Ogni occasione è buona per ristampare un vecchio album e dargli nuova vita, soprattutto commerciale. Le case discografiche lo fanno da sempre, ma che col rifiorire del formato LP la pratica ha raggiunto livelli un tempo inimmaginabili. Il risultato è stato quello di intasare il mercato di uscite non sempre essenziali e spesso prescindibili. Tuttavia, ci sono album e album. Machine Head dei Deep Purple è uno di quei dischi che tutti dovrebbero possedere, al di là dei gusti personali, e che è bene tornare a ricordare con cadenza regolare.
Per festeggiarne i 50 anni (52 per la precisione), i Deep Purple, o chi per loro, hanno scelto di far remixare l’album da Dweezil Zappa e di aggiungere due live dell’epoca, giusto per ricordare a tutti cosa significasse recarsi a un loro concerto all’inizio degli anni ’70. Ne abbiamo parlato con Roger Glover, disponibile e schietto come sempre, che ci ha anche annunciato l’uscita di un nuovo album di inediti della band di Smoke on the Water.
Chi è cresciuto con alcuni album resta inevitabilmente legato alle versioni originali. Ai puristi, insomma, gli album remixati fanno sempre un po’ paura. Allo stesso tempo, il nuovo mix di Dweezil Zappa ha rinfrescato il suono di un album registrato mezzo secolo fa. Quali sono le reali differenze tra i due?
Le differenze sono inevitabilmente molto sottili, perché la performance di partenza è la stessa. Missare un album però è un’arte e come ogni forma d’arte il risultato può piacere o meno, perché il tocco di chi se ne occupa è differente. È come far restaurare lo stesso dipinto a due persone diverse, ognuna delle due ci metterà del suo. Io mi ero occupato del remix per il venticinquesimo anniversario e mi ero divertito molto, ma erano brani su cui avevo suonato, quindi probabilmente ero più timoroso. Negli ultimi anni è in voga questa scelta di dare a musicisti esterni il compito di remixare album storici, un po’ anche solo per non rimettere in vendita lo stesso prodotto, però spesso funziona. Soprattutto quando la struttura dei brani resta la stessa e non si aggiungono parti nuove che ai tempi erano rimaste fuori dalle piste. Qui poi c’è anche il fatto di averlo chiesto a Dweezil Zappa, che va ad aggiungere un tocco di curiosità in più, legata alla nascita di Smoke on the Water e a suo padre.
In effetti, la scelta di Zappa ha qualcosa di poetico e rappresenta un po’ la chiusura di un cerchio. Per anni, Frank dichiarò che voi Deep Purple gli dovevate un sacco di soldi per avervi dato l’ispirazione per il vostro pezzo più celebre.
Sì, credo che in parte scherzasse, ma che ci fosse anche un fondo di verità (ride). Comprendo il tuo punto di vista, c’è qualcosa di poetico e allo stesso tempo abbiamo ridato a suo figlio quei cazzo di soldi che ci chiedeva Frank. Però ti confesso che non è stata un’idea partita da noi, ma dalla casa discografica. Il che rende tutto meno poetico, per tornare alla tua osservazione. Sicuramente Dweezil ha lavorato più sul bilanciamento dei suoni e sul groove generale. Nel 1997 io avevo lavorato sull’ampiezza e sul cercare di riportare il suono verso l’idea iniziale che avevamo e che non eravamo riusciti a creare a causa dell’incidente che poi ispirò Smoke on the Water. L’idea era quella di ricreare in fase di registrazione un suono che apparisse più simile possibile a quello dal vivo, mentre il cambio di location finì per crearne uno che in studio mi è sempre piaciuto fino a un certo punto. Per questo ho sempre preferito le versioni live dei pezzi di Machine Head.
L’idea era registrare suonando i brani dal vivo in studio?
Da un certo momento in poi, quella ha iniziato a essere la nostra modalità di incisione. Anche oggi quando componiamo un album partiamo da jam infinite e registriamo tutto proprio per non perdere quell’atmosfera. Non siamo mai stati un gruppo da decine di take. Il discorso però era che volevamo cercare di portare in studio tutta la follia che si creava in tour. In studio è difficile lasciarsi andare completamente, soprattutto negli anni ’70, quando le sale di incisione costavano tantissimo. Tutto è cambiato durante le session di In Rock, quando stavamo registrando Hard Lovin’ Man. Jon ha detto «fanculo gli schemi!» ed è partito con un’improvvisazione che ci ha sconvolto. Stavamo suonando e ci guardavamo increduli. Quello