Restart Me Up: i Rolling Stones raccontano ‘Hackney Diamonds’
Ecco come si fa un album di inediti dopo 18 anni nelle parole di Mick Jagger, Keith Richards, Ron Wood, del produttore Andrew Watt e dello special guest Stevie Wonder. «Se nessuno muore» potrebbe scapparci il tour. «Se questa roba non la fanno gli Stones, non la fa nessuno»
Foto: Mark Seliger
A un certo punto nel 2022 Mick Jagger ha cominciato ad essere irrequieto. Erano passati 17 anni dall’ultimo album di inediti dei Rolling Stones. Erano sì andati in tour con una certa regolarità e avevano deciso di non mollare nonostante la morte di Charlie Watts, ma le session che avevano fatto a singhiozzo nei precedenti dieci anni non avevano fruttato granché di buono. Quando ad agosto 2022 gli Stones hanno chiuso il tour a Berlino, Jagger ha deciso che non c’era più tempo e ha preso da parte Keith Richards.
«Gli dico: certi pezzi sono buoni, ma la maggior parte non lo è, penso che dovremmo darci una scadenza per poi portare il disco in tour», ricorda Jagger al telefono dall’Italia. «Mi guarda e risponde: yeah, ok, è tipo quel che facevamo un tempo». Jagger scoppia a ridere. «Ma sono certo che Keith ti racconterebbe tutt’altra storia».
Al telefono da New York, Richards spiega che «è tutto partito con Mick e la sua idea che era importante fare un disco adesso. Io l’ho sempre pensato, ma gli ho detto: “Bella idea, Mick”». Ora a ridere è Richards. «Era convinto che dovessimo darci una mossa. “Se pensi ci sia abbastanza materiale su cui puoi cantare”, gli ho detto, “io ci sono”. Perché quando al cantante piace cantare quel che canta, il 90% del lavoro è fatto».
Jagger ha suggerito di considerare come deadline il giorno di San Valentino del 2023, una data che al chitarrista è parsa «un tantino ottimistica». «E io» ricorda Jagger «ho ribattuto che lo era, ma una scadenza dovevamo pur darcela».
Questo senso d’urgenza ha fatto la differenza. Hackney Diamonds, che uscirà il 20 ottobre, copre un po’ tutti gli stili che gli Stones hanno sperimentato nell’arco di sei decenni, dal rock (Angry) alla disco con la cassa in quattro (Mess It Up) al country (Dreamy Skies). Ci sono anche due pezzi registrati con Watts prima della sua morte. Nei rimanenti suona Steve Jordan, che è stato in tour con gli Stones ed è dagli anni ’80 che collabora con Richards.
«Non cercavamo di fare un disco rétro, né volevamo un suono rétro, né ci piaceva l’idea di suonare in modo rétro», dice Jagger. «Anzi, deve suonare come un album registrato quest’anno, il che è anche più o meno vero».
L’elenco degli ospiti compone una specie di Hall of Presidents della musica popolare: Paul McCartney, Stevie Wonder, Elton John, Lady Gaga. C’è anche Bill Wyman, tornato nella band per una delle ultime registrazioni di Watts. Il disco si chiude coi soli Jagger e Richards che fanno Rollin’ Stone di Muddy Waters, il pezzo dal quale la band ha preso nome. Non l’avevano mai registrata in 61 anni di storia. Da quel che raccontano, tutto ciò non poteva che succedere adesso.
Di certo continuare senza Watts, uno dei grandi batteristi rock, non è stato facile. «Tutto quel che faccio è un tributo a Charlie», afferma Richards. «Mi è impossibile registrare qualcosa e non pensare a Mr. Watts che ci mette sotto il suo backbeat». La sua presenza in due tracce ha quindi un significato particolare per il gruppo. «Se c’è Charlie, amico, è tutto», dice il chitarrista. «Quanto mi manca». Suonare con Jordan è sembrato naturale. «Steve scuote il palco quando suona la batteria», dice Ron Wood al telefono da Barcellona. «È tipo un terremoto».
L’anno scorso, prima ancora di darsi una deadline, i Glimmer Twins si sono trovati in Giamaica con Jordan e il pianista Matt Clifford per lavorare ai pezzi nuovi. Jagger ha trovato facile lavorare col batterista. «Sono orientato al groove e di conseguenza quando scrivo ho già in testa un’idea di come dovrebbe essere. Siamo una band, non è che puoi imporre ogni singola cosa agli altri musicisti, ma l’idea del groove che ci vuole io ce l’ho».
