«Quando sei scelto per rappresentare un’era, vuol dire che sei proprio vecchio. Ma c’è da dire che allora ero molto giovane». Ulderico “Wilko” Zanni commenta così la sua foto sulla copertina di Shock antistatico, libro che racconta il post-punk italiano dal 1979 al 1985.
In quell’immagine scattata da Red Ronnie all’inizio degli anni ’80, Wilko era poco più che un bambino: cravattino nero d’ordinanza, gambe spalancate sul palco a caricare un riff suonato su una chitarra che gli aveva regalato il padre, «una Goodson, riproduzione della diavoletto Gibson fatta a Recanati, pagata 110 mila lire. L’avevo voluta perché l’avevo vista in mano a Brian James sul retro copertina del primo album dei Damned».
Wilko è voce, corpo e anima dei Rats, un gruppo che ha avuto almeno tre vite. C’est Disco, il loro primo album pubblicato nel 1981, è un micro-culto del post punk italiano e non: prodotto da un entusiasta Red Ronnie, aveva conquistato anche il celebre dj inglese John Peel.
Poi c’è stata un’epoca di mezzo, culminata – se così si può dire – con il tour in Unione Sovietica insieme a CCCP e Litfiba. E infine sono arrivati il grande pubblico e il successo commerciale grazie all’album Indiani padani, uscito nel 1992, trainato da Fuoritempo, un singolo firmato Luciano Ligabue, e la super-hit Chiara, cantata negli stadi insieme ai fan di Vasco Rossi.
Ci sentiamo al telefono in una soleggiata domenica pomeriggio e, parlando dei Rats, ripercorriamo 40 anni di storia del rock italiano, partendo da un’altra foto di Wilko presente in un altro libro, Bologna 1980 – Il concerto dei Clash in Piazza Maggiore nell’anno che cambiò l’Italia.
Wilko, chi sono le due ragazze fotografate insieme a te nel libro che racconta il concerto dei Clash a Bologna nell’80?
Sono Laura Carroli, che era la batterista dei Raf Punk, a quel punto in procinto di diventare una discografica insieme a Jumpy Velena con l’etichetta Attack Punk, e la mia amica Claudia Lloyd, che era la cantante dei Rats.
Ma quanti anni avevi?
Dovevo ancora compiere 15 anni.
E prima dei Clash avevi già visto altri concerti di gruppi punk internazionali?
Nel 1978 avevo visto gli Stranglers al Picchio Rosso di Formigine, con i 999 di supporto. Era il tour di Black and White ed ero in prima fila di fianco a Enrico Ruggeri. Una roba folgorante. Scoprii dopo che era Ruggeri perché non l’avevo mai visto prima di allora. Era un po’ più grande di me, ho capito che era lui vedendo poi le foto dei Decibel.
Ma quando hai scoperto il punk?
Stavo guardando su Rai 2 L’altra domenica di Renzo Arbore e c’era Michel Pergolani che faceva l’inviato da Londra: fece vedere questa nuova moda che stava imperversando lì, mostrando soggetti con spille da balia e capelli colorati. Sono saltato sulla sedia. Poi entrò in un locale, che credo fosse il Marquee, dove stavano suonando i Vibrators. Mi son detto: butto via tutto. A 12 anni ascoltavo già rock & roll da un po’, cose come Who, Faces, Hendrix… Ma ho capito che quella cosa lì era alla mia portata, potevo farlo anch’io.
E com’era essere punk alla fine degli anni ’70 in un paese in provincia di Modena, Spilamberto?
Spilamberto era un paese anomalo: una piccola Londra perché c’erano solo 10 mila abitanti, ma 10 o 15 band attive, compreso un gruppo mod che si rifaceva alle cose tipo Merton Parkas.
E qual è stata la tua prima band?
Ci chiamavamo Sextons, i sacrestani. Perché ci siamo formati uscendo dalla parrocchia. Alla fine in un paese così piccolo dove vuoi andare per stare insieme con gli amici, per le ragazze? In parrocchia! Ma abbiamo intuito che il punk era un mezzo per creare scompiglio, scioccare, e quindi abbiamo scelto quel nome. Facevamo cover di Saints, Dead Boys, Ramones, Clash…
Ti chiamavano già Wilko?
