Alle cinque in punto di mercoledì Carl Brave ci dà il benvenuto sul cancello dello studio 4 della Filmhouse di Formello, a metà strada tra il centro per gli allenamenti della Lazio e la polvere di stelle che si mischia al pulviscolo dentro quella sorta di piccola Cinecittà delle serie tv italiane. Carletto – come qui lo chiamano tutti, anche gente ben al di sotto del suo metro e novantaquattro – ci ha invitato ad assistere alle prove generali del suo tour estivo, che parte questa sera all’Ippodromo delle Capannelle, per Rock in Roma.
Lo studio, prima che la musica inizi e i maxischermi si accendano, restituisce inevitabilmente atmosfere post-felliniane. Dentro è riprodotto in scala 1:1 il palco del tour, anzi no: è il palco tour, che si smaterializzerà da qui per ricomparire in giro per l’Italia, nelle varie tappe. Ci viene allora il dubbio che quella cui assisteremo non sarà una semplice prova ma un film sul concerto che sarà, e che prenderà forma a ogni decisione del regista, a ogni battuta del manager, a ogni ingiuria rivolta a questo o quello strumentista, a ogni complimento diretto a un fonico o a un addetto al catering.
Lo spettacolo ci colpisce per tre aspetti. Il primo è che Carl vi gioca un ruolo più teatrale che mai; a tratti da trasformista, per quanti soggetti diversi riesce a impersonare grazie agli strepitosi visual e agli arrangiamenti proteiformi (cose che costituiscono il secondo e il terzo aspetto notevoli del concerto).
Il maxischermo a forma di piramide, con uno spigolo rivolto al pubblico, mostra i tanti Carl a disposizione (specialmente Carl-Cristo-pietra angolare della chiesa pop rap, col volto spaccato a metà dallo spigolo). Negli intermezzi il monitor trasmette uno sfondo siderale. Ogni tot nebulose compare un’ancora alla terraferma, sotto forma di appelli alla normalità: Eccallà oppure Tararì. Pur percorrendo distanze sempre più importanti, Carl Brave resta sempre il ragazzo dell’universo accanto. «Qua aspetta un attimo che dico du’ cose», annuncia al regista; ma poi non le dice, perché non vuole spezzare il ritmo della superband da dodici elementi, come gli apostoli.
Il capolavoro visivo della scaletta forse è dedicato al nuovo singolo Hula-Hoop, nella cui video art Carl riafferma i vantaggi di essere, al tempo stesso, planetario e intimista: nel momento culminante dell’animazione appare come un gigante coi piedi posati sul globo che afferra l’equatore e lo fa roteare in perfetto equilibrio sul punto vita.
Il commento ai pezzi fornito dai visual è così importante che è un po’ come se lo stessero riarrangiando una seconda volta, con le immagini. Per inverso la versione funk-rock di Pellaria è talmente funk-rock che non ha quasi bisogno di un sussidio video: le bastano poche, semplici grafiche per essere un mondo a parte rispetto all’originale.
«Ora ti porto in una specie de prigione centroamericana», suggerisce Carl mentre, una volta finite le prove, ci precede attraverso gli studios in cerca di un luogo abbastanza silenzioso perché possiamo scambiarvi insieme qualche battuta. In effetti dopo qualche istante vediamo una lunga sequenza di camerini aprirsi sul ballatoio che insiste sull’interno di un capannone vuoto.
La nuova versione di Pellaria la dice lunga su come avete lavorato agli arrangiamenti del tour: per contrappassi danteschi. I pezzi che, nella loro vita precedente, erano una cosa, per questa estate sono l’opposto.
Ho cercato di cambiare sfumature a stecca, sfumando i generi. Così una Pellaria che nasce lenta, un po’ smosciona, mischiandoci funk e rock, può diventare un missile o un siluro. In più dall’anno scorso le abbiamo stravolto il finale.
Una delle rivelazioni delle prove è stata la tua presenza scenica. Sei sempre più sciolto sul palco ed è notevole, ormai, la sicurezza con cui passi dall’essere il destinatario di una bambola vudù a impersonare il Cristo di Rio de Janeiro. In più oggi come non mai sei stato il capitano della tua ciurma di musicisti, saldo sulla prua della nave che la forma stessa che avete dato al palco (che corrisponde a quella dello schermo che lo sovrasta) può ispirare.
Questa è bella!
Sei bravo a renderli tutti, a turno, parte di una storia che è più della somma dei suoi capitoli. Come siete arrivati a questo gruppo monstre e a questo affiatamento?
Mantenendo in salute il gruppo originale e piano piano aggiungendo quello che serve. Quest’anno poi è tornato Adalberto, il padre di Ketama, che fa con noi Polaroid. Così siamo uno in più. Il doppio sax è una cosa che avevo sempre sognato e che non ero mai riuscito ad avere. Finalmente ce l’ho fatta.
Quant’è bella la video art che ti hanno installato sulla testa. Quel caleidoscopio floreale. La dea alata con la pokeball in mano. Le emoji sul cielo di Roma. Potremmo andare avanti per due ore di concerto.
Quella è roba sgravata, sì. Calcola che è così tanta che devo ancora vederla tutta.
Immaginiamo un grande lavoro ben orchestrato di illustratori, grafici, animatori. A chi ne dobbiamo il merito?
Il lavoro per i visual è stato fatto da Zoo Agency.