Da quelle session è uscita una prima versione di Angry registrata dai soli Jagger e Jordan. «Ho buttato lì il testo per accordarmi col tempo», spiega Jagger. «Parlo di accenti e del fatto che il ritornello deve avere un feeling diverso dalla strofa. Ha a che fare con la ballabilità e la necessità di sputare fuori le parole al giusto ritmo». È un metodo che i due hanno usato anche per Whole Wide World il cui testo parla di fuggire dalle “tristi strade” di Londra, e per il rave-up gospel Sweet Sounds of Heaven, che Jagger ha scritto a casa al pianoforte. «Tendo a metterci troppe parole e finisco per eliminare delle sillabe. La parte vocale non deve essere presente tutto il tempo, devi lasciare dello spazio, questa cosa l’ho ben presente».
Nel frattempo, la band scopriva che il produttore di riferimento dai primi anni ’90, ovvero Don Was, non era disponibile in quella finestra di tempo. «Siccome la cosa ci stava sfuggendo di mano, ho detto: qui c’è bisogno di un arbitro», spiega Wood. «Ero a cena con Paul McCartney, mi ha chiesto come stava andando, gli ho detto che avevamo bisogno di qualcuno che ci facesse rigare dritto. “Ci sarebbe questo giovane di New York, Andrew Watt. Perché non lo provate?”».
Wood non lo sapeva, ma Jagger era già in contatto con Watt, un trentaduenne che ha vinto Grammy e lavorato con gente come Miley Cyrus e Ozzy Osbourne. Gli era stato presentato anni fa proprio da Don Was quando gli Stones stavano remixando alcuni singoli. Dopo il concerto a Hyde Park del giugno 2022, il cantante ha chiesto a Watt se fosse interessato a produrre l’album. Essendo gli Stones una delle sue band preferite, a Watt è scappato per tutta risposta: «Gli orsi cagano nel bosco?». La lettura di Jagger: «M’è sembrato decisamente entusiasta».
E così la band s’è ritrovata agli Electric Lady Studios di New York per poi essere raggiunta da Watt. «Dovete capirmi, sono un fan», racconta il produttore, «se mai confessassi a quanti loro concerti sono stato probabilmente non mi parlerebbero più. Quand’eravamo in studio gliel’ho pure detto: “State facendo produrre il vostro album a un fan sfegatato”. Ogni giorno mi presentavo in studio con una diversa maglietta degli Stones».
Con Watt a bordo, la band ha registrato nei mesi successivi tra New York, Londra, Parigi e Los Angeles rispettando le deadline. Per prima cosa, il produttore ha fatto una cernita tra più di cento demo. «È entrato in studio, ci ha messi in riga, ha ascoltato la nostra roba, ha rimescolato le carte e scelto il meglio delle nostre canzoni», spiega Wood. «Ha fatto una selezione incredibile».
«Avevamo già lavorato così in passato», spiega Jagger. «Abbiamo imparato le canzoni, le abbiamo provate e… bang, bang, bang. Abbiamo fatto parecchi brani in questo modo, una ventina. Poi abbiamo iniziato a registrarci sopra altre cose, dandoci delle priorità». «Per via del tour ci potevamo fermare solo per alcune settimane, o mesi», racconta Richards, «perciò eravamo belli carichi, per come suonavamo».
Watt ricorda Richards che passa ore in studio a registrare e la volta in cui, rientrati da un’uscita serale, disse a Jagger che sarebbe tornato in studio. Jagger insisteva per poterci essere. «Keith ha lavorato duramente» dice il cantante, «anche per interi giorni di fila. Poi sono arrivato io a registrare le voci. E dopo Ronnie. Poi me ne sono andato a Nassau e a gennaio ho registrare le mie altri parti vocali».
Durante le session, gli Stones hanno accolto un po’ di gente in studio, tra cui l’amico di vecchia data Stevie Wonder, che li ha aiutati a trovare la giusta vibe gospel per Sweet Sounds of Heaven. Watt ha un tatuaggio che rappresenta Wonder e così ha pensato che l’artista – che è stato in tour con gli Stones nel 1972 – sarebbe stato perfetto per il brano. «Quanto è figo, per un fan, che Stevie Wonder suoni in un brano con gli Stones?», dice con orgoglio.
