«La mia collaborazione con Miles Davis è iniziata all’inizio di ottobre del 1987. Ero un artista disoccupato. Una mattina ho ricevuto la telefonata che avrebbe per sempre cambiato il corso della mia vita. Al telefono era un certo Gordon Meltzer, il road manager di Miles. Aveva avuto il mio nome da una mia amica, una giovane aspirante modella, Lydia Tracy. Senza che lo sapessi, Lydia aveva incontrato Miles a un suo concerto alla Lehigh University in Pennsylania. I musicisti della band l’avevano notata subito e l’avevano invitata nel backstage nella speranza di poter avere un appuntamento con lei. Lydia era molto bella ed erano tutti ai suoi piedi, non potevi non notarla. Ma una volta nel backstage a notarla fu Miles: i musicisti della band non avevano più alcuna chance».
Mikel Elam, classe 1964, assistente personale di Miles Davis dal 1987 al 1991, oggi pittore piuttosto affermato appartenente al movimento afrofuturista, racconta l’origine della sua collaborazione e la lunga esperienza al fianco del leggendario trombettista, scomparso nel settembre del 1991, all’età di 65 anni.
Dove hai incontrato per la prima volta Miles?
All’Essex Hotel di New York, un posto che per me sarebbe diventato presto familiare. Gordon mi disse che Miles era una persona estremamente riservata e che aveva bisogno di qualcuno che viaggiasse con lui. Mi portò nella suite di Miles, dove fummo accolti da una bellissima donna . Il suo nome era Sue, era molto amichevole con Gordon e fu molto gentile anche con me. Io naturalmente ero puttosto nervoso, stavo per incontrare uno dei musicisti più importanti del XX secolo. La seguimmo nel soggiorno della suite e lui era lì.
Che impressione ti ha fatto?
Era più piccolo di quanto avevo immaginato, ma sembrava un re. Indossava qualcosa che risplendeva e che gli dava un aspetto maestoso. Mi sbirciò con i suoi penetranti occhi scuri. Avevano un bordo blu intorno ai margini dell’iride. Era splendido, sbalorditivo. Sapevo che doveva avere almeno 60 anni e sembrava non avere nemmeno una ruga in faccia. Aveva un bel sorriso e mi fissava. Aveva un album da disegno in grembo e diversi pennarelli. Il suo primo commento fu sulla mia giacca: «Fammela vedere, chi l’ha fatta?», disse e io risposi «Patrick, un mio amico». Lui riprese a disegnare. Mi sedetti di nuovo vicino al lui e lo guardai disegnare, aspettando che parlasse di nuovo.
Una situazione surreale…
Sì. A un certo punto disse «Ti piace questo disegno?». Gli dissi che mi piaceva molto, cos’altro avrei potuto dire? Continuava a fissarmi. Era inquietante. Era come se stesse guardando attraverso di me. Avrei scoperto presto che quella era una pratica normale per lui perché, sì, vedeva veramente attraverso le persone. Le sue parole successive furono: «Ti piacerà la Francia, l’Europa, andremo là in tour, faremo tantissimo shopping».
Così da artista disoccupato ti sei trovato in procinto di partire per l’Europa, in tour con la band di Miles Davis…
Esatto. La mattina del giorno della partenza Gordon ha iniziato a istruirmi su quello che dovevo fare, dovevamo essere all’aeroporto alle 15:30. Per prima cosa dovevo prendere i vestiti di Miles, che sarebbe partito per Parigi il giorno dopo con il Concorde. Insieme a Miles siamo andati verso casa sua. Ha cominciato a parlare e io mi sono subito reso conto che diceva delle cose che non riuscivo assolutamente a capire, era un linguaggio che mi era sconosciuto.
Quale era la causa?
La sua caratteristica voce roca, ma anche il fatto che non completava le frasi. Non ero sicuro di cosa volesse dire e di come volesse le cose. Era sconvolgente. Io cercavo di mantenere la calma e sorridere. Miles parlava praticamente sussurrando, era una specie di gergo al quale ci si doveva abituare. Era un po’ come la poesia beat. Allen Ginsberg. Henry Miller. William Burroughs. Aveva quella prosa lì, insieme ad altri musicisti di quel tempo.
Alla fine arrivate alla casa di Miles?
