Compongo il numero e attendo in linea, ascoltando il segnale che dà libero. Quando risponde la sua voce è disturbata dalle interferenze dovute, forse, all’enorme distanza che ci divide: io a Berlino e lui a Napoli. Il 7 novembre gli Almamegretta approderanno nella capitale tedesca con il loro nuovo show ‘Dubbox’, grazie all’Italian Film Festival. Raiz nota immediatamente il mio accento. Mi chiede se sono lombardo. Gli dico “Sono milanese”. Mi risponde che anche lui lo è stato. Sorrido un poco provando a trattenermi per non farmi sentire, ma lui non ci casca.
«Dico sul serio, mi sono trasferito in Lombardia con la mia famiglia che ero ancora un bambino. Vivevamo in un paesino di provincia, tra Milano e Bergamo. Sono tornato a Napoli appena prima di iniziare le Scuole Superiori. Sono figlio di migranti. Ai miei tempi si diceva emigranti, adesso suona meno dispregiativo. La mia famiglia faceva parte della forza lavoro meridionale prestata al nord Italia, sono cresciuto tra quattro mura assolutamente napoletane ubicate nella periferia est di Milano. Questo mi ha dato la possibilità di essere profondamente napoletano nel privato e paradossalmente lombardo nel pubblico. Oggi è diverso, perché l’Italia è più unita di quanto fosse una volta, ma all’inizio degli anni settanta c’era l’idea che una doppia identità fosse possibile. È da lì che è iniziata la mia storia musicale, perché la percezione di far combaciare diverse identità dentro una sola persona, in questo modo che sembra schizofrenico, in realtà era una sorta di necessità. Quando sono tornato a Napoli ho esplorato una città per me molto conosciuta dai racconti dei miei genitori e che avevo vissuto durante le vacanze estive, ma sconosciuta rispetto ad altre angolature. Diciamo che ho avuto il privilegio di essere uno straniero in diaspora, che non era percepito come tale, dato che a casa mia il napoletano si è sempre parlato ed io lo conoscevo perfettamente. Non avevo problemi di accento, anzi ero un napoletano a tutti gli effetti, però guardavo la città con gli occhi di un ragazzo cresciuto in mezzo alla nebbia nelle campagne del nord Italia. In questo modo ho apprezzato molto di più l’identità napoletana. Crescendo ho avuto una possibilità in più di non essere incline al razzismo».
Una volta tornato a Napoli che tipo di rapporto hai instaurato con i tuoi coetanei?
Non ero percepito come alieno, perché parlavo napoletano, però non sapevo un sacco di cose. Innanzitutto, sono cresciuto in provincia e sono andato a vivere in città e, per quanto allora Napoli potesse avere molti problemi, la dimensione provinciale del mio paesino era una cosa completamente diversa. E poi c’è stata la globalizzazione, che ha fatto il suo. Allora c’erano pochissimi supermercati a Napoli, c’erano solo botteghe, mentre io arrivavo da un posto dove per fare la spesa andavo al Carrefour. Comunque, i napoletani sono molto aperti ed io non mi proponevo come alieno, nonostante non sapessi il linguaggio di strada e non avessi nessun tipo di conoscenza rispetto alla sfera di linguaggio sessuale e volgare.
E poi, ad un certo punto, arrivano gli Almamegretta.
Sì, dopo molto tempo. Avevo vent’anni e avevo già fatto diverse esperienze musicali. Ho cominciato da adolescente, quando ero ancora in Lombardia. Era l’anno in cui Pino Daniele ebbe grandissimo successo e ricordo che una band che voleva fare le sue cover mi chiamò perché ero l’unico che riusciva a pronunciare decentemente i testi di Pino. Poi a Napoli ho incontrato gli Almamegretta, quello è stato un incontro adulto. La chiave fu la conoscenza di Gennaro Tesone, il batterista, che aveva già un’idea precisa rispetto alla contaminazione in musica. Ha trovato in me un valido collaboratore. Lo scatto tra quello che facevo prima e il suono Almamegretta è stato abbastanza naturale: il primo concerto che ho visto nella mia vita fu Bob Marley e Pino Daniele insieme, a San Siro nel 1981. Ho pregato i miei genitori che mi ci portassero. E se ci pensi, gli Almamegretta sono quella cosa, Bob Marley il dub e Pino Daniele la canzone tradizionale napoletana. Con gli Almamegretta abbiamo cercato di mettere insieme i nostri amori: il dub e la musica afroamericana con la musica del Mediterraneo. Era tanto tempo fa, ma già si iniziava a parlare di immigrazione e noi siamo sempre stati fautori del mix culturale e del superamento delle barriere razziali. Già nel ‘91 cantavamo, nelle nostre canzoni, che se le differenze del mondo non avrebbero comunicato tra loro, il mondo sarebbe finito. Oggi ci ritroviamo in acque infinitamente più tormentate degli anni novanta, quindi dietro questo concetto c’è ancora più forza.