Il segmento poliziesco del concerto accende il palco dei colori blu e rosso dei lampeggianti di una volante riflessi nei tuoi occhiali da sole, due lenti a goccia enormi che ricoprono tutta la superficie del maxischermo. Una tromba fa da sirena. E tu fai il torero, che un chitarrista cerca di incornare con il manico del suo strumento. Che performance!
Peffòmmance (imitando l’imitazione di Marina Abramović fatta da Virginia Raffaele, nda).
Un’opera d’arte totale?
Sì, la ricerca che abbiamo fatto è stata quella dello show. Se ci fai caso i momenti in cui uno parla sono pochi e saranno gli stessi del concerto. Tutto il resto è spettacolo.
Chi ci sarà con te sul palco di Capannelle?
Tararì, tararà, eccallà, eh eh eh, hula e hoop (ci dobbiamo autocensurare, nda). Sinceramente vorrei che fosse a sorpresa. Sì, a sorpresa deve essere, fico.
Le scelte tematiche e iconografiche dei video sembrano giocare su piccolo e grande, spostandosi a grande velocità dal bar dietro l’angolo allo spazio astrale. È questo il Carl del 2022? Uno che senza perdere di vista i dettagli comincia a pensare, se non all’universale, al superamento del particolare?
Assolutamente. La maturità parte dalle piccole cose e poi, a un tratto, cominci a intravedere un orizzonte, che è dove devi sempre cercare di arrivare.
Noemi torna puntualmente un anno dopo per un nuovo singolo estivo. Chi è Noemi vista e ascoltata da Carl Brave?
Super semplice. Normale. È una tipa qualunque, nell’accezione buona del termine. Ha una gran voce ma non se la tira per niente: è una persona del popolo.
Hula-Hoop prende le mosse dalla descrizione di un loop relazionale, della routine di coppia, con alti e bassi alternati così spesso che non li distingui più. Nel testo definisci la situazione in maniera severa ma giusta: la cosa più bella che ti può capitare, quando le storie vanno così, è che ti lascino lo stecco di liquirizia del Liuk mentre stai buttando l’immondizia. L’amore allora non è una linea, come quella che trovi sul palmo delle mani, ma un cerchio, una fidanzata che si morde la coda di cavallo. Per fortuna entrano in scena il mare, i caschi, la rottura della monotonia. L’amore estivo non sia più una fuga dalla coppia, ma un ritorno ad essa?
Sì, ma uno deve essere veramente innamorato per riuscirci.
Il videoclip è ambientato a Terracina per coerenza con il verso dedicatole nel pezzo, ma è girato nella tua Nettuno.
Assolutamente. Io ci ho casa a Nettuno. Io sono di Nettuno.
È lì il mare che ti definisce?
Sì, da sempre. A volte sono andato a fare il bagno a Grotte di Nerone (territorio della rivale località di Anzio, nda), dove c’è una spiaggia bellissima. Ma principalmente il mio mare è quello di Nettuno, anche perché ce l’ho sotto casa. E te?
Quello di Gallipoli, dove sarai tra l’altro col tour l’11 agosto.
Vabbè, mortacci tua. Però, attenzione: anche il mare di Nettuno è bello.
Dicono che questa canzone contenga un messaggio ecologista, forse per la monnezza che immaginiamo rigorosamente differenziata?
È chiaro, ovviamente.
E si parla anche di un messaggio animalista, soprattutto per la scena nel videoclip in cui si metaforizzano i rischi dell’abbandono del partner attraverso l’immagine del cane sul ciglio della superstrada. Sei uno che ha avuto o ha animali domestici?
Sì, ho avuto diversi cani e sono molto sensibile al tema. Se ci fai caso in un sacco di canzoni butto in mezzo il cane. Per esempio Spigoli, ma sono tantissime. In più ti posso rivelare che il cane che abbaia, a un certo punto della canzone, è il vero cane di Noemi, che condivide con me questa sensibilità. È stato un po’ un casino registrarlo, perché abbiamo beccato naturalmente un cane che non abbaia. Per farlo abbaiare ho dovuto citofonargli a casa.
Che cosa hai ascoltato ultimamente dal vivo?
Vasco al Circo Massimo e Cremonini all’Olimpico. Vasco è un mostro sacro e non c’è bisogno di dire le cose classiche perché, si sa, è Vasco.
Cosa ricorderai di quella serata?
Toffee valorizzata dai fiati, con sax e clarinetto. A me piacciono tantissimo i fiati e poi c’era un grande mood. La magia del pubblico impazzito.
E di quella con Cremonini?
Grande show. Fichissimo. Io stavo lì, stronzissimo, con l’orecchio teso a sentire se sbagliava e niente, non ha mai sbagliato. Secondo me oggi in Italia è Cremonini il più forte di tutti, come spettacolo. È un iper-pro: è quello che ti sa fare 20 o 30 minuti di piano e voce, col piano che va a fuoco, senza battere ciglio.
Se potessimo guardare tra le playlist del tuo telefono, che cosa ci troveremmo?
Classica risposta: mezzo tutto. Però posso anche dire: musica africana. È un segnale che sono in cerca di ispirazione per il sound. Per scrivere le mie basi solitamente viaggio. L’ultima volta sono andato in Marocco e ho preso una villa in affitto a Marrakech, dove ho invitato un po’ di musicisti di là, tutti coi loro strumenti e il loro tipo di suonata. Così escono fuori cose diverse. Se metti in una canzone pop, trap o techno il basso marocchino, che è a due o tre corde, ti esce sempre fuori qualcosa di magnato.
Adesso stai scrivendo?
Sì e ho anche un botto di roba da parte. Sono pronto per uscire. Sarei già pronto per uscire.