Sì, arriviamo lì, prendiamo un piccolo ascensore. Usciamo, giriamo a destra, camminiamo fino a una porta in fondo a un corridoio. Miles infila la chiave nella porta ed entra. Appena siamo dentro intravedo la figura di una donna sdraiata su un grande letto, nella stanza open space. Io la guardo e lei ci guarda e io realizzo chi è.
Vale a dire?
Cicely Tyson. Naturalmente avevo dimenticato che Miles era sposato con lei. Non appariva amichevole, ma era splendida. Indossava un body e appariva molto giovanile e ultra chic. Il colore del body era blu cobalto e io non potevo credere quanto fosse bella, l’avevo immaginata più vecchia. Era stata un’icona per almeno 20 anni e io potevo ricordare solo alcune delle sue più grandi performance, tipo Sounder, film per il quale è stata nominata a un Oscar oppure L’autobiografia di Miss Jane Pittman, nel quale interpretava il ruolo di una signora molto anziana. Ero davanti a una delle più grandi attrici americane, che era sposata con uno dei musicisti jazz più conosciuti del mondo…
Che succede a quel punto?
Miles saluta Cicely molto sommessamente, lei non risponde e lo guarda con occhi di ghiaccio. Sono in imbarazzo perché percepisco l’ostilità. Mi guardo intorno, è un appartamento di lusso. Nel soggiorno c’è una grande borsa Louis Vuitton dalla quale esce un vestito da sera nero. Sembra che Cicely sia tornata da poco da chissà quale parte del mondo. Miles si dirige verso un armadio vicino al letto di Cicely e, dandole le spalle, continua a tirare fuori vestiti e a gettarli in terra. Mi dice: «Mikel, puoi portare questi vestiti all’Essex?». Nell’aria c’erano delle vibrazioni che non mi piacevano per niente.
E Miles se ne va?
Sì. Mi lascia lì con una persona a cui sembro non piacere per niente. È l’adrenalina a farmi uscire dall’imbarazzo. Riesco a mettere nelle mie braccia i tanti vestiti, pesantissimi, tutti di incredibile fattura. Come faccio ad aprire la porta in queste condizioni? Mi incammino e all’improvviso sento il sussurro di Cicely: «Vuoi che ti chiamo un taxi?». «Sì, grazie», rispondo. Telefona al portiere per dirgli di chiamare un taxi per me. Poi apre la porta e mi fa: «Sei nuovo, eh?». «Sì», gli rispondo. «Dio ti benedica, ne avrai bisogno».
Poi hai lavorato con Miles per quattro anni: che tipo era? Quali erano le sue principali passioni oltre la musica?
Miles era un po’ come la musica che faceva, duro e gentile nello stesso tempo. Penso spesso ai suoni lunari ed eterei che sono incorporati nel suo repertorio, musica che evoca romanticismo e una certa profondità spirituale. Miles era così. Era un enigma, nel migliore senso della parola. Anche quando diceva qualcosa, sia per il modo di parlare che per la voce, dovevi fermarti e cominciare a pensare a quello che aveva detto. Era come un puzzle. Fra l’altro, molti non lo sanno, ma aveva anche un lato comico piuttosto sviluppato, una delle persone più divertenti che abbia mai incontrato. Le sue osservazioni a volte erano esilaranti. Era proprio così, intelligente, e chiunque poteva riconoscere questo suo genio. Parlando di arte Miles l’ha incarnata in ogni direzione. Musica, arti visive, cinema, letteratura, teatro, danza, sperimentazione. Era sempre aperto alle nuove idee. La sua seconda passione erano le arti visive. Miles dipingeva e disegnava ogni giorno, sia quando era in tour che quando componeva nuova musica. Come ho detto, la prima volta che l’ho incontrato era seduto e stava disegnando. Ha fatto migliaia di disegni e centinaia di quadri. Oltre al disegno e alla pittura era molto interessato al cinema. Divorava film ogni giorno. Se c’era un film che gli piaceva lo rivedeva più volte, studiando ogni sequenza. A volte lo rivedeva solo per una o due scene. Sapeva molto su come si faceva un film e sul mestiere dell’attore. Era anche attento alla regia e al lavoro del direttore alla fotografia.
Immagino tu abbia viaggiato molto con lui. Aveva dei Paesi in cui gli piaceva andare particolarmente?