Mi viene spontaneo chiederti che cosa ne pensi della situazione attuale legata all’immigrazione.
Io credo che non ci sia niente di nuovo sotto il sole da questo punto di vista. Una nostra canzone dice “il mondo è tondo e da che mondo è mondo la gente gira”, questa cosa è sempre successa, ma prima non c’erano i mezzi di comunicazione di oggi, negli anni Sessanta mezza Italia si è spostata al nord. I meridionali hanno ripopolato interi paesi vuoti. Quando si parla oggi di sostituzione etnica, il grande spauracchio agitato dai partiti populisti di oggi, ovvero un movimento che ha l’idea di sostituirsi etnicamente agli italiani, stai parlando di qualcosa che abbiamo già fatto noi terroni al nord. Il paesino dove sono cresciuto e che ho amato, era un luogo che, prima dell’immigrazione meridionale, raccoglieva duemila anime, siamo arrivati noi e abbiamo creato un paese di diciassettemila persone. Dopo un po’ sono cambiate le cariche pubbliche, il preside della scuola era siciliano, chiudeva il negozio del panettiere milanese e apriva il panettiere di Altamura. Ci siamo presi il paese, perché eravamo di più. Oggi è uguale: chiude il panettiere italiano e apre un kebabbaro, però la gente si rivolta e s’impaurisce. I meridionali hanno fatto la stessa cosa, ma non è successo niente. Il mondo è tondo e la gente gira, si muove. È chiaro che se tu vuoi approfittarti politicamente di questa cosa, ne puoi fare un grande vessillo ed è quello che sta succedendo in Europa e, soprattutto in Italia, dove la situazione è ancora più vergognosa. Io non nego che ci possa essere un problema, perché ci sono frange di estremisti che arrivano con cattive intenzioni – d’altronde anche noi siamo andati in America a fare la Mafia, non è che siamo degli stinchi di santo – ma è una realtà davvero complessa in altri paesi d’Europa, non solo in Italia, che ha tasso di immigrazione tendenzialmente basso. Quelli che arrivano nella nostra penisola, vogliono andar via perché sanno che il Paese ha poco da offrire, però si è costruito, proprio su questo, un grande problema. Si è insediato un Ministro degli Interni che, con una piaga terrificante come la Mafia, la Camorra e l’Ndrangheta, basa tutta la sua politica di propaganda sui quattro disperati che arrivano qui. Ma vai a lavorare! Perché quello che stai facendo non è lavoro. Vai a Secondigliano, vai a Casavatore, vai a Napoli Nord, vai a tirare le testate alla Camorr,a che ha tutta Napoli e l’hinterland in mano. Invece no, non ci vai. Te la prendi con i poveracci senza niente che stanno sulla Diciotti.
Torniamo agli Almamegretta, voi siete stati seminali in Italia rispetto ad un certo tipo di suono e di approccio alla musica, che ha preso spunto da una cultura molto simile: il Bristol Sound.
Esatto. Parti da un presupposto: in quegli anni la globalizzazione ha prodotto una serie di correnti analoghe. Abbiamo vissuto lo stesso tipo di cambio musicale e culturale, quindi in tutta Europa l’underground è andato verso la stessa direzione. Noi siamo stati affascinati da quel tipo di sonorità, ma anche da cose nate prima, come Talvin Singh, per citarne uno. Il fatto che, per esempio, il dj pakistano utilizzasse campioni di musica tradizionale su beat moderni in quella che all’epoca era chiamata jungle, per gli Almamegretta fu uno stimolo enorme. Andavamo a Londra ad ascoltare i concerti e ascoltavamo questi campioni di cantato mediorientale su basi drum and bass e pensavamo “Questa cosa possiamo farla anche noi, ma con la musica popolare napoletana”. Era identico. Il Mediterraneo si è espresso con un modo di cantare abbastanza simile; dalla Turchia, alla Grecia, al Medio Oriente fino al Sud della Spagna e al Sud dell’Italia. Noi abbiamo avuto la capacità di tirare questa cosa per i capelli e farla diventare ancora più orientale, più asiatica, perché ci faceva gioco. Culturalmente era un esperimento divertente, perché abbiamo inventato qualcosa che non c’era, abbiamo velleitariamente costruito un movimento che trasmetteva l’idea del ‘tutti uguali’. Era un confronto. Questi erano gli Almamegretta e, di base, anche il Bristol Sound inglese. Siamo stati cosmopoliti, ci interessava prendere le differenze e unirle.
