Raccontare Pino Daniele, l’uomo sfuggente, il musicista combattuto | Rolling Stone Italia
Una parte di lui

Raccontare Pino Daniele, l’uomo sfuggente, il musicista combattuto

Intervista a Francesco Lettieri, che ha diretto il documentario ‘Pino’ nei cinema il 31 marzo, l’1 e 2 aprile. «In un’epoca pre-social, arrivava agli altri musicisti col talento». Con un estratto esclusivo dal film

Raccontare Pino Daniele, l’uomo sfuggente, il musicista combattuto

Pino Daniele

Foto: Guido Harari

Pino è una strana opera, un racconto che cerca di cambiare qualcosa nelle regole del documentarificio che affianca ormai in pianta stabile l’industria musicale. Il suo protagonista parla pochissimo, e dopo un po’ si inizia a capire perché: Pino Daniele era l’esatto contrario di quello che siamo abituati a vedere negli artisti contemporanei, entusiasti di parlare di sé nelle canzoni e nelle pubbliche relazioni. Stava bene con la gente, ma se possibile lasciava parlare la chitarra. Così, non si racconta ma viene raccontato da chi lo ha conosciuto, in questo documentario che è anche un po’ film, scritto dal giornalista Federico Vacalebre, autorità della musica napoletana, e Francesco Lettieri, regista che viene da un ambito molto diverso, in un certo senso quello di una Napoli post-Pino. Nato quando Pino Daniele era già un nome di prima grandezza in tutta Italia, Lettieri è tra le altre cose il regista dei video di Liberato e del suo film/documentario, nonché del film Ultras (2020). Con lui abbiamo parlato di Pino, e di Daniele.

Tu sei nato a Napoli nel 1985. Cos’è che hai sempre saputo di Pino Daniele e cosa invece hai scoperto girando questo documentario?
Sono cresciuto con i suoi dischi, specialmente i primi, ma mio padre era forse uno dei pochi a Napoli che non aveva dischi di Pino Daniele. Così l’ho scoperto a 16-17 anni nel periodo in cui ho iniziato realmente ad appassionarmi di musica. Non l’ho mai incontrato di persona; della sua musica sapevo tanto, della sua vita privata non molto.

Non sei il solo.
Ci sono diversi aneddoti sulla sua vita abbastanza noti ma molto superficiali, specie sulla sua infanzia, queste famose zie con cui è cresciuto… Personalmente ignoravo che venisse da una situazione di grande umiltà e problemi familiari.

Il tema della sua timidezza e riservatezza è molto chiaro nella prima parte, e tuttavia, nel giro di pochi anni è diventato leader carismatico di tutta una scena musicale, e non solo: si vedono momenti in cui pare letteralmente al centro della mondanità napoletana.
Una cosa che mi ha colpito nel visionare il materiale su di lui è che ogni volta che c’è un obiettivo è come se lui ne avesse paura. Più volte nel film sembra sfuggente, come quando nel concerto in piazza Plebiscito del 1981 dice all’operatore di andarsene. Questa cosa è diventata parte del nostro racconto: lui arriva piano piano, entra fisicamente in scena dopo circa 30 minuti che si parla di lui. Poi nel privato a quanto pare era molto carismatico, anche un po’ cazzaro, la battuta facile, la semplicità di base… Amava stare con gli amici, mangiare, soprattutto suonare. Credo che per gente come Maradona o Troisi, stare con lui fosse molto facile, si sentivano a loro agio.

Alcuni, tra conoscenti o colleghi musicisti (italiani), confessano che avere a che fare con lui non era sempre facile. In compenso il linguaggio della musica gli apriva tantissime porte, dai frammenti che appaiono nel documentario si percepisce che Eric Clapton, Pat Metheny o Chick Corea erano ammirati e incuriositi da lui.
Va sottolineato che sono stati loro a cercarlo. All’estero non era considerato un cantautore come da noi, ma soprattutto un chitarrista, per il sound che aveva creato. In un’epoca pre-social, arrivava agli altri musicisti con il suo talento. Poi, forse era insofferente per certi aspetti del lavoro. Nella parte finale della carriera, dopo che col periodo mainstream degli anni ’90 si è allontanato dal pubblico dei primi anni, cerca nuove strade musicali ma deve fare i conti con l’industria.

