un concerto a cui ero andato con amici. Fino a pochi mesi prima non sapevo nulla che andasse oltre il manubrio della mia bici, correvo in una squadra molto forte…
Quindi chi erano i tuoi idoli prima di Patti Smith?
Eddy Merckx, in Italia Battaglin… Poi presi la pertosse e il medico sportivo mi vietò di andare in sella, non potevo prendere colpi d’aria, freddo, acqua e così, dovendo star fermo due mesi, a casa dei miei cugini in Emilia ho scoperto la musica. E quando ho ripreso ad andare in bici ormai gli altri andavano come missili, quindi ho finito la stagione fingendo di avere i crampi perché avevo capito cosa mi piaceva davvero. Ho venduto la bici, comprato un basso elettrico e l’ampli, e mi sono ritrovato a Londra con l’esplosione del post punk e della new wave.
Cosa ti colpì di Patti Smith?
Al di là dei suoi dischi, il suo modo di cantare dal vivo, l’intensità, la veemenza. E più che il concerto, mi affascinò quello che c’era intorno: io ero abituato alla disciplina, alle regole, e vedere quella roba lì fu fantastico.
Tutti i dischi dei Carnival of Fools sono usciti per Vox Pop, quella che era l’etichetta fondata da te con i tuoi amici dell’epoca, tutti presenti nel documentario: Giacomo Spazio, Carlo Albertoli, il fonico Paolo Mauri e Manuel Agnelli. Com’era nata?
Frequentavamo un caffè letterario che si chiamava Chimera e il giorno che morì Andy Warhol Giacomo Spazio ebbe un’idea: perché non facciamo un tributo a lui e al primo disco dei Velvet? Quindi abbiamo fatto un disco coinvolgendo gruppi che esistevano davvero e gruppi inventati per chiudere la scaletta, divertendoci. Io canto Sunday Morning con i Captain Pepper & the Legendary Hearts dove c’erano anche Stefano Ghittoni e Giacomo… E poi faccio Femme fatale come Superlovers. Andammo poi a Firenze per il meeting delle etichette indipendenti dove avevamo uno stand fighissimo, supercolorato, ed eravamo gli unici ad avere il ghetto blaster con cui mandavamo i nostri pezzi. Di fianco a noi c’erano dei tedeschi, facemmo amicizia e loro impazzirono per quel disco. Presero la licenza per la Germania e l’album vendette 18, 19 mila copie. E poi con quei soldi lì facemmo il nostro secondo disco, cioè il tributo ai Joy Division, dove c’è la cover di Love Will Tear Us Apart con Manuel Agnelli: ricevemmo recensioni pazzesche da NME, Sounds, tutta Europa… Mi avevano dato 8, minchia (ride)!
E come siete arrivati a pubblicare il primo disco dei Carnival of Fools, Blues Get Off My Shoulder?
Perché intanto stavo iniziando a lavorare con i Carnival e sia Giacomo Spazio che Charlie (Albertoli, nda), nonostante io fossi dentro l’etichetta, mi spinsero a fare uscire l’EP su Vox Pop. Così come poi Giacomo mi spinse a cantare in italiano.
E lì inizia la storia dei La Crus però. Torniamo al documentario, a cui partecipano tanti amici musicisti che hanno suonato con te nei Carnival of Fools: non hai mai avuto una formazione stabile, sembrava più un tuo progetto solista.
Mi piaceva comunque l’idea di suonare insieme ad altri musicisti, era fondamentale. Così i dischi avevano diverse anime dentro. Se riesci a essere il collante, dando le giuste suggestioni, hai più colori. Poi quando ho trovato le persone con cui riuscivo ad avere una seria empatia, non ho più sentito la necessità di cambiare.
Il documentario si apre con la voce di Hugo Race, come vi siete conosciuti?
Abbiamo suonato tante volte con lui e nel corso degli anni siamo diventati amici, era venuto in studio per il secondo disco dei La Crus dove aveva suonato su tre pezzi, ne La finestra di casa mia c’è un campione della sua chitarra. Gli avevamo chiesto un contributo video per il documentario sui Carnival, lui non è riuscito a trovare qualcuno che avesse una telecamera per riprendere in maniera seria e quando ci è arrivato quell’audio dall’Outback abbiamo deciso di metterlo in apertura perché è… troppo cinematografico.
Visto che stiamo parlando di musicisti australiani, com’era suonare dal vivo insieme ai tuoi gruppi preferiti di allora, tipo Beasts of Bourbon o Bad Seeds?