Al di là delle band più conosciute, come i 99 Posse, per citarne una, chi popolava quel tipo di scena a Napoli?
I 99 Posse erano molto più politicizzati di noi. A loro interessava la militanza, a noi la cultura, nonostante le nostre idee fossero le stesse. C’erano i 24 Grana, che erano bravissimi e che ho amato molto, e poi c’era tutta la corrente jazz napoletana, che ha fatto spiccare tanti talenti già operativi prima che la luce si accendesse su Napoli. Penso a Daniele Sepe, per esempio, oppure alla rinascita vera e propria di Enzo Avitabile che, da grande cantante soul e pop degli anni Ottanta, si è rimesso in gioco con nuovi suoni e ha tirato fuori delle cose incredibilmente belle.
C’è stato un momento, di cui si è parlato molto, in cui Raiz lascia gli Almamegretta e poi Raiz torna negli Almamegretta. Una cosa che mi sono chiesto: è cambiato qualcosa dopo il tuo ritorno?
Noi abbiamo gestito molto male la comunicazione, perché la realtà dei fatti è che, dopo tredici anni, io avevo voglia di fare altre cose che gli Almamegretta non volevano fare e, siccome ognuno ha il diritto di fare quello che crede, ho deciso di farle da solo. Però ci percepivamo come collettivo alla Massive Attack, dove se Del Naja decide di fare un disco da solo, nessuno pensa che i Massive Attack siano finiti, mentre la percezione che avevano di noi era di una band vecchio stile, tipo Pooh, che se Riccardo Fogli se ne va, il gruppo ha chiuso.
Io ho fatto un disco da solo con l’idea che questa cosa sarebbe potuta tornare indietro senza grossi problemi. Quello che abbiamo costruito noi nel corso degli anni è una grande amicizia e tornare sui nostri passi è stato estremamente facile. Purtroppo il suono è cambiato, perché uno di noi non c’è più, Stefano Facchielli, la trave portante degli Almamegretta, che se n’è andato in un incidente in moto. Lui ha inventato il nostro suono, utilizzando la tecnologia per rievocare atmosfere ancestrali.
La forza che risiedeva negli innesti di world music nel sound Almamegretta.
Esatto. Lui ha lasciato molti allievi quando se n’è andato. Uno di loro adesso lavora con noi, Albino D’Amato. Stefano rimarrà per sempre come la maglia di Maradona: incorniciata e che nessuno può più indossare. Adesso stiamo preparando il disco nuovo, sarà incentrato ancora di più sul dub, però girerà intorno agli stessi elementi. Daremo ancora più spazio al Mediterraneo, utilizzeremo tipi di beat che non sono dub ma che tratteremo allo stesso modo psichedelico e onirico con il quale trattiamo il reggae.
Senti, cosa ne pensi della scena attuale napoletana? Per esempio, il fenomeno Liberato.
È una cosa costruita molto bene sia dal punto di vista della comunicazione che da quello del marketing. Trovo molte cose degli Almamegretta dentro il progetto Liberato. Se ascolti il singolo di esordio, 9 Maggio, capisci che c’è dietro la stessa idea, che però lui condisce con altri ingredienti. Utilizza in modo forzato il popolare napoletano, che ad un orecchio non abituato sembra musica di quartiere, ma che in realtà non è, perché è diverso proprio l’approccio. È fatto bene, però voglio capire dove vuole andare a parare, ci sono sei singoli, ma non si sa ancora quale sarà e se ci sarà un prodotto finito.
Cosa significa che l’approccio alla musica di quartiere è diverso rispetto all’approccio che ha Liberato?
Che il pop neomelodico è un genere molto particolare, è come il Raï in Algeria e il Dj Style in Giamaica. Occorre essere specializzati, non bastano gli ingredienti.
E Liberato non è specializzato.
No che non lo è. È evidente che lui arriva da un altro tipo di realtà. Anche il dialetto che lui parla è un napoletano di seconda mano. Ha una pronuncia da quartiere della media borghesia. Sono cose di cui ci accorgiamo solo noi napoletani, me ne rendo conto. Ma questo non toglie forza al suo progetto, anzi secondo me gliene dà ancora di più. È divertente questa cosa che non si sa chi sia, potrebbero essercene due o anche tre a cantare. Come fai a saperlo? Paradossalmente, io domani potrei fare uscire una canzone e dire che è di Liberato. Nessuno potrebbe dire il contrario.
