Non c’è miglior produttore di quello che scrive canzoni, arrangia, dirige, mette soldi, sudore e cuore nei progetti. È il caso di Mauro Paoluzzi, uno che ha fatto la storia della musica “trasversale” italiana, celebre per i sodalizi con Roberto Vecchioni, Gianna Nannini, Mango. Ha mescolato tradizione e nuove tendenze, a volte anticipandole, a volte venendo derubato del suo lavoro. Non si è mai arreso alla logica del mercato. Di questo e di altro abbiamo parlato in una chiacchierata telefonica schietta e romanesca, come le sue origini.
Quando hai iniziato a collaborare con Roberto Vecchioni?
Nel 1974. Abbiamo fatto venti album, sono trent’anni di vita. All’inizio ero imbarazzato, perché suonavo la batteria d’istinto. Allora ho fatto il conservatorio, armonia e composizione, insomma mi sono messo a livello. I turnisti già mi criticavano, quelli so’ peggio dei portieri der palazzo (ride). Dopo il successo di Samarcanda, che ho impostato da solo, mi sono arrivate altre proposte come la Nannini nel ’79, con California. Abbiamo fatto America.
Dentro gli occhi di Vecchioni secondo me è un manifesto della new wave italiana, come anche Wagon-Lits della Nannini, anche quello un brano tuo.
Eh, ma lo sai che è? Che io avevo preso Vecchioni come una cavia, per fare esperimenti che poi comunque hanno giovato anche a lui. Quei dieci anni di cantautorato ci hanno massacrato i coglioni, non se ne poteva più de ‘sti tre accordi e quattro milioni di parole. Quando ascoltavamo la musica che arrivava dall’America o dall’Inghilterra non è che capivamo quello che dicevano, per cui eravamo attratti dall’impatto sonoro. E stare lì due ore e un quarto a sentì uno che ti spiega come vivere e perché quelli so’ cattivi e noi siamo i bravi e tutte ‘ste cose da compagnucci… Io alla fine con tutta la buona volontà nun ce la facevo. Cioè Guccini, con tutto il rispetto perché ha scritto cose pazzesche, però a sentire un disco intero di Guccini rischi la pelle sull’autostrada.
Tu hai aiutato Vecchioni a svecchiarsi e c’è stato una sorta di passaggio di testimone generazionale tra lui e la Nannini.
Ma infatti, il testo di America della Nannini è di Roberto. C’è stato un transfer di emozioni tra musica e parole, però devo dire che le cose che abbiamo fatto insieme io e Roberto, tipo Gianna o Anna Oxa, perché nel disco omonimo della Oxa dell’85 i testi erano suoi e gli arrangiamenti e i pezzi erano miei, hanno sempre funzionato. Ma sai che non volevano fare uscire America in Italia?
Non mi stupisce.
Erano tutti contro, la guerra proprio… Gianna ha fatto un’apertura a Guccini a Bologna che le hanno tirato di tutto, c’era il supermercato sul palco. Poi invece i tedeschi hanno sentito il pezzo, è piaciuto, l’hanno fatto uscire ed è entrato in classifica in Germania. A quel punto la Ricordi si è convinta a pubblicarlo in Italia.
Quand’è che vi siete conosciuti? Com’è veramente la Nannini?
Gianna aveva già fatto due dischi che erano stati prodotti da Claudio Fabi, che poi è il papà di Niccolò Fabi. Ed erano due dischi legati un po’ troppo alla politica: perché lei era femminista, aveva questa rabbia addosso per via del suo trascorso con il padre con cui ha avuto un brutto rapporto, e allora scriveva tutte cose così. Ho sentito Gianna grazie a Michelangelo Romano, che me l’ha portata e all’inizio era il produttore di Vecchioni. Mi è sempre piaciuto Rod Stewart e il timbro di voce di Gianna mi ha fatto sussultare: «Cavoli, si possono fare le ballad rock tipo Rod Stewart!». Era una voce la sua che veniva da dentro, dal cuore, ti colpiva subito. E allora da lì abbiamo preso una strada che lei si è portata avanti fino ad adesso.
Ma tu sei anche responsabile di un disco molto fico che pochi conoscono, a nome Pangea: Invasori del 1976.
Oddio, hai tirato fuori una cosa molto personale. Quel disco l’ho fatto con i Madrugada, un gruppo prog con cui avevo fatto due album e che ho chiamato a suonare anche nel mio disco. Che in realtà è stato pubblicato solo dopo 25 anni. Me l’hanno fatto fare quasi come un contentino, perché il presidente della Phonogram di allora, poi PolyGram, era Il Guardiano del Faro, visto che io volevo fare una cosa da solo, mi ha fatto sfogare. Ero attratto dai Gong, Zappa, Mike Oldfield.