In Europa la Francia e l’Italia. Miles amava il cibo, la moda e le donne di questi due Paesi. Era un vero buongustaio e, pure questo lo sanno in pochi, anche un cuoco di altissimo livello. Faceva un’impeccabile cucina gourmet con un tratto di soul food come base. Aveva un debole per i dolci. In Francia per lui era tutta una questione di pasticcini e croissant. Lì la sua città preferita era di gran lunga Parigi. Gli piaceva molto anche Nizza. L’Italia era un altro dei suoi posti prediletti. Cibo, moda, arte. Gli piaceva scherzare sulle cose che in Italia vedeva per la strada. Gli piaceva isolarsi in albergo, ma anche uscire alla ricerca di cose all’ultima moda. Collezionava arte francese, italiana e spagnola. Un’altra sua grande passione è stata il Giappone e la sua città preferita era Tokyo. Anche lì amava andare in giro per negozi e ristoranti e quando usciva si sentiva più a suo agio. Diceva spesso che i giapponesi rimanevano sempre un po’ distanti e non facevano tante domande. Gli pareva che gli lasciassero lo spazio giusto per respirare. Quando eravamo lì incontrava sempre lo stilista Koshin Satoh. Koshin ci prendeva e ci portava nel suo atelier dove Miles era capace di spendere 100 mila dollari in un’ora. Da lì uscivamo e andavamo a mangiare sushi e altre delizie giapponesi.
È vero che durante i viaggi per i tour passava molto del suo tempo chiuso nella stanza d’albergo?
Non del tutto. Miles voleva solo selezionare le persone di cui circondarsi. C’erano amici che, su suo invito, viaggiavano per poterlo incontrare e aveva sempre gente che veniva a trovarlo. Sicuramente passava molto tempo parlando al telefono con le persone alle quali teneva di più. Anche i musicisti della band passavano spesso ed erano sempre i benvenuti. La gente che teneva lontana era solitamente quella che gli avrebbe chiesto qualcosa: interviste, approvazioni di qualche tipo, impegni futuri. Non era un anti-sociale. Voleva soltanto scegliere con chi essere sociale.
In che rapporti è rimasto con i musicisti con cui ha suonato?
Splendidi. Ovunque andasse c’era sempre qualcuno delle sue precedenti band che si presentava per passare del tempo con lui. C’erano tanta gioia e risate in quelle occasioni, tanto amore e rispetto. Poi c’erano gli amici storici, musicisti, ma non solo. Si incontravano felici di poter stare insieme. Dizzy Gillespie, Max Roach, Herbie Hancock, Wayne Shorter, John McLaughlin, Quincy Jones, Prince, Al Foster, Carlos Santana. Ma è una lista davvero lunga. Quando si incontravano sembrava una magia, con loro Miles rideva e scherzava in continuazione.
Secondo te è un caso che l’ultimo album in studio di Miles Amandla, prima del postumo Doo Bop, prenda il titolo da una parola zulu che significa libertà, che veniva utilizzata come slogan nelle manifestazioni in Sud Africa contro l’apartheid? Il tema del razzismo e dei diritti dei neri è rimasto centrale anche negli ultimi anni della sua vita?
Sì. Il razzismo è e probabilmente sarà sempre vivo e attuale nella società americana. Puoi essere anche famoso, ma come uomo di colore devi essere sempre molto cauto. Questo Miles lo sapeva. Mi diceva di stare sempre attento quando andavo in giro. Grazie a lui ero un giovane sempre ben vestito e lui mi ha spinto a sembrare anche piuttosto sofisticato. Era preoccupato che potessi diventare un bersaglio per la polizia o di un individuo razzista. Una volta mi disse che ogni volta che prendeva la sua Ferrari la polizia lo fermava. Non potevano credere che un nero guidasse una macchina del genere. Io guidavo sempre una delle sue macchine sulla Pacific Coast Highway, quando eravamo nella sua tenuta di Malibu, in California. Anche io venivo fermato regolarmente. Per certi versi negli Stati Uniti eravamo solo pochi anni avanti rispetto alla difficile situazione del Sud Africa. C’era solo qualche legge in più, che non sempre era una garanzia per la nostra sicurezza e incolumità.
Qual era il suo standard di vita?
Miles viveva come un re. Se lo era meritato dopo 40 anni di duro lavoro. Aveva fatto molti soldi e li spendeva. È stato anche saggio a gestire i suoi averi, alla sua morte ha lasciato una buona eredità alla sua famiglia. Ha vissuto in case incredibili, indossato vestiti costosissimi e girato con macchine extra-lusso. Il suo amore per le Ferrari e le Lamborghini è piuttosto noto. È stata una vita piena di lussi e stravaganze.