Prima di registrare, Wonder e gli Stones hanno ricordato i bei tempi, hanno jammato su una versione prima jazz e poi reggae di Satisfaction, per poi passare alle cose serie. Wonder ha suonato il piano, un Fender Rhodes e un basso Mogg su Heaven. E la band ha trasposto la sua linea di basso in una sezione di fiati à la I Got the Blues, il brano di Sticky Fingers.
«Ho pensato che la canzone avesse bisogno di un momento di celebrazione, una celebrazione dell’anima, del ritmo e dello spirito di tutti coloro che si erano riuniti in quel momento», racconta Wonder aggiungendo di essere rimasto commesso per come il brano renda tributo a Charlie Watts: «Secondo me non è un addio, ma un ciao».
«È stato emozionante essere in studio con Stevie», dice Wood. «Vedere Stevie suonare le sue tastiere, un po’ di sintetizzatore, un po’ di Moog qui, un po’ di Clavinet lì, un pianoforte a coda, e tutti gli stati d’animo che evoca. È stato di grande ispirazione». «Gli accordi gospel di Stevie hanno dato vita al brano portandolo a un altro livello», ammette Jagger. «Lo senti e pensi: wow».
Lady Gaga stava registrando negli stessi studi e ha chiesto a Jagger di passare a salutare. «È entrata in studio e s’è raggomitolata davanti a me sul pavimento», ricorda Jagger parlando delle session di Sweet Sounds. «Qualcuno le ha passato un microfono e ha iniziato coi suoi oohs e ahs». Era improvvisato, ma molto buono. «Era seduta a terra e cantava», racconta Wood, «e Mick le fa: “Ok, ora alzati e trasformiamo questa cosa in una canzone, facciamo le cose per bene”». Così hanno iniziato a cantare faccia a faccia. «M’ha fatto capire quant’è versatile», ricorda Wonder, «è stato bellissimo sentirla cantare con tanto sentimento».
A un certo punto, mentre la canzone stava per finire, hanno ripreso a cantarla da capo mentre Wonder faceva un assolo. L’atmosfera era incredibile. «È stato bello riunirci pensando a Charlie e alla sua costante bontà», dice Wonder. «Una bontà costante così come costante era il tiro delle canzoni quando suonavano assieme».
Dall’enorme pila di brani messi giù per Hackney Diamonds gli Stones hanno selezionato due tracce – Mess It Up e Live by the Sword, entrambe registrate nel 2019 – in cui è presente Charlie Watts. «Avevamo così tanto materiale che nessuno riusciva a capire come tirarci fuori un album», racconta Richards. Watt ha consigliato di invitare Bill Wyman a suonare in Sword e Jagger lo ha chiamato: «Suoni ancora? Ti va di venire a suonare in un brano dove c’è anche Charlie?». Il bassista, che ha lasciato la band nei primi anni ’90, ha detto di sì. «È stato dolce», dice Wood riferendosi a questa specie di reunion della line-up di Some Girls. «Così avevamo una sezione ritmica unica, leggermente differente da quello che si sente negli altri brani», aggiunge Jagger.
«Non lo dimenticherò mai: io e Mick abbiamo ascoltato solo il basso e la batteria di quel brano ed è stato toccante», ricorda Watt. «Charlie che suona dritto mentre Bill lavora di swing. È la canzone più anni ’60 dell’album».
A parte il cameo di Wyman, del basso si sono occupati principalmente Darryl Jones che suona da tempo con gli Stones, Richards e Wood. Almeno finché non è stato coinvolto un altro vecchio amico leggendario, che casualmente è anche bravino a suonare il basso. Watt stava lavorando con Paul McCartney a un altro progetto, a Los Angeles. Quando Jagger è venuto a saperlo, ha chiesto al vecchio amico di raggiungerli in studio. «Avevo già cantato con Paul e ci vedevamo spesso, ma non avevo mai suonato con lui», racconta Jagger. «Non sapevo che canzone fare. Depending on You arrangiata come una ballata? Qualcos’altro? A quel punto Andy ha detto: “Proviamo col tuo pezzo punk, Bite My Head Off”. Paul sembrava contento di suonare in una band in cui non aveva tutte le responsabilità ed era solo il bassista. E ha spaccato. Era come se avessimo suonato assieme per anni, che bella sensazione».