Forse tutto il marketing e la comunicazione che c’è dietro.
Faccio un video con il cappuccio e la felpa con scritto Liberato sulle spalle. Tanto le vendono ovunque (ride).
E invece la scena trap?
Allora, penso che, in qualche modo, gli Almamegretta siano i fautori di un filone che ha portato la trap a Napoli. A livello musicale che cos’è? È un beat molto lento che potremmo ricondurre alla 2step, addirittura al dub, alla dubstep. Ha questo incedere lento, molto simile al reggae. Poi sopra c’è il cantato hip hop. La cosa interessante è proprio questa: diventa una sorta di hip hop psichedelico. Poi ci sono le storie che vengono raccontate, che sono storie di strada, ma che non sempre vengono vissute sulla propria pelle. Magari un ragazzino che vive in un quartiere residenziale di Napoli inizia a scrivere strofe di puttane, cocaina e gente che si ammazza, raccontandole in prima persona. Attenzione, questa tendenza c’è in tutto il movimento hip hop, non solo nella trap: lo stesso Ice Cube è stato al college. Ma come è possibile? Ice Cube che è il più cattivo di tutti, un gangsta vero, ha fatto il college?
Lo spacciatore non racconta il lavoro che fa. Capisci cosa voglio dire? Nella trap c’è questo continuo alludere all’underworld che, da una parte, se è fatto per provocare, a me potrebbe anche andare bene, però dall’altra a volte noto che è un continuo crogiolarsi in questa zuppa, tra l’altro ormai riscaldata, dove le cose veramente importanti sono il Rolex, la droga e i soldi. Detto questo, a livello musicale la trap mi piace molto, ci sono cose davvero interessanti. Ho amato soprattutto la prima ondata, quella più legata al mondo hip hop, come i Co’Sang e ho stimato molto l’evoluzione che ha fatto Luchè, che ha preso quel discorso e lo ha cambiato. Comunque, la cosa più interessante è che si sia sviluppata una tecnica importante. Ci sono delle produzioni che hanno un sound pazzesco. Poi ti ripeto, secondo me per dire certe cose devi conoscere quelle cose. Anche i Co’Sang venivano da Scampia, da Marianella, conoscevano bene quei quartieri, quella realtà, però comunque la loro è stata una visione esterna, di ragazzi che osservavano da fuori quel tipo di cose. Raccontavano storie che gli succedevano ad un centimetro e comunque ne stavano fuori. La verità è che nessuno di quelli che fanno hip hop oggi è realmente dentro quel tipo di realtà. Un altro bravissimo è Franco Ricciardi, che arriva dalla realtà neomelodica e che si è evoluto, anche grazie alla fortuna di collaborare con D-Ross. Si è saputo trasformare e anche lui viene da posti ai margini.
Sempre riferito ai testi, mi viene in mente che forse, generalizzando, sono cambiati i tempi e le nuove generazioni non sono più interessate alla politica e alla cultura.
Sicuramente è così, ma il mio problema non è legato alla leggerezza dei testi, quanto al fatto di essere così estremamente cinici. Puoi scrivere anche solo pezzi d’amore e a me andrebbe bene. Invece il cinismo non mi piace. Sarò vecchio, ma mi sento molto fortunato nell’essere riuscito a parlare di altro e a trasmetterlo.
Se avessi la possibilità di tornare indietro pur rimanendo nell’oggi, eliminando tutto quello che hai fatto con gli Almamegretta e proponendo qualcosa di nuovo, cosa faresti?
Avrei vent’anni?
Esatto. Saresti un ventenne di oggi e gli Almamegretta non esisterebbero.
Farei la trap, sicuramente, perché sono ultra empatico verso questo mondo, mi piace il suo aspetto sfacciatamente glamour. Non posso saperlo, perché comunque sarei figlio di questi anni, però sarebbe bello se riuscissi a raccontare cose un pochino più profonde. Per dire, prendi i dischi di Ghali. Lui è uno tra i più pop, però è anche uno di quelli che, con leggerezza, ti dice due o tre cose importanti. “Quando mi dicono vai a casa, rispondo sono già qua”. Affronta il problema dell’immigrazione vivendolo in prima persona, al contrario di quello che finge di essere un delinquente, ma non lo sarà mai. Ghali è veramente figlio di immigrati: 100% milanese e 100% tunisino. Affronta il problema dell’immigrazione parlando ai giovani, è una cosa importante.
Saresti stato un Ghali.
Sì, anche perché lui è tunisino, io sono napoletano. A livello di latitudine ci siamo.