Eri orientato alla cosmic music…
Sì, esatto. E i testi erano di Vecchioni. Era un concept album, la storia di un uomo e una donna ai tempi in cui il mondo era tutto attaccato, la Pangea appunto. Con la la separazione dei continenti rimangono uno in un continente e una nell’altro, tipo uno in Africa e l’altra in Brasile. Per cui in tutto l’album c’è lui che va per il mondo a cercare lei, con varie contaminazioni musicali a seconda di dove va.
Il disco è molto bello e ha uno stile produttivo che poi va a finire anche in Faust’O e nei Decibel. Tu hai prodotto entrambi, giusto?
C’era Caterina Caselli che voleva fondare una sua etichetta e cominciava a staccarsi dalla CGD. Fece questa Ascolto e mi aveva affidato Faust’O e Fanigliulo, quello che cantava A me mi piace vivere alla grande. Ecco, io con Fausto mi sono trovato benissimo, poi lui era un fan dei Talking Heads che a me piacevano tantissimo: lui era un tipo, complicato, difficile, ma è una cosa a cui sono abituato, ho sempre lavorato con gente strana, e lui artisticamente era davvero un faro, che pochi hanno goduto perché era un po’ introverso. Però i dischi erano belli, coraggiosi. I Decibel invece li ho fatti con Shel Shapiro e Sandro Colombini che avevano la Spaghetti Records, una sottoetichetta della RCA, la stessa dei Judas. Anche in quel caso album sperimentale, di ricerca: belle esperienze. Ma poi io sono sempre stato in mezzo alle cose sperimentali e sono affezionato agli sconosciuti, agli esordienti.
Ecco, ad esempio io sono un grande fan di Enrico Nascimbeni, penso che il suo Hotel Costarica, del quale tu sei l’arrangiatore, sia stato sottovalutato dalla critica.
Enrico era molto influenzato da Vecchioni. Il padre era un editorialista per cui a tavola mangiavano notizie e letteratura, tutto il giorno. E infatti devo dire che scriveva bene.
Infatti poi ha seguito le orme paterne, se non erro.
Sì, anche lui era diventato giornalista. Ha seguito tutto Mani Pulite al tribunale di Milano, stava sempre là. Io con lui come produttore ho fatto due album, però erano l’ombra di qualcosa che già esisteva. Non c’erano grosse particolarità, lui cantava in punta di piedi, non era uno di rottura. Per cui aveva questa sorta di perbenismo che se sul piano estetico era bellissimo, perché era nobile il disco di cui parli, aveva però poco impatto sul piano performativo. Un minimo di mordente ci vuole sempre.
Hai prodotto anche il primo album dei Bluvertigo Acidi e basi…
Quando sono venuti da me, i Bluvertigo non esistevano. Si chiamavano Golden Age e facevano un genere tipo Depeche Mode, Tears for Fears, roba così. Me li portò Bruno Tibaldi, che era il direttore generale della PolyGram e li aveva sotto contratto con quel nome. Sono venuti da me Andy e Morgan e mi hanno fatto sentire le demo di Acidi e basi. Mi sono piaciute tantissimo. Dico però: che ce famo con un disco così in inglese? Perché i testi originali erano in inglese. Capirai, appena metti il naso di fuori subito partono i paragoni, non vi ascoltano neanche. Se fosse in italiano sarebbe bellissimo, perché manca qualcosa del genere. E allora Morgan lì è stato fortissimo, aveva 22 anni e in una settimana ha cambiato tutti i testi in italiano. Avevo un’ etichetta che si chiamava Le Cave, e il disco è uscito così, prodotto da Le Cave e distribuito da Sony. E devo dire che lì mi sono un po’ rovinato, perché con questo fatto che ho questa malattia per gli esordienti…
Ci metti tutto te stesso…
Ma lo sai perché ce l’ho questa malattia? Perché io ho sempre invidiato, in modo chiaramente positivo, il modo in cui facevano emergere le band in Inghilterra. Quando uscivano band mai sentite prima sembrava che tu ti fossi perso qualche cosa: sempre questa sensazione, che ho avuto con gli Oasis, coi Blur, con tutti. Uscivano e sembravano già famosi: e invece non era così. Gli inglesi sono talmente bravi a impostare la comunicazione che alla fine sembra che sei tu ad essere indietro. Allora questa cosa qua io l’ho applicata su un sacco di storie: una di queste erano i Bluvertigo. E a loro gli ho fatto fare una cosa che era prassi al Piper a Roma, quella di suonare 15 giorni fissi in un locale. Negli anni ’90 oramai non si usava più e allora mi sono messo d’accordo con Paolo Jannacci perché lui ed Enzo avevano questo locale a Milano che si chiamava il Bolgia Umana, e là ho capito la forza dei Bluvertigo.