La prima volta che abbiamo suonato con i Beasts of Bourbon, il chitarrista Kim Salmon ci fece un complimento bellissimo: se voi foste stato un gruppo australiano avreste avuto un respiro internazionale. Ma anche quando suonammo con Nick Cave al Palalido: lui stesso venne nei camerini a complimentarsi. Alcune persone hanno detto che avevamo suonato meglio noi dei Bad Seeds. Non ci credo, ma mi è piaciuto quando me l’hanno detto.
A proposito di quel concerto con Nick Cave, nel documentario racconti un aneddoto splendido sulla serata: lui che ci prova con la tua ragazza.
Dopo il concerto, Nick Cave ci chiede di portarli in qualche posto figo, così siamo andati tutti all’Atomic. Lì il dj cercava di mettere musica figa, colta, anglofona, ma non se lo inculava nessuno. A un certo punto ha messo Stasera mi butto e tutti si sono messi a ballare! Poi Nick Cave ha iniziato a battere i pezzi alla mia fidanzata. Lui era ovviamente uno dei suoi idoli e lei era imbarazzatissima! Poi siamo andati al Plastic, che però era chiuso, e allora abbiamo finito la serata nelle loro camere d’albergo. A un certo punto lui mi dice: «Perché se io ti scopo la tua donna, ti do la possibilità di scrivere cose ancora più profonde!» (ride). Sono ricordi veramente fighi.
Cosa c’è nel cofanetto in uscita per Area Pirata?
Il primo EP Blues Get Off My Shoulder e gli album Religious Folk e Towards the Lighted Town. Nel booklet c’è una intro scritta dal giornalista Roberto Calabrò, è stato lui a mettermi in contatto con Area Pirata. E poi quattro pagine per ogni disco con copertina, tutti i crediti, chi ha suonato cosa, e due pagine per le foto della band.
E brani inediti?
Non ci sono inediti, ma ci sono tutti i pezzi usciti nelle compilation: Love Will Tear Us Apart, Shadow of a Doubt che avevamo registrato per un tributo ai Sonic Youth pubblicato da Claudio Sorge, c’è una outtake live in studio di Shehellshell e poi It’s Just a Song di Charlie Feathers, che era uscita per una compilation del Bloom.
Una curiosità: chi è il bambino ritratto sul retro copertina di Blues Get Off My Shoulder?
Era il figlio del fotografo che fece alcune foto del disco, è stata scattata nella nostra sala prove a Brugherio. È stupenda e il bambino ormai avrà più di 30 anni. L’ultima volta che l’ho visto era uno studente universitario.
Nel documentario, Klaus Bonoldi – ora A&R director di Universal Music Italia – ricorda quando lavoravi in un negozio di dischi storico di Milano, New Zabriskie Point, descrivendo il Joe dell’epoca come «un piccolo Elvis che si era perso». Ti riconosci in questa definizione?
(Ride) Sì, sono sempre stato un grande fan di Elvis, quello della prima era e del ritorno del ’68, fino al ’70, ’71.
Anche solo vendendo dischi hai influenzato la vita di molte persone, indirizzandole verso la musica come professione. Che effetto ti fa?
Avevo due fratellini a quei tempi. Uno era Mayo (oggi tatuatore, cantante dei gruppi hardcore Sottopressione e La Crisi, chitarrista della band punk-rock Manges, nda) e l’altro era Klaus. Mayo mi diceva che voleva lavorare nella musica, io gli dicevo: guarda che è faticoso! E alla fine è venuto a fare il backliner per i La Crus. Ora mi ha aiutato a trovare il titolo per il documentario e una delle illustrazioni nella ristampa è un suo disegno di allora. E la stessa cosa è capitata con Klaus. Mi diceva: «Voglio lavorare nella musica». E io gli ho detto: vai al Jungle Sound, di’ che ti mando io. Ha iniziato lì prendendo le telefonate e così è iniziata la sua carriera musicale… Nei ringraziamenti del primo disco dei La Crus c’è anche lui perché avevamo registrato al Jungle, nello studio Midi, il primo a Milano, vicino ai cessi.
Ti è venuta voglia di riformare i Carnival of Fools per celebrare documentario e cofanetto?
È una cosa che da una parte mi stimola, me lo stanno chiedendo in tanti dicendomi che sarebbe bello fare magari tre o quattro canzoni prima della proiezione, ma ho così tante cose a cui pensare in questo momento, tra la direzione artistica di quattro festival, un mio disco, nel 2025 c’è l’anniversario del primo album dei La Crus… Mi piacerebbe, ma non vorrei scimmiottarmi: non potrei cantare quei pezzi in quel modo lì, forse ne potrei fare una versione acustica alla Johnny Cash.