Sì, è un soprannome che mi appiopparono gli amici. In seconda media andavo a scuola con un completo gessato, camicia nera, cravatta bianca e scarpe di vernice. Tutti mi chiedevano: ma perché ti vesti da gangster? E io gli spiegavo che avevo una cotta per questo chitarrista, Wilko Johnson dei Dr. Feelgood. Molti di loro conoscevano al massimo Jimmy Page o Ritchie Blackmore, e quindi un po’ per prendermi per il culo iniziarono a chiamarmi Wilko.
E quando arrivano i Rats?
Il 1° gennaio del 1980, dopo una notte di bagordi, convocammo le prove per le 10 di mattina. Io e il mio amico Franz, che suonava il basso, seguivamo l’evoluzione del punk, passavamo ore ad ascoltare gli Stranglers. Leo arrivò da una band mod, era un batterista alla Keith Moon. Cominciammo a fare pezzi di Siouxsie and the Banshees, e infine con Claudia è arrivato il materiale originale.
Come hai conosciuto Claudia?
Frequentavamo la stessa compagnia: eravamo in cinque, io e quattro ragazze, tutti punk. Claudia non aveva esperienze musicali, ma era brava a scrivere e aveva una voce strepitosa. Doveva esserci anche lei. Noi ci mettevamo a suonare, lei stava in un angolo con il bloc-notes, poi si alzava e cantava il pezzo.
E arriviamo così a C’est Disco, il vostro album d’esordio: come siete finiti a lavorare con Red Ronnie?
All’epoca non potevi fare un demo come ora, con 500 euro. Non c’erano software, plug-in… O andavi in studio oppure dovevi conoscere qualcuno che veniva in sala prove con un registratore a bobine. E i nostri genitori mai ci avrebbero dato i soldi per registrare un disco. Ma facevamo dei gran concerti e quindi si sparse la voce di questa band di ragazzini, alla fine la nostra giovane età era la cosa che interessava di più! Così, una domenica pomeriggio suonammo allo Small Club di Pieve di Cento, c’erano Oderso Rubini della Italian Records e Red Ronnie che era il resident dj. Finito il concerto Red viene e ci dice: «ragazzi, sono rimasto folgorato, non pensavo potesse esistere una cosa del genere in Italia. Ho parlato con Oderso, voglio che veniate a Bologna a registrare qualcosa».
Ma non siete usciti su Italian Records, bensì per una sotto-etichetta, la Nice Label.
Oderso Rubini aveva Gaznevada, Confusional Quartet, Windopen… Tutti gruppi legati al movimento studentesco, con un passato più fricchettone rispetto a noi. Red Ronnie ci disse: «Oderso non vuole compromettere la sua etichetta, creiamo la mia». Così siamo stati la prima uscita della Nice.
E le registrazioni come sono andate?
Doveva essere un singolo, ma durante le registrazioni ci siamo messi a suonare anche altri pezzi e così Red Ronnie ha pensato di registrare tutto per fare un EP. C’est Disco è uscito a Natale dell’81 con distribuzione Ricordi. Poi Red Ronnie ci comunicò che la Rough Trade voleva il disco in distribuzione per l’Inghilterra.
Ed è quindi così che il vostro album è arrivato a John Peel?
Cosa per la quale sobbalzai! John Peel dava spazio a punk e post punk e aveva completamente sbroccato per noi, passava il nostro disco alla radio. Tempo fa ho letto su YouTube un commento in inglese sotto uno dei pezzi di quell’album, Please: un tipo diceva che era la sua canzone punk preferita e che aveva comprato il disco all’inizio degli anni ’80 dopo averlo ascoltato al John Peel Show.
Vi aveva anche invitato a registrare live per le Peel Sessions?
Sì! Credo che arrivò una lettera alla Italian Records, ma noi non potevamo, eravamo dei ragazzini.