Ossia?
Loro sono andati a suonare e i primi tre giorni c’erano tre o quattro persone in quella discoteca. Dieci giorni dopo invece c’era la fila fuori. E lì allora ho speso per metterli in apertura agli Oasis, gli ho fatto fare due showcase a Milano, ho invitato tutti i giornalisti. All’epoca c’era MTV che andava da paura e abbiamo fatto due video, ho comprato gli spazi radio, sui giornali, tutto quello che potevo fare, e loro dopo un po’ erano sulla bocca di tutti. E io ero contento di questo, soltanto che mi sono rovinato economicamente: perché la Sony, che doveva aiutarmi, non lo fece. Perché sono stati loro a farmi aprire l’etichetta, io fino a quel momento facevo arrangiamenti, produzione, e non stavo pensando a fare il discografico, non ci penso neanche adesso. Però Franco Cabrini mi diceva: «No Mauro, tu fai quello che devi fare, lavora come lavori, poi ci pensiamo noi». Nel momento del bisogno sono spariti. È stata una delusione grandissima, però i ragazzi hanno avuto successo. Io poi li ho liberati dopo il primo disco perché non ce la facevo da solo, e poi è andata come è andata. È stata comunque una grande soddisfazione sul piano artistico.
E com’era lavorare con l’esordiente Morgan?
Marco era geniale. Lui praticamente a 22 anni era già laureato e musicalmente era un pozzo di scienza: a parte che suonava tutto, aveva un sacco di idee, tutta roba sua, era mostruoso. Io l’ho seguito come produttore esecutivo, ma a parte una volta che abbiamo avuto un battibecco su una scelta di una cosa, io non potevo dire niente: perché era talmente tutto giusto… Non era così fuori di testa come adesso, era molto più tranquillo, anche se aveva subito un dolore enorme perché il padre si era suicidato proprio in quel periodo là. Per cui la madre mi chiamava tutti i giorni dicendo: «Mi raccomando, per Mauro lei è come fosse il padre, lo ha sostituito». E io pensavo «oddio». In effetti Marco mi stava sempre vicino. Lui ha la sua natura, insomma lo conosciamo, ha avuto varie vicissitudini. Ma musicalmente è molto forte, per cui lavorare con lui era una pacchia. Ma guarda che io con i tipi come Marco mi trovo, eh, non perché io faccio l’assistente sociale, ma perché sono geniali, per cui c’è sempre qualcosa che ti arriva e che non ti aspetti. E questo mi piace tantissimo.
Anche la Nannini era così agli inizi?
Gianna è uno tsunami. Un giorno insieme a lei è come una stagione a scuola, stessa cosa. È un giorno lunghissimo, perché Gianna è sempre in movimento, ma è un’agitazione positiva la sua, si entusiasma in continuazione: è una donna che vive di emozioni. Ma quello da sempre, quando abbiamo fatto California eravamo tutti contenti perché sentivamo che avevamo tirato fuori qualcosa che non c’era. Poi ho fatto Latin Lover, Primadonna. Ho fatto tre album insieme a lei, poi è venuto Conny Plank che faceva da produttore. Sai che c’era Annie Lennox che suonava le tastiere e il pianoforte in Latin Lover?
Sì, certo.
Ancora non era con gli Eurythmics, ma con i Tourists, che avevano fatto uscire una cover di un brano inglese, I Only Want to Be with You. Lo cantava lei ed era stato un successo. Poi un giorno, dopo un mese che stavamo lì al Castello di Carimate, in studio – lei abitava lì insieme a Gianna nel piano di sopra – mi fa: «Mauro, vieni che ti faccio sentire una cosa». E mi ha portato su, mi ha messo le cuffie e ho ascoltato questa cassetta. Era il primo disco degli Eurythmics, In the Garden, che lei non aveva fatto sentire a nessuno. E quando lo sento dico: «Wow! È fortissimo, ma chi è che canta?». Si è incazzata: «Come chi canta?! Sono io!». E io: «Ma smettila, è un mese che te sento che fai la voce guida a Gianna, non l’ho mai sentita ‘sta voce». E allora lei si mette a cantare. Le faccio: «Ma allora perché hai cantato male tutto il mese?». E lei risponde: «Per non farmi riconoscere». Pensa che roba! Io ho avuto con Annie quell’esperienza e poi un’altra al pianoforte. Le avevo portato tutte le parti dei brani di Latin Lover, perché gli arrangiamenti erano miei, tutte le stesure: e ha strappato tutto, tutti i fogli. Ci sono rimasto male e lei: «No, è che così non riesco a suonare». Oh, ha riscritto tutto a grappoli, perché lei veniva dalla musica classica quindi leggeva tutto come si scrive la musica, era molto preparata.
