«È un nuovo capitolo della mia carriera», dice Questlove di Summer of Soul, il documentario nel quale ha reinventato il concert movie. Il suo debutto da regista, che messe assieme performance leggendarie e inedite di Stevie Wonder, Mahalia Jackson, Nina Simone e B.B. King e alcune importanti lezioni di storia nera, è stato uno dei film musicali più apprezzati del 2021 e molto probabilmente si giocherà l’Oscar (è entrato nella cinquina finale dei documentari). Il 28 gennaio uscirà l’album con la colonna sonora e Questlove sta già lavorando al seguito, dedicato alla storia di Sly and the Family Stone.
Non è che l’inizio di una nuova carriera che ha inaugurato a 51 anni e che prevede altre produzioni. «Al momento ci sono sei progetti in campo, mi terranno impegnato fino al 2032», dice. «C’è una fila di persone che mi chiede di raccontare la loro storia con lo stile che ho usato nel film».
Ti preoccupava la reazione dei giovani a Summer of Soul?
La prima cosa che mi sono domandato – e non mi era mai successo per un album, un concerto o un’altra delle cose che ho fatto nella mia vita – era proprio: per chi lo sto girando? Sapevo che i baby boomer avrebbero apprezzato. E i millennial vanno per i 40. Un pubblico c’era, insomma. Con la gen Z, però, andavo alla cieca. A un certo punto ho persino pensato di contattare Drake, mi segue su Instagram e poteva raccontarmi di quando suo zio ha suonato il basso per Sly Stone. Un tentativo disperato.
Poi è successa una cosa assurda, ovvero la vita dopo marzo 2020. Non riuscivamo a capire la differenza tra quello che avveniva davanti ai nostri occhi e il 1969, tra George Floyd e i filmati del periodo. All’improvviso ho capito. Non dovevo compiacere la generazione Z, perché loro vivono esattamente nelle stesse condizioni. E quella storia si è raccontata da sé. Per questo film il tempismo è stato tutto. Tutto.
Joshua Pearson, il montatore, ha detto che il ritmo del film è influenzato dal team di produzione Bomb Squad. Sei d’accordo?
Prima di ogni disco dei Roots ho sempre pensato che quello sarebbe stato il nostro tributo alla Bomb Squad. E alla fine non è andata così. Per questo film ho deciso di fare una cosa normale, così il secondo – quello su Sly and the Family Stone – sarebbe diventato il mio A Nation of Millions, quando spingerò sul serio sull’acceleratore.
Poi, quando abbiamo finito di girare, il produttore Joseph Patel mi ha detto: «No, è un po’ radicale, come A Nation of Millions». Io mica l’avevo capito, tutti parlavano di quanto fosse frenetico il montaggio. A me sembrava normale perché sono cresciuto con la Bomb Squad, con l’idea di mettere trenta sample in una canzone.
Una volta ti sei bendato per suonare la batteria come Stevie Wonder e all’inizio del film c’è un suo assolo. È una specie di tua “firma”, no?
Anche in questo caso è una questione di tempi. Il 16 marzo 2020 è una data fondamentale per questo film. Tutte le opzioni erano sul tavolo. Non c’erano più Harry Belafonte, i Chambers Brothers o Mavis Staples, niente. E io avevo quasi deciso di fermare il film, di farlo per il 55esimo anniversario dell’Harlem Cultural Festival. Pensavo: forse è meglio congelare tutto finché non finirà questo disastro? Ma tutti mi dicevano di persistere.
Poi sono andato in una fattoria con la mia ragazza, ospiti di alcuni suoi amici. E la loro famiglia mi ha dato dei consigli. Il patriarca, David Zander, mi ha chiesto: «A che punto sei con il film? Come faccio a capire che è un progetto di Questlove e non una cosa alla Ken Burns?». Mi è venuto in mente quanto fosse grandioso il filmato con quel solo. Così mi sono detto: ok, è così che il film diventerà mio, è così che farò sentire la mia presenza.
Prima dell’Harlem Cultural Festival, qualcuno aveva ripreso un festival con gli Isley Brothers allo Yankee Stadium. Lo conosci?
Già prima di lavorare a questo film cercavo continuamente su YouTube performance precedenti al ’79. Ero convinto che ci fossero almeno un centinaio di concerti ben documentati, ma in realtà c’è pochissimo. E sì, ci sono filmati di quel concerto. È un progetto di cui si sta discutendo, mi hanno contattato.
Doc Severinsen (direttore d’orchestra al Tonight Show per trent’anni, ndt) ha avuto successo come musicista, ma non ha mai girato dei documentari come te. Arriverà un momento in cui il tuo lavoro con i Roots nello show diventerà incompatibile con la tua vita? Oppure continuerai così per sempre?
Niente è per sempre, ma al momento non è d’ostacolo alla mia creatività. Non mi sento neanche parte del programma, mi sento più uno studente al college di 30 Rock. Cerco di non sprecare neanche un secondo, cerco sempre di imparare. Quando SNL è in onda sono sempre da quelle parti, all’ottavo piano del palazzo. Ho chiesto un miliardo di volte a Steve Higgins se potevo fare lo stagista. È affascinante vedere come si muove la macchina. Mi piacerebbe restare nei paraggi finché non arriverà il momento di…
Sai, tutti devono fare scelte del genere. Ai Roots è capitato nel 2008, ti fa pensare: aspetta, dovrei mollare tutto questo e fare un salto nel vuoto?