A proposito: in Shock antistatico racconti che Red Ronnie vi accompagnava in auto ai concerti…
Certo, perché nessuno di noi aveva la patente! Considerate che lo Small Club era a Pieve di Centro, a un chilometro da casa di Red. È successo che lui venisse a Spilamberto a prenderci per poi riportarci a casa dopo il concerto e tornarsene infine a casa, a un chilometro da dove avevamo suonato!
Hai visto Sanpa? Che effetto ti fa vedere Red Ronnie in quel documentario?
Lui ha conosciuto Muccioli, io no. E anche se purtroppo ho avuto amici ospiti di Muccioli non posso dare una versione definitiva su questo tema. Red racconta la sua versione, io ho sentito racconti diversi: sapevo che c’era questo operare in modo restrittivo-detentivo, ma non so se è più vero quel che dice uno o quel che dice l’altro. Non ho conoscenza diretta e quindi non giudico.
Torniamo alla musica e ai Rats. Cosa è successo dopo C’est Disco?
Abbiamo registrato Tenera è la notte, un album più maturo, più professionale, che non è mai uscito. L’Italian Records cominciò a disinteressarsi di noi, al punto da lasciare il disco chiuso in un cassetto. Ma capisco: era un’etichetta con scarsi mezzi e in quel momento si capiva che i Gaznevada sarebbero esplosi con l’Italo disco. C’era intenzione di investire tutto su di loro, e tutti gli altri vennero abbandonati. Tenera è la notte uscirà per la prima volta quest’anno per Spittle Records con in più un intero concerto registrato ai Giardini Margherita di Bologna nell’83.
Perché la band si è sfaldata?
Eravamo delusi, però andavamo avanti con i concerti. Il suono si irrobustiva, la tecnica si affinava, ma a Claudia non piacevano le ritmiche serrate, le chitarre troppo invadenti. È stata una cosa abbastanza naturale, abbiamo deciso di prendere strade diverse. Lei ha cominciato a lavorare con Red Ronnie, scriveva su Popster e Rockstar, a Londra frequentava il giro dei Throbbing Gristle.
Throbbing Gristle che sono presenti su una compilation uscita per l’etichetta di Red Ronnie, giusto?
Sì, ci siamo anche noi su quella compilation con Tattoo, l’unico pezzo edito dell’epoca di Tenera è la notte.
Dopo l’uscita di Claudia hai cominciato a cantare tu.
Io non volevo, ma gli altri due hanno insistito, anche dopo aver inscenato qualche provino farsa con altri cantanti, puntualmente silurati. E alla fine mi hanno convinto.
Alla fine degli anni ’80 avete cambiato stilisticamente strada. Come hanno fatto anche CCCP e Litfiba, con cui siete stati in tour in Unione Sovietica. Che ricordi hai di quei giorni?
Era un viaggio organizzato dal comune di Melpignano. Noi avevamo suonato al festival Le idi di marzo, dove c’era anche una band del blocco sovietico, e così ci fu uno scambio. Partimmo di notte da Modena per ritrovarci con Litfiba, CCCP e una band pugliese a Firenze, e salimmo tutti su un pullman gran turismo per raggiungere l’aeroporto di Fiumicino. Una cosa pazzesca, sembrava l’Anarchy Tour. Io sono stato quasi sempre con Ringo De Palma, che aveva un carattere particolare. Era contrariato, diceva: «ma che cazzo ci faccio qui?!? Volevo starmene a casa con la mia fidanzata e invece…».
Com’è stata la reazione del pubblico sovietico ai vostri concerti?
A Mosca fu allucinante. Il posto era tipo il palazzetto dello sport dell’Armata Rossa ed evidentemente il pubblico si aspettava qualcosa come Adriano Celentano, Ricchi e Poveri o Al Bano, i cantanti italiani che conoscevano. Applaudirono più per educazione che altro. Io ero arrivato con una sbornia colossale, mi salvò proprio Ringo De Palma portandomi la vodka prima del concerto. A Leningrado fu tutta un’altra cosa. Ricordo band pazzesche, ci chiedevamo come facessero a conoscere così la musica, ad avere quell’attitudine. C’era un gruppo che faceva roba alla Led Zeppelin in russo, bravissimi, pazzeschi. Rimasi colpito da un musicista che aveva una chitarra con una meccanica rotta e, al posto del pezzo che mancava, aveva saldato un bullone: per accordare la chitarra usava una chiave inglese.