A proposito di interpreti e autrici femminili, tu hai lavorato con Loredana Bertè, Patty Pravo, Nada. E anche Giorgia Fiorio, anche lei piuttosto sottovalutata, una voce molto particolare.
Giorgia l’abbiamo fatta in Germania nel 1986, con due brani che aveva dato Giorgio Moroder. Con lui sono stato in causa ben dieci anni, perché mi ha rubato Take My Breath Away, hai presente la canzone di Top Gun?
Certo, cantata dai Berlin. Ma davvero te l’ha fregata?
Sì, era mia, la cantava la Vanoni. Stavo facendo una cosa con Ornella, era una commedia musicale e c’era questo pezzo qua, senza testo. E lui l’ha sentito proprio a Monaco, quando stavamo facendo il disco di Giorgia. Dopo tre mesi è uscito il film con questa musica e io non capivo, mi dicevo: ma come è possibile? È stata proprio Ornella a chiamarmi e a dirmi: «Mauro, quel pezzo dobbiamo toglierlo, l’ho sentito alla radio ed è uguale». Io compro il CD, vado in studio lo metto su e dico… Cristo, è uguale! Chiamo Ornella: «Orne’, non so che è successo, sarà stata la telepatia, ma hai ragione, è identico». Poi invece vado a vedere i credits e quando vedo il nome di Moroder capisco tutto. E da lì in poi la Warner gli ha fatto causa: dieci anni. Ci hanno dato ragione per il plagio all’80%, con fior fiore di perizie perché c’era Morricone, Malipiero, i migliori. Alla fine però io non ho visto niente e lui invece ci ha guadagnato tipo 27 miliardi e ci ha vinto anche l’ Oscar. È probabile che si siano messe d’accordo le edizioni tra di loro e a me m’hanno preso a calci. Perché comunque è stata una cosa lunga e mi dicevano sempre «andiamo bene, andiamo bene», ma alla fine più che altro sono andati bene loro.
In pratica quel premio è tuo.
Sì, l’Oscar… dabagno (ride). Diciamo che lui è ricco, ma io ho vinto. Perché io penso al denaro solo per vivere, ho un rapporto pessimo con i soldi peraltro. Ma mi ha dato molto fastidio l’assenza di considerazione, perché Cristo, hai avuto un successo della madonna, ma almeno qualcosa no? Tanto lo sai che me lo hai rubato, perché la cassetta è rimasta lì a Monaco.
Oramai fanno tutti così…
Guarda che Moroder ha un’assicurazione sui plagi, ma ti rendi conto? Quindi lui sta tranquillo, tanto non paga lui! Me l’ha confessato di persona, pensa che sfacciato. Ti ricordi Flashdance, il pezzo What a Feeling? Gli ho detto: «Scusa Giorgio, ma quella frase là, quella dell’inizio, non è il ritornello de I giardini di marzo di Battisti?». E lui mi risponde: «Non solo, l’inciso è di Tom Jones, She’s a Lady». Ammazza, aò! Bravissimo a fare il patchwork, per carità, però di base è un ladro. A me mi ha solato e ciao.
Oggi cosa ascolti? Cosa ti piace della roba nuova?
Quando sento qualcosa di particolare in cui c’è qualcosa da imparare la ascolto volentieri, ma altrimenti sono un nostalgicone: Beatles, Ramones, Pink Floyd, vado a momenti. Ma sono anche molto concentrato sui giovani, perché secondo me sono trattati molto male. Adesso sto lavorando con questi ragazzi di Roma…
I Deshedus, giusto (hanno partecipato a Una voce per San Marino con Tony Cicco e Alberto Fortis, ndr)?