Beh, io sono uno spirito libero. La curiosità è la mia stella polare. Adesso ho un gatto, magari mi metterò a fare il veterinario. Non lo so!
Hai scritto di com’è stato fare il dj in una festa post presidenza Obama. Hai lavorato di brutto a una playlist con un significato storico, poi però il presidente in persona ti ha detto di suonare qualcosa per far ballare i bambini. Come l’hai presa?
«Suona musica di questo secolo!» (ride). Capita di venire criticati. Sta a te capire se vuoi ascoltare. Non avevo mai lavorato così tanto a un progetto, pensavo che fosse perfetto e invece è stato un fallimento completo. Ho smesso di fare il dj per otto mesi. Ero depresso. Avrei potuto irrigidirmi, dire che sono Questlove e so quel che faccio. Oppure potevo ascoltare. E ho ascoltato chi mi diceva che non potevo buttare la mia carriera di dj per una serata storta. A volte, quando incontriamo un pubblico che non riusciamo a capire, tendiamo a ignorarlo finché non è troppo tardi. Io pensavo di avere paura dei bambini. Così ho deciso di fare dj set solo per loro e per i loro genitori, il sabato pomeriggio.
Come immagini il documentario su Sly and the Family Stone?
Ci sono tante possibili strade. Per come la vedo io, Sly è il primo artista tormentato. Era come se volessero mettere un quadrato in un cerchio. È iniziato tutto in modo strano. Quando montavamo Summer of Soul, ho capito che dieci giorni dopo [la performance del 1969 inserita nel film] ci sarebbe stato Woodstock e la sua vita sarebbe cambiata. Sarebbe diventato un dio e avrebbe vissuto due anni terrificanti. Noi parliamo di There’s a Riot Going On (il disco del 1971) come di un capolavoro. E sì, ha cambiato la musica. Ma per me è anche il primo reality show. Ascoltarlo è come vedere una persona che crolla. C’è chiaramente qualcosa di sbagliato, ma lo ignoriamo perché la musica è grandiosa.
Nascondere le emozioni nell’arte non è una novità per i neri. E credo che il film risponderà a molte domande che ci facciamo sugli artisti, ancora oggi. Vi farà capire perché hanno mollato presto, perché sono spariti, perché ci sono voluti vent’anni per scrivere il seguito. Vi racconterà perché gestivano il tempo in maniera folle, perché si drogavano. È questo quello che voglio raccontare. Voglio umanizzare quella storia.
Ne hai parlato con Sly?
Il progetto mi ha attirato proprio perché la sua intervista era già pronta. C’erano quasi sette ore di girato. Lui parla in maniera chiara e concisa, rivela molte cose che non sapevo, come quant’è stato influente il periodo in cui faceva il dj nella Bay Area.
Sono passati sette anni dall’ultimo album dei Roots. A che punto è il prossimo?
Richard Nichols, il nostro manager e produttore, era una via di mezzo tra George Martin, Brian Epstein, Peter Grant, Suge Knight e Dr. Dre. Era il massimo. Dopo la sua morte nel 2014 non mi sentivo molto creativo. Il suo ultimo lavoro è stato proprio un disco dei Roots. All’epoca mi andava bene così, 16 mi sembrava un bel numero e pensavo che mi sarei dedicato ad altro.
Rich era un maestro in una cosa: ci faceva capire quando arrivava il momento di fare un maledetto disco. Al momento ci sono qualcosa come 700 idee in cantiere. Alcuni pezzi sono finiti, altri sono a metà. Ma insomma, come si fa a scegliere i 14 pezzi irrinunciabili? Ho promesso al mio manager che dopo il 31 dicembre non avrei tirato fuori nuove idee. A gennaio faremo il mix e credo che uscirà a metà del 2022.
So che adori Get Back, il documentario di Peter Jackson sui Beatles. È difficile non pensare a quante altre storie si potrebbero raccontare in quel modo, non credi?
La cosa più bella del documentario è che ti fa capire che la creatività si sviluppa grazie alle vecchie idee. Quando ho fatto Voodoo, il disco di D’Angelo, la prima cosa che abbiamo fatto è stato pensare ai dischi di Prince. Ci siamo messi a suonare i suoi pezzi, poi qualcuno ha detto: «Aspetta, rifai quella parte». Poi cambi la tonalità, la rallenti un po’ e nasce una nuova canzone.
Paul McCartney lo fa di continuo nel film. Suona i vecchi pezzi dei Beatles e le cose di Tin Pan Alley. John Lennon invece prova Little Richard e Chuck Berry. Ed è importante che il mondo lo veda, perché si dice sempre che l’hip hop non è vera musica, ma rielaborazioni di cose che esistono già. Ecco, abbiamo appena visto i Beatles che fanno la stessa cosa per nove ore. Quello è hip hop. Usano altre canzoni per trovare idee e scriverne di nuove. Insomma, il documentario è la prova che la band più amata del mondo faceva quello che hanno sempre fatto Pete Rock, DJ Premier e J Dilla: prendere vecchi dischi e trasformarli in qualcosa di nuovo. Non esiste lezione più importante.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.