«Paul mi ha detto: “Non è incredibile? Siamo qui in studio insieme”», racconta Wood. «“Questo è un sogno che si realizza: sto suonando coi Rolling Stones. E con Andrew come produttore”. Era entusiasta come un bambino in un negozio di giocattoli». Secondo Wood, McCartney ha suonato anche in un altro brano che verrà utilizzato per un’altra uscita.
Anche Elton John è diventato una turnista di lusso occupandosi del piano boogie-woogie (ma senza cantare una sola nota) in Get Close e Live by the Sword. E questo con grande sorpresa di Jagger, che si aspettava che John volesse ritagliarsi ben altro ruolo nelle canzoni e non farlo per puro divertimento. «Gli piace moltissimo suonare e ha iniziato come turnista», spiega Watt. «Tutti sono fan dei Rolling Stones. Proprio come Paul, anche Elton ha detto: “Ho appena suonato con i Rolling Stones, cazzo!”».
A rendere speciale Hackney Diamonds è il fatto che, al di là degli ospiti, è un album dei Rolling Stones, con Jagger che suona bello diretto e coinvolgente. «Capitava che facesse una take e dicesse: “Sto cantando troppo bene”, racconta Watt. “Devo rifarla più buttata via”. E io: “Ma che vuoi dire?”. “Devo buttarla via, metterci feeling”. Così tornava di là e tirava fuori la roba più spontanea che avessi mai sentito, decisamente migliore e più orecchiabile».
«Ci vuole del tempo per entrare in sintonia con un brano e farlo tuo», spiega Jagger. «Quante volte ho fatto qualcosa di nuovo e quante volte ho fatto Paint it, Black? Non è necessario fare 2000 take, a volte va bene anche la terza, ma non conosci a fondo la tua stessa canzone, devi sentirla, farla come se l’avessi già suonata sul palco un po’ di volte».
Jagger e Richards hanno scritto i testi ispirandosi a ricordi personali. «È un album che parla molto di relazioni, anche se ci sono altre cose», spiega il cantante. «Dreamy Skies è piuttosto introspettiva. Sweet Sounds of Heaven è una specie di gospel, ma contiene elementi personali. Whole Wide World dovrebbe essere un po’ ironica, divertente, dovrebbe aiutarti a pensare che qualsiasi cosa ti accada, la supererai. Ho tirato fuori cose della mia giovinezza a Londra, in qualche verso, come la vita a Fulham e tutto il resto». Fa una pausa. «In realtà non ho mai vissuto davvero a Fulham, ma suona bene con filthy, quindi è meglio di Chelsea», aggiunge ridendo.
Whole Wide World è la preferita di Wood. «Mi piace anche la chitarra di Keith in Angry, Tell Me Straight e Driving Me Too Hard. Quest’ultima ha un’atmosfera diversa, quasi country. E Dreamy Skies è molto dolce, ha un mood tipo Sweet Virginia. E poi c’è la dance di Mess It Up, con Charlie alla batteria. Dentro ci sono tanti generi diversi che mi piacciono».
Watt ha suggerito di fare un blues acustico, ma a Jagger non interessava scrivere un altro testo. Secondo il produttore ha detto: «Andy, non ho tempo di scrivere un cazzo di testo blues, sto scrivendo altri 28 testi e li devo assolutamente finire». Così si è deciso che Jagger e Richards avrebbero recuperato Rollin’ Stone. «È stato divertente farla con Keith», spiega Jagger. «Non l’avevamo mai suonata. Di tutti i pezzi di Muddy Waters, quello da cui abbiamo preso il nome non l’avevamo mai fatto. Non so perché».
A Wood «piace che Andrew abbia cacciato tutti dallo studio dicendo: “Mick e Keith, adesso suonerete la canzone di quando vi siete incontrati per la prima volta, ispirata all’album che avevate sottobraccio quel giorno, alla stazione, quando eravate ragazzi: Rolling Stone Blues di Muddy Waters”. È una cosa molto dolce».
Entrare in modalità Muddy Waters non è stato un problema. «Io e Mick potremmo suonarla al volo in un bar per pagarci da bere», dice Richards, che è stato molto colpito da come Watt ha ottenuto il suono e le chitarre giuste per la registrazione. «È stato bellissimo, perché a me non sarebbe mai venuto in mente di fare quel pezzo. Andrew ci ha costretti. In un certo senso quella canzone era ovvia per noi, che prendiamo nome da lì. Così con Mick ci siamo detti: “Dobbiamo spaccare”. E lo abbiamo fatto».
