Essere Phoebe Bridgers è facile. «Amo la vita che faccio, cazzo», dice la 25enne californiana. «La gente chiede a mia madre se per caso è parente di Phoebe Bridgers. E lei lo adora. Poi mi dice: “Sai, ho promesso a quella coppia che avresti suonato al loro ballo di fine anno”, e io: “Oh, mamma, no!”».
Se Bridgers è diventata una delle cantautrici più apprezzate degli ultimi anni, è stato grazie a canzoni crude, introspettive e ancorate alla realtà dei ventenni. È il tipo di folk-rocker che ti fa venire giù una lacrimuccia mentre prepari il caffè la mattina. Quando non fa musica, però, è irriverente e divertente, soprattutto sui social media. («Se leccare il culo è sbagliato non voglio stare nel giusto» e «Dalle mie parti, i mercoledì sono la giornata del culo» sono alcune fra le sue uscite più memorabili).
Dal suo punto di vista non c’è nessuna contraddizione: «Nella mia musica c’è più umorismo di quel che la gente pensa. Non m’interessa diventare un personaggio pubblico e nemmeno nascondere aspetti di me stessa. Ho una personalità normale. Le canzoni, per me, sono come una terapia: sono una persona ordinaria, una che va dalla psicologa».
Bridgers è seduta nell’atrio del Ludlow Hotel di Manhattan. È una mattina di febbraio, ed è pronta a parlare del suo nuovo album Punisher. Sulla guancia ha un po’ di glitter che riflette il fuoco nel caminetto vicino tutte le volte che ride, cioè piuttosto spesso. «È una bella giornata a New York City», dice sorseggiando un tè alla camomilla. «Ho preso un po’ di roba gratis da Glossier, è stato fico. Poi ho ascoltato un po’ di bella musica passeggiando».
I temi chiave di Punisher, dice, sono piangere e sentirsi anestetizzati. Più o meno tutte le parole cantate nell’album si portano dietro un’intensa carica emotiva, da «non avresti potuto infilare la lingua nella gola di qualcuno che ti ama di più», in Moon Song, a «odio tua madre, odio quando apre bocca» nella devastante breakup song I See You. «Ho litigato con quella madre da Whole Foods», dice compiaciuta parlando dell’ex in questione. «Votava Trump».
Bridgers è cresciuta a Pasadena, in California, e ha passato un’infanzia che definisce «piena di esperienze felici». I suoi genitori hanno divorziato quando lei aveva 19 anni, ma anche gli anni precedenti non sono stati sempre facili. «Temo non sia un trauma tanto raro», dice, aggiungendo che da quel momento la sua vita è stata «traumatica come quella di qualunque altra donna».
Dice anche di essere molto legata al fratello minore, Jackson Bridgers, che porta il nome di Jackson Browne (Phoebe gli ha presentato il cantautore nel 2016, durante un suo concerto, quando il giovane Jackson andava in giro con il volto dipinto come gli Insane Clown Posse. «Pensava fosse divertente venire così ai miei concerti», spiega ridendo. «Io dicevo: “Questo… tizio… porta il tuo nome”»).
La musica è sempre stata una costante della vita di Bridgers. Ha preso lezioni di pianoforte incoraggiata dalla madre Jamie; a 13 anni ha capito che non facevano per lei ed è passata alla chitarra. Quando si è diplomata alla Los Angeles County School High School for the Arts, suonava in una punk band chiamata Sloppy Jane, e una delle loro canzoni è finita in una pubblicità della Apple. La cosa ha portato ad altri spot e alla fine Bridgers ha guadagnato abbastanza soldi da finanziare il suo debutto del 2017 Stranger in the Alps. «Pagavo l’affitto e andavo in studio ogni giorno come se fosse il mio lavoro finché, beh, è diventato il mio lavoro», dice. «Non ho nessun consiglio da dare a chi vuole fare la stessa cosa. Sono stata incredibilmente fortunata».
Alps è un tour de force di canzoni emozionanti e dirette, scritte con un livello di dettaglio che dà ai fan l’illusione di conoscere Bridgers, o addirittura di essere lei. («L’altra notte sono svenuta in macchina / mi sono risvegliata nel letto in cui sono cresciuta», canta in Funeral, uno dei brani centrali dell’album, «Speravo di essere un’altra, mi compativo / poi ho ricordato che a qualcuno è morto un figlio»). Dopo il debutto ha continuato con alcune collaborazioni, come i Boygenius con Lucy Dacus e Julien Baker e i Better Oblivion Community Center con Conor Oberst. Ha conquistato sufficiente notorietà nel giro indie da finire nella playlist di Taylor Swift, ma non è certo diventata una celebrità.
