Amore doni, amore vuoi, il disco d’esordio di FORTE, si apre con Fiumi negli oceani. E lo ammetto: quando ne ho sentito l’attacco per la prima volta ho tirato un respiro profondo. Pensando: oddio, che palle, ecco l’ennesima copia di Anima latina. Invece no: Lucio Battisti resta il crocevia già solo per il cantato, è vero, ma i riferimenti qui sono più vari e personali di quanto si percepisca all’inizio. Del resto, «Anima latina è l’LP più coraggioso che l’Italia abbia mai conosciuto», dice lui a Rolling Stone. «Preferisco quel tipo sperimentazione, non commerciale, alla perfezione della forma canzone degli altri dischi con Mogol. Ma quello che ho cercato di fare, stavolta, è mischiare la sua influenza con il resto della musica che ascolto».
E quindi i Tame Impala, e quindi i Dalla e De Gregori degli anni d’oro, e quindi il folk più o meno pop, con tentativi di guardare in Inghilterra. Che tradotti significano: giri d’accordi accoglienti rafforzati dal pianoforte, chitarre acustiche in bella mostra, fiati, melodie rotonde, ritornelli ariosi. Farsi un giro su Benjamin – terzo singolo estratto, di cui qui sotto trovate in anteprima la clip, a firma di Chiara Vantaggiato – per rendersene conto. Nel video si vede una marionetta “umana” infortunata, che però è costretta a esibirsi lo stesso. «Finché addirittura non si scopre che la platea è vuota. Per chi lo fa? Per nessuno. Infatti il pezzo parla di arrivismo e solitudini: ci riempiamo di ambizioni, vogliamo andare lontano; ma magari la felicità è stare al bar con due amici, piuttosto che diventare la rockstar che sognavi di essere da bambino».
Ecco: lui (che all’anagrafe si chiama Lorenzo Forte) è uno che, questo atteggiamento, l’ha sposato in pieno. Restandosene in disparte a lungo. Salentino classe 1988, si è avvicinato alla musica con una vecchia chitarra, e nella testa i Nirvana e i Radiohead. Un po’ strano come trascorso, visto il presente. «E dire che ho avuto due band rock. Solo recentemente mi sono riscoperto cantautore». Nel dubbio, adesso si cambia. Come ribadisce anche uno dei pezzi del disco, Disco Agnelli, una ballata bucolica in cui, in coda, ciò che rimane sono “tutti i tuoi fottuti dischi di Manuel Agnelli”. «Sempre stato fan, eh! Ma dopo anni a scrivere a mo’ di Afterhours, con questo progetto ho preso le distanze dal passato. Del resto più si cresce e più è difficile suonare in un gruppo, incastrare gli impegni di tutti». Cioè il lavoro: FORTE, che dalla provincia di Lecce non se ne è andato, nel quotidiano gestisce una piccola azienda di macchine del caffè, con tempi flessibili per potersi dedicare alla musica. Riflette: «Vivendo qui, sono distante dal cuore della musica, cioè Milano. Mi relaziono con addetti ai lavori che non ho mai visto in faccia; se vivessi in Lombardia sicuramente sarebbe più facile emergere».
Ma anche Amore doni, amore vuoi, alla fine, sarebbe profondamente diverso da com’è. La struttura è cantautorale, ma l’abito è folk ed elettronico, mentre i sintetizzatori colorano di pastello uno sfondo ovattato e rétro, senza chitarre elettriche né psichedelia. A eccezione dell’intima (e abbastanza classica) Anni, la visione cosmica à la Anima latina si unisce all’influenza rupestre della “terra” di un altro Battisti insolito, quello de Il nostro caro Angelo. “Luce”, “sassi”, “l’inverno”. La natura, le stagioni. «Porto dentro il Salento e i suoi paesaggi: il disco non può che risentirne», ci spiega. «Ma se i Sigur Rós fossero di Copertino, come me, non farebbero la stessa musica». Certo nel suo caso il cordone che lega alla tradizione italiana è spesso: Mia si mette nella scia del Giorgio Poi di Fa niente (e della sua Tubature, soprattutto), per la capacità di mischiare echi alternativi (la voce sottile, ovviamente à la Lucio) a melodie micidiali; Be.Bo, invece, si muove dentro il cantautorato pop di Diodato e Tommaso Di Giulio.
E poi i testi: vaghi e puntiformi, quadretti astratti che raccontano languori, flash, relazioni, malinconie. In Testo sdolcinato, seguendo Brunori Sas, si chiede “di che cazzo vuoi cantare”, se non di sentimenti. Sarà. Ma le canzoni d’amore sono un’abitudine, una scorciatoia o una necessità? «Una necessità, perché è attraverso l’amore che viviamo i momenti più felici e più tristi. E i pezzi che lo raccontano sono così: o dei capolavori, o dei brani bruttissimi». Tra l’altro, il pezzo in questione ha anche un finale a sorpresa. Un colpo di scena, diciamo, che lo accomuna a un altro dei figli nobili di Anima latina: L’amore non è bello di Dente (2009). Con quel disco – che negli arrangiamenti era più acustico, va detto – FORTE condivide l’atmosfera soffusa, lo sguardo disilluso sulle relazioni, il sorriso a 32 denti, sì, ma rigorosamente disincantato. E i giochi di parole.
Per esempio la conclusiva Sanremomai, un folk sporco da cameretta che strizza l’occhio al lo-fi, ammicca ambiguamente al festival. Almeno in superficie: sotto, in realtà, è la solita visione tipica di questo esordio, coi piani narrativi e le sensazioni che si incrociano, fra passato, presente e futuro. «È un pezzo rivolto al me adolescente», ci spiega lui. «Da giovane sei stupido, comunque pieno di ideali ma snob. E quindi sì, dici “fanculo Sanremo”, non ci andrò. Poi maturi, cambi idea. Ci ripensi, ti riguardi indietro e vedi quanto sei cambiato. In tutto». Per esempio, nel fatto che lui a trent’anni ha sconfessato Manuel Agnelli e si è messo a fare il cantautore spigliato all’ombra di Anima latina. A saperlo prima, certe volte.