Sì, esatto. Hanno una media di 21, 22 anni. Il batterista e il bassista hanno 18 anni per dire. Però fanno prog, per cui è già una cosa pazzesca. Sono bravi, suonano da paura e con loro ho fatto quest’evento importante a Cinecittà World a numero chiuso, durante l’esplosione del Covid: è stato il primo cineconcerto olografico, per cui loro interagivano con tutto il racconto visivo entrando e uscendo dalle immagini, una cosa bellissima. In chiusura c’era Morgan con Andy, e i ragazzi hanno avuto più successo di Morgan, perché nessuno si aspettava una cosa simile. Ed era quello che io volevo: fare successo con un qualcosa di sconosciuto, ci provo sempre. Mi sono dissanguato, perché non ti aiuta nessuno quando devi fare una cosa nuova, però mi piace il fatto che questi ragazzi escano fuori piano piano. Sto lavorando anche con Ilaria Argiolas, che è il pallino di Red Ronnie che la chiama sempre in trasmissione. È un rock romano tipo Gabriella Ferri. Poi sto facendo Annibale, che è un cantante impostato lirico però l’ho spostato più verso i Queen. Questa cosa dei ragazzi mi entusiasma, mi prende, mi diverto. Soprattutto in questo periodo in cui i Måneskin ci hanno dato una bella mano, perché loro hanno spazzato via la trap e ‘ste cose.
Non ti piace la trap?
Mai sopportata. ‘Sti diciottenni che ti insegnano che cos’è l’amore che so’ tre quarti d’ora che sei uscito da casa, ma che me voi insegnà? Non le capisco queste cose, veramente, non ce la faccio.
Ma a parte questo, perché preferisci i Måneskin?
A me piace molto Damiano perché è un frontman importante. Se non ci fosse lui non ci sarebbero i Måneskin. Quello che fanno lo trovo già detto e già sentito, per cui non mi emoziona. Però capisco perché lo fanno e capisco il loro successo. Io non mi comprerei mai un disco loro, perché non c’è niente da imparare, ma sono contento perché hanno spostato l’attenzione su un genere che ha a che fare col rock, non solo con le parole. Perché oramai tra l’AutoTune con il quale anche il barista sotto casa può fare il disco e i rapper che parlano, beh, francamente lì di musica ce n’è molto meno di quella dei cantautori degli anni ’70. Perché già quelli facevano tre accordi e tre milioni di parole e io mi addormentavo, adesso questi parlano in continuazione, ritmicamente ma parlano di cose così superficiali che vabbè’… Ce n’è uno su cento che ti dice qualche cosa di ficcante. Quella della trap è stata una parentesi che ha sostituito i cantautori degli anni ’70, uguale.
Invece un ricordo di Mango?
Con lui ho fatto sei album, è il cantante più bravo di tutti gli italiani che ho avuto in studio. Guarda, io l’ho sempre detto anche nelle interviste che se c’era da mandare qualcuno a rappresentare l’Italia al Live Aid nell’85 avrei mandato lui. Perché gli altri sono tutte copie di cose che già esistono all’estero, ma uno come lui non c’era. Dal vivo era qualche cosa di straordinario. A parte il controllo della voce: grattava quando voleva lui, il falsetto fluido quando andava su, Mango era un genio assoluto. Il primo pezzo che ho fatto con Mango è stato Oro: eravamo in due, abbiamo fatto tutto io e lui e basta. Solo che il pezzo non si chiamava Oro, si chiamava Mama Voodoo Child e il testo era del fratello. Per cui c’eravamo io, Mara Maionchi e suo marito Alberto, e Mara era il direttore artistico della Fonit Cetra. Mango non voleva cantare un altro testo: a noi quello non piaceva, era uno di quei testi proprio boh.
E come siete usciti dall’impasse?
Mara chiese a Mogol se buttava giù un’idea. E Mogol ha fatto il testo. Quando l’ha mandato noi eravamo in studio e cazzo, è successo il finimondo. Perché Mango non voleva neanche leggerlo, hanno litigato a morte lui e Mara. E alla fine Mango siccome si sentiva una primadonna l’ha presa al contrario dicendo «Vabbe’, lo canto, tanto che ci metto?», come se ci facesse un favore. E come ha iniziato a cantare, con quel testo là, che sulla carta non era bellissimo perché se tu lo leggi pensi «ma de che sta a parla’ questo?», siamo rimasti a bocca aperta. I brividi. Era una magia pazzesca. Mi è dispiaciuto tanto per lui, è stata una grande perdita. Comunque abbiamo fatto tutte cose bellissime insieme, Sirtaki, Australia, Adesso, Odissea, tutte cose che forse oggi non avrebbero spazio in un mercato con sempre meno interpreti di razza. Lui era la dimostrazione che i pezzi li devi sentire cantati. Sennò, se li leggi e basta, Umberto Eco sarebbe sempre in classifica.