Lavorare con Oberst è stata una cosa grossa per Bridgers, che è cresciuta ascoltando la sua musica. «Non pensavo di essere alla sua altezza», confessa. «Ha cercato in tutti i modi di farmi sentire rispettata e ascoltata, ma ero intimidita». Nella maggior parte dei casi, però, i dischi che ha pubblicato dopo Alps sono di basso profilo. «Incontravo gente in giro e fondavo gruppi».
Ha passato molto più tempo a lavorare a Punisher, che ha registrato tra l’estate del 2018 e l’autunno del 2019. «Non sapevo davvero di cosa parlasse il disco, almeno fino a un anno fa. È come quando lasci qualcuno. Passano cinque anni e ti dici: oh, merda, ecco che cosa è successo».
Il nuovo album è pieno di momenti tipicamente alla Phoebe Bridgers. Savior Complex è un canto funebre straziante costruito su una melodia che le è arrivata in sogno. In Moon Song scava dentro il canone del rock: «Odiamo Tears in Heaven / Ma è triste che suo figlio sia morto», canta. «Litigavamo su John Lennon / Finché ho pianto».
«Odio il classic rock in genere». Ma ci sono eccezioni: «Amo John Lennon. È il Beatle migliore. È stato un’icona per molti dei miei eroi, come Elliott Smith e Daniel Johnston».
Halloween è una canzone perversa dove canta «Sono sicura che dici la verità / Quando sei ubriaco e indossi una maschera» accompagnata da un contrabbasso e da sintetizzatori sottili. La sua voce salta tra le ottave e dà i brividi. «Amo rendere tristi le feste», dice, «Non voglio parlare del Natale, perché l’hanno fatto tutti. Ma avevo una memo vocale sul telefono, l’ho registrata un anno in cui ero sola e cercavo dei campionamenti di Halloween, con i bambini che ridono in sottofondo. Per me ha un suono assurdo, strano».
Bridgers ha scritto Halloween nella primavera del 2017, il periodo in cui ha incontrato il cantautore Christian Lee Hutson, che è diventato un amico e collaboratore. «In pratica ci siamo innamorati», dice. «Credo che l’amicizia sia la forma d’amore più romantica, perché non ci sono strane aspettative». Ha prodotto il nuovo album di Hutson, Beginners – è la sua prima produzione –, e l’esperienza l’ha preparata a produrre Punisher con Tony Berg ed Ethan Gruska, i collaboratori con cui ha lavorato a Alps. «Credo che siano la mia vera band. Quando suonano, sento me stessa».
Berg – un session man, chitarrista, produttore e veterano dell’industria discografica che ha lavorato a dischi di Aimee Mann e Peter Gabriel – ha convinto Bridgers a velocizzare Kyoto, una ballata che ha scritto durante il suo primo viaggio in Giappone. È diventata la canzone più movimentata del disco, con un arrangiamento che va dai fiati al mellotron. «Mi hai chiamato da una cabina telefonica / Lì ne hanno ancora», canta. «L’ho inventato», dice orgogliosa quando le chiedo di spiegare quel verso. «Non ho neanche cercato su Google».
Bridgers dice che Punisher è il suo disco più collaborativo. «Sono io a decidere tutto, quindi posso invitare una persona a suonare il tamburello, se mi sembra divertente», dice. Oberst canta i cori in due canzoni, mentre Dacus e Baker armonizzano al banjo nella splendida Graceland Too. «Sono influenzata da tutta la loro musicalità», dice delle colleghe di Boygenius. «Le amo, sono vere amiche».
La pandemia che ha colpito il mondo tra la registrazione e la pubblicazione di Punisher ha cambiato i piani di Bridgers. I See You si intitolava ICU, ma ha dovuto cambiare il titolo per paura di sembrare insensibile (in inglese ICU sta per Intensive Care Unit, cioè la terapia intensiva, ndt). A parte questo, è difficile sapere quando partirà in tour, ma questa settimana inizierà una serie di concerti virtuali nella sua casa di Los Angeles. Tra le location previste ci sono “Il Bagno” e “Il Letto” (Bridgers ha annunciato l’evento come al suo solito, con un video sfacciato).
Quando partirà per il vero tour, suonerà di fronte a una delle fanbase più appassionate al mondo. «Mi piace ascoltare canzoni che dicano esattamente come mi sento», dice. «Quando ne trovo una, mi dico: porca puttana, ce l’hanno fatta. Spero di fare lo stesso effetto con le mie».