C’è una tua scelta autoriale nel documentario, quella di rappresentare alcune canzoni di Pino Daniele con dei video che le legano alla Napoli di oggi.
In parte avevo fatto una cosa simile ne Il segreto di Liberato, con l’animazione. Volevo spezzare i blocchi narrativi dando spazio alla musica ma anche alla Napoli di oggi, che in qualche modo è contenuta in questi classici di Pino. ’O ssaje comme fà ’o core per esempio è una poesia di Massimo Troisi che Pino ha tradotto in musica, e che io ho tradotto in immagini contemporanee seguendo il racconto. Era anche un mio piccolo cruccio, perché io ho fatto videoclip per Liberato, Calcutta, Giovanni Truppi e tanti altri musicisti contemporanei, ma mi sarebbe piaciuto farli anche per qualcuno dei musicisti con cui sono cresciuto. Così ho provato a realizzare i video di alcuni dei miei pezzi preferiti di Pino Daniele. Poi è stato anche un mio modo di variare il ritmo interno e di trovare un’alternativa ai live.

Cioè, non ti andava di mostrare troppi concerti?
Credo di aver mostrato il giusto. Secondo me nei documentari si tende a lasciare molto spazio a live, e questo fa contenti i fan che già sanno tutto della vita dei protagonisti, ma a me interessava raccontare la vita privata e l’intimo di Pino.

Un concerto però viene privilegiato nel racconto, ed è presumibilmente una scelta del tuo co-autore, Federico Vacalebre: il concerto del 1981 in piazza Plebiscito, che citavi poco fa.
Per i napoletani della generazione precedente alla mia è stato un evento per il quale dire «io c’ero», e forse il momento in cui Pino si è reso conto di cosa era diventato. Mentre stavamo già lavorando, Alex Daniele, figlio di Pino, ha davvero trovato il file di questa registrazione. Ed è quello vero, a differenza di altri filmati che si trovano su YouTube – per la semplice ragione che a un certo punto le riprese Rai erano saltate, così hanno messo assieme estratti di altri concerti. Noi siamo riusciti ad avere l’audio originale e le immagini originali della piazza.

A Milano, c’è un famoso concerto del quale la generazione precedente dice «io c’ero», e c’era anche Pino Daniele: aveva aperto il live di Bob Marley a San Siro del 1980. È una cosa che tutti gli spettatori dell’epoca ancor oggi ricordano per enfatizzare la storicità dell’evento. Però non è entrato nel racconto, forse perché non è ambientato a Napoli?
No, in realtà molto semplicemente di quel concerto non esiste, purtroppo, alcun supporto visivo: né immagini né foto. Che noi sappiamo.

PINO - Il documentario di Francesco Lettieri su Pino Daniele | Evento speciale 31 marzo, 1-2 aprile

Quali sono i documentari musicali che preferisci?
Per me Amy è uno dei documentari musicali più belli degli ultimi anni e ammetto che l’utilizzo del voice-over è ispirato sia dal documentario sulla Winehouse che da altri che hanno fatto scuola, come quelli su Maradona o Senna. Non sono un documentarista, quindi ho ragionato su quello che mi piace vedere e su come sarebbe stato più bello avvicinarsi a Pino Daniele per gli spettatori. Una cosa che ho cercato di evitare con tutti i musicisti o i parenti e amici di Pino che parlano con Vacalebre è stata l’intervista “posata”.

In pratica, nel film ci sono Vasco Rossi, Loredana Berté, Eric Clapton, Pat Metheny, Fiorella Mannoia, Jovanotti, Fiorello che però non appaiono, si ascoltano.
Sì, l’intervistato seduto che racconta non mi piace: meglio allora sentire le parole registrate su immagini d’archivio.

Appaiono invece i napoletani: James Senese, Rosario Jermano, Enzo Avitabile, Tullio De Piscopo, Tony Esposito. Come a ribadire che Pino Daniele va raccontato a Napoli.
Esattamente, ho cercato di farli parlare nelle strade e nei luoghi della città.

Ultimamente siamo abituati a documentari-fiume, magari a puntate. Tu sei stato piuttosto succinto.
Per me 90 minuti sono una durata ideale, non solo per i documentari, anche per i film. Poi è chiaro che non bastano a raccontare la vita di una persona, ma in quel caso non bastano nemmeno tre ore.

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