Sia Zamboni che Pelù ci hanno raccontato di Svetlana, la donna russa che vi ha accompagnato per tutto il tour. Te la ricordi anche tu?
Per forza che me la ricordo, era un funzionario del KGB! E dirò di più. Io ero con Ferretti mentre stava riprendendo con la telecamera un palazzo bianco: lei si avvicinò con un grugno, battendogli sulla spalla e dicendo: «no, questo non si può fare». Scoprimmo dopo che Giovanni stava riprendendo la sede del KGB.
È vero che alla fine l’unico veramente contento di quel tour era Giovanni Lindo Ferretti?
Per lui è stato un trip, il coronare un sogno, il sublimare se stesso e tutto quello che era stato artisticamente fino a quel punto. Aveva chiuso un percorso, era arrivato alla meta.
Anche tu eri comunista?
Io sono sempre stato comunista, vengo da una famiglia comunista, ma quel viaggio è stato scioccante. C’era questa divisione netta tra chi sosteneva il modello sovietico e chi lo criticava fortemente. E alla fine, dopo essere stato in Unione Sovietica per la prima volta, mi sono schierato dalla parte di quelli che lo criticavano. Mi sono reso conto delle storture. Quando uno mi ha offerto sua sorella in cambio dei miei stivali ho capito il grave errore del comunismo sovietico.
Dopo quell’occasione sei tornato a suonare nell’ex blocco sovietico?
Abbiamo suonato a Berlino il 29 ottobre del 1989, poche settimane prima della caduta del Muro e a quel punto c’era già Romi al basso. Poi siamo tornati in Russia nel ’92 e ci siamo resi conto del cambiamento che c’era stato in meno di tre anni: vicino alla Piazza Rossa campeggiava un chiosco della Coca-Cola a forma di Coca-Cola ed era tutto completamente diverso. Quell’anno eravamo stati a suonare in Kazakistan, ospiti d’onore di una specie di Sanremo asiatico a cui partecipavano artisti provenienti da tutte le ex repubbliche sovietiche: Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan… Live in uno stadio per un evento trasmesso in Asia-visione con circa due miliardi di spettatori.
Scenario da Borat. E come ci siete finiti a suonare in Kazakistan?
Modena era gemellata con Alma-Ata, che allora era la capitale del Kazakistan. Avevano chiesto al Comune di mandare un artista rappresentativo della città e l’assessore alle politiche giovanili Roberto Vaccari scelse noi. Vaccari era quello considerato pazzo perché propose di dare l’eroina gratuita ai tossici, pensate che viene della stessa città di Giovanardi!
A quel punto eravate un’altra band rispetto a quella di C’est Disco: diversa formazione con Romi al basso e Lor alla batteria, suono completamente differente e un contratto con una major.
Per quanto riguarda il sound, fu frutto di un’evoluzione naturale della scena rock italiana. Nonostante le difficoltà di un’epoca senza internet, gruppi come noi, i Litfiba o i Diaframma sono sempre stati in grado di confrontarsi con ciò che accadeva fuori dall’Italia. Eravamo drogati di musica e dopo aver guardato oltremanica, avevamo cominciato a guardare oltreoceano. L’album che si chiama Rats è figlio del ritorno della psichedelia e di band come Dream Syndicate e primi R.E.M. E dopo un decennio di underground le major hanno aperto gli occhi, scoprendo il rock italiano. Ogni etichetta voleva un gruppo. I Litfiba avevano firmato con la CGD, i CCCP con la Virgin, i Timoria con PolyGram. E noi approdammo alla CDG perché in quel momento c’era Stefano Senardi che voleva qualcos’altro, e fummo noi. Ricordo gli portammo i provini di Indiani padani all’inizio del 1991, dopo averli fatti ascoltare a Maroccolo. Gianni disse: «questo disco non può sbagliare, se fossi un discografico vi prenderei subito».
Il primo singolo di Indiani padani era Fuoritempo, un pezzo firmato e prodotto da Ligabue.