«A ogni take si affiatavano sempre di più», ricorda Watt. «Credo che quella che sentite nel disco sia la quarta. All’inizio, il tempo è incerto e un po’ freddo: sono due persone che suonano l’una contro l’altra. Ma alla fine della canzone suonano gli stessi lick, con lo stesso tempo, all’armonica e alla chitarra. Le stesse inversioni, le stesse note, gli stessi ritmi. Si fondono l’uno nell’altro. Per me è la dimostrazione che questi due ragazzi hanno bisogno l’uno dell’altro».
Jagger e Richards (e pure Wood) hanno bisogno l’uno dell’altro. È la loro natura. I primi due si conoscono da una vita. A volte Richards, pensando alla sua età, mette in discussione tutto quanto. «Che cazzo sto facendo? Ho 80 anni e suono rock’n’roll», dice, con una risata di pancia. Gli passa subito. «Non bado mai all’età», dice allegro (per la cronaca, Richards ha ancora 79 anni, mentre Jagger ne ha compiuti 80).
Un brano come Rollin’ Stone in chiusura significa che questa potrebbe essere l’ultima volta che i Rolling Stones registrano? «La gente lo dice da 40 anni», risponde Richards ridendo. «È una di quelle cose strane, come quando ti chiedono: “Che diavolo ci fai qui, alla tua età?”. E l’unica risposta possibile è: “È quel che faccio”».
Scegliere il titolo non è stato facile. «Avevamo buttato giù un sacco di idee, ma non trovavamo un accordo su nessuna ipotesi», spiega Jagger, con la tensione che gli sale nella voce. «Ero arrivato allo stremo delle forze». Poi un suo amico, il pittore e scultore Marc Quinn, gli ha mostrato le foto di quelli che lui chiamava “diamanti di Hackney”. «Hackney è una zona di Londra, e Hackney Diamonds si riferisce a quando esci il sabato sera e ti senti violento, pronto a distruggere cose», racconta Jagger. «Spacchi il parabrezza di un’auto e il vetro si frantuma in schegge che cadono a terra: quelli sono i diamanti di Hackney. L’ho proposto a Ronnie e Keith, e Keith ha detto: “Sì, fallo”. Mi sono detto: “Grazie a Dio ne abbiamo uno”». Si percepisce ancora il sollievo nella sua voce.
Hackney Diamonds contiene 12 canzoni, ma i Rolling Stones hanno lavorato su un numero di brani compreso tra 23 e 29 (a seconda di chi ne parla), il che significa che hanno già molto materiale qualora decidano di fare un altro disco. Dice Jagger che alcune delle canzoni restare nel cassetto hanno messaggi sociali. «Tutto rimane nell’orbita musicale degli Stones, non ce ne allontaniamo, però alcuni pezzi rimasti inediti forse erano un po’ più all’insegna di sonorità e stili che non avete mai sentito dagli Stones». Watt spera di rifinire quelle canzoni, un giorno. «Presente Batman? Proietteranno la loro lingua in cielo e io correrò lì, cazzo. Sarebbe fantastico».
«Penso che questo album rappresenti gli Stones di adesso», spiega Jagger. «Fotografa gli Stones di quest’anno. Volevo che fosse un gran disco, non volevo che fosse semplicemente ok. E credo che sia andata come desideravo». Per Richards, «quest’album è per metà un tributo a Charlie Watts e alla storia degli Stones e per l’altra metà un tentativo di guardare al futuro e a quanto ne rimane». A parte questo, il chitarrista sta ancora cercando di dare un senso al disco, visto che il processo di registrazione è stato molto confuso. È passato così tanto tempo dall’ultima volta che gli Stones hanno pubblicato musica inedita che per lui è quasi una sensazione nuova. «È una novità, come per chiunque altro», dice ridendo. «Mi ci sto abituando: “Ecco un nuovo disco degli Stones”. L’ho ascoltato per la prima volta e lo sto ancora metabolizzando».
Richards, comunque, non vede l’ora di portare le canzoni on the road. «Se nessuno morirà o si romperà una gamba nel corso del prossimo anno, non sarei affatto sorpreso» se gli Stones andassero in tour. In fin dei conti, lui sa bene perché i Rolling Stones fanno ancora rock’n’roll. «Chi altro può farlo?», risponde quando gli si chiede cosa lo spinge ad andare avanti. «O lo fanno gli Stones, o non lo fa nessuno».
Da Rolling Stone US.