Ricordi che compenso ricevevi da lui per il tuo lavoro?
Non dirò la cifra. Ero un ragazzo allora ed era la prima volta che facevo un lavoro di quel tipo. Era comunque la cifra più alta che avessi mai guadagnato, su base settimanale. Oltre a questo, però, Miles mi comprava vestiti bellissimi, molto costosi e non ho mai speso nulla per mangiare o per l’alloggio. Vivevo anche io come una star. Ho parlato con altri assistenti di persone famose, guadagnavano molto più di me. Però ho avuto vantaggi che loro non hanno mai avuto e questo è molto rilevante. Ero super-felice di girare il mondo, indossando costosi abiti alla moda e mangiando nei migliori ristoranti del globo. Quale ragazzo può dire che, oltre al lavoro, è arrivato anche tutto questo?
Qual è la cosa più importante che ti ha lasciato? Cosa ti manca di lui?
Miles è stato il mio maestro. Il mio mentore. Ho lavorato per lui, ma molte volte mi ha trattato come se fossi stato suo figlio. Io sono cresciuto solo con mia madre, eravamo abbastanza poveri e senza nessuna esperienza mondana. Miles mi ha fatto guardare e conoscere il mondo. Mi ha insegnato a essere un artista disciplinato e a credere in me stesso. Erano cose che non avevo mai fatto. Avevo un talento grezzo che in qualche modo lui ha subito riconosciuto. Mi ha insegnato a usare questo talento e questa abilità nella vita reale. Mi manca la sua saggezza, il suo senso dell’umorismo, mi mancano i momenti in cui mi diceva qualcosa con cura e gentilezza. Mi manca dipingere con lui. In quei momenti condivideva la sua vita con me. Miles era molto “nutriente”. Aveva capito che avevo bisogno di un padre e, un giorno, di una vita da solo. Mi manca il senso di sapere senza sapere. Le sue lezioni, le sue parole, non erano mai troppo chiare. Un puzzle, come dicevo prima. Diventavano più chiare solo con il tempo, con l’esperienza.
Hai collaborato con Miles per la realizzazione di quadri e disegni e oggi sei un artista piuttosto affermato. Quanto ha influito Miles sul tuo lavoro?
Miles è stata la persona più progressista che io abbia conosciuto. Il nucleo della sua anima era: andare avanti, lasciando indietro il passato. Guardava sempre verso il futuro. Quando ho cominciato a lavorare con lui io ho interrotto la mia pratica artistica. Sentivo che avevo bisogno di concentrarmi su come guadagnarmi da vivere. A un certo punto Miles cominciò a chiedermi perché non disegnassi e non dipingessi più. Gli risposi che ero troppo indaffarato con lui per farlo e lui mi rispose che questa era solo una cattiva scusa. «Se sei un artista devi trovare il tempo», mi disse. Fu così che dopo un anno di lavoro con lui ho ricominciato a disegnare e dipingere e alla fine abbiamo iniziato a fare insieme disegni e quadri. Durante uno dei suoi tour all’estero insieme abbiamo fatto due dipinti. Tornati dal viaggio siamo andati all’inaugurazione di una sua mostra alla Soho Gallery di New York. Siamo arrivati lì, la galleria era gremita ed esposti c’erano i due quadri che avevamo fatto insieme. Ero scioccato, non me lo aveva detto. Lasciando la galleria siamo saliti su una limousine e lui con un grande sorriso mi ha detto «Sorpresa! Sapevo che non ti aspettavi di vedere in mostra i nostri lavori. L’accordo è che se li vendiamo tu avrai la metà». Sono stati venduti tutti e due e io ha avuto la mia metà. È stata la prima volta, quella, che ho venduto una cosa fatta anche con le mie mani. Da lì siamo passati a progettare i quadri per il suo reunion show di Parigi, un concerto nel quale avrebbero suonato fra gli altri Tony Williams, Herbie Hancock, Wayne Shorter e Joe Zawinul. È stato l’ultimo tour prima della morte. Poco prima di morire Miles ha comprato cinque miei quadri per il suo nuovo appartamento a New York. Credo che quella sia stata per me la spinta decisiva per il mio futuro di artista. La mia arte riguarda l’evoluzione, un futuro nel quale sono incluso. Miles mi ha indicato la strada.