E infatti la prima major da cui andammo fu la WEA, per rispetto nei confronti di Luciano, ma a Fabrizio Giannini non andava che ci fosse un gruppo in conflitto con Ligabue. La seconda fu la CGD, e Senardi ci fece firmare il giorno stesso.
Come siete finiti a registrare una canzone di Ligabue?
Lo conoscevo da quando era semplicemente Luciano Ligabue e lavorava all’Arci di Reggio Emilia, ci aveva organizzato parecchie date e veniva ai nostri concerti. È sempre stato un nostro fan del periodo post Claudia. Noi suonammo come ospiti a Terremoto Rock, il concorso che gli permise poi di registrare il primo singolo con gli Orazero: Anime in plexiglass e Bar Mario. È stato tutto molto naturale. Ricordo che alla gente che mi diceva «sì, assomigliate un po’ a Ligabue» mi piaceva spesso rispondere: forse è più il contrario!
E il titolo dell’album Indiani padani da dove arriva? Negli anni ’90 non rischiavate di essere scambiati per un gruppo leghista?
Devo ammettere che mi dava fastidio che Radio Padania usasse Indiani padani come sigla di apertura delle loro dirette. In realtà è una cosa che rubai a una sorta di comune della zona del Bolognese. Vidi alla Montagnola un banchetto che vendeva oggetti di artigianato con il logo con copricapo indiano e frecce incrociate, e c’era la spiegazione del loro pensiero. Così scrissi il pezzo pensando a loro, era un modo per connotare il nostro giro la nostra tribù. La canzone era diretta al cardinale Biffi, che aveva lanciato una sorta di anatema contro gli emiliani: un popolo di dissoluti lontani dalla Chiesa, lontani da Dio, vicini ai comunisti. L’uomo in bianco citato in un verso è lui.
Su quel disco c’è la vostra più grande hit, Chiara.
È il nostro più grande successo, sì. In quel momento avevamo lo stesso management di Luciano Ligabue, Riservarossa. Ricordo che eravamo in macchina diretti a Treviso per andare a trovare il patron di Diesel Renzo Rosso e Claudio Maioli di Riservarossa mi diceva che secondo lui Chiara non era un pezzo adatto come singolo, e dopo Fuoritempo non potevamo sbagliare. Per me invece eravamo arrivati a un punto in cui bisognava fare il salto di popolarità, altrimenti cosa ci stavamo a fare? È uscita Chiara, un pezzo più pop, ed è successo quello che è successo. Disco più suonato in radio quell’anno e disco più suonato in discoteca, tanto da farci vincere nel 1993 un Pepsi Award, premio che ci è stato consegnato alle 4 di notte al Cocoricò di Riccione dalle mani di Leone di Lernia.
Il successo di Chiara è dovuto anche al videoclip, ai tempi in heavy rotation, vero e proprio tributo a Cuore selvaggio di David Lynch.
Siccome era il centesimo video prodotto da Marco Balich lui ci disse che ci teneva particolarmente. Ci chiese allora cosa ci piaceva del mondo del cinema e in quel periodo Cuore selvaggio era un film molto amato da me e Romi, quindi a Balich venne l’idea di incentrare la trama del video sul film.
E poi siete finiti a suonare con Vasco per il tour di Gli spari sopra. Com’è andata?
Conoscevo Vasco da quando avevo 15 anni e andavo al Punto Club a Vignola. Lui era socio del posto con Floriano Fini: una discoteca rock pazzesca dove i dj erano i fratelli Riva, Giuliano che metteva il rock più classico e Massimo che metteva cose più punk. Tutti i sabati sera Vasco arrivava e stava lì al bar. Ricordo che per il nostro primo concerto al Punto, Floriano ci firmò l’assegno da 200 mila lire: lui era diventato il manager di Vasco, che intanto stava crescendo. Al suo primo concerto alla piscina di Zocca eravamo in 40. Vent’anni dopo incontro Vasco che mi dice: «hai spaccato, bellissimo il pezzo, Chiara, devi vincere, devi vincere!». Qualche tempo dopo ci rivediamo in una discoteca sui monti nel Modenese: noi eravamo lì con il tavolo riservato, il codazzo di ragazzini e a un certo punto arrivano Vasco, Floriano, sua moglie e una guardia del corpo. Facciamo il tavolo tutti insieme e Vasco dice a Floriano: «senti, dobbiamo andare in tour con Gli spari sopra, perché non ce li portiamo?». È stata una sua scelta sua, nata tra bicchieri di coca e rum.
E siete riusciti a suonare Fuoritempo, un pezzo di Ligabue, davanti al pubblico di Vasco Rossi, una bella impresa.
È difficilissimo aprire un concerto di Vasco. Per la prima data ci avevano piombato i finali, un grande classico per i gruppi spalla: avevamo una potenza notevolmente inferiore. Ma noi, veramente paraculi, mettiamo come secondo pezzo in scaletta Chiara e al primo riff lo stadio di Bergamo esplode. Dalla data successiva Guido Elmi ha detto: «dategli pure i watt di Vasco che questi spaccano il culo». Ci sono situazioni in cui, se rompi il ghiaccio, dopo puoi fare qualsiasi cosa. Noi lo rompevamo con Chiara, e poi, sì, non ricordo a che punto della scaletta c’era Fuoritempo. Ma il pubblico di Vasco ci ha sempre trattati benissimo, non ci è mai arrivato sul palco neanche un tovagliolino di carta. Mentre alle altre band tiravano di tutto!
Quando e perché la macchina si inceppata?
Fondamentalmente perché erano cambiate le condizioni all’interno dell’etichetta discografica. Il disco successivo, Belli e dannati, non ha ricevuto secondo me il supporto adeguato, nel ’97 è uscito La vertigine del mondo, ma solo per un obbligo contrattuale, e dopo hanno pubblicato un greatest hits senza neanche avvisarci.
Per quanto tempo sei stato un musicista professionista?
Dal 1990 al 1998 è stato l’unico mestiere che abbiamo avuto. Considerate che nel 1993 abbiamo fatto 176 date.
E ora cosa fate?
Ci sta che dopo 20 anni ti viene voglia di fare altro. Romi, il bassista, fa l’architetto a Miami. E Lor, il batterista, ha messo a frutto 11 anni di studi d’arte e ha aperto un’azienda che fa allestimenti per sfilate di moda, parchi a tema, per anni ha volato in giro per il mondo facendo le vetrine di D&G. Io vendo strumenti musicali, c’è stata una trasmigrazione della mia passione in un ambito più commerciale.
Ma è vero che si vendono sempre meno chitarre?
Devo dire che con la situazione attuale, tra coprifuoco, restrizioni e l’assenza di maggiori possibilità di aggregazione, c’è stata una fortissima ripresa dell’avvicinarsi al suonare: vendiamo tantissime chitarre e molte a ragazzini. La gente sta ricominciando a suonare e le scuole di musica con cui collaboriamo sono tutte piene. È una delle poche note positive di questa situazione terrificante.
Quest’anno è il 40esimo anniversario di C’est Disco e uscirà come dicevi l’album inedito Tenera è la notte. Covid permettendo, è un’occasione per un reunion tour con la formazione originale?
Per Claudia la vedo dura. Fa tutt’altra vita, è una professoressa di Filosofia in Bicocca. Le voglio un bene dell’anima, ma credo sia davvero difficile convincerla a tornare con noi.
E nel 2022 saranno 30 anni di Indiani padani. Reunion per questo anniversario con Romi e Lor?
Siamo un’entità unica, la nostra è un’amicizia molto forte. Abbiamo già fatto una reunion per i 20 anni e al Vox di Nonantola c’erano 1500 persone. Sicuramente succederà anche per i 30 anni del disco, il mondo è pieno di celebrazioni, è un continuo ultimo colpo di coda del dinosauro!
Nel 1981 avresti mai immaginato di finire sulla copertina di un libro e ritrovarti a raccontare 40 anni di carriera dei Rats?
Assolutamente sì, altrimenti non avrei fatto nulla di quello che ho fatto!
Wilko ride e non possiamo fare altro che chiudere citando un verso della canzone più famosa dei Rats: Wilko ha fatto del suo meglio per restare in copertina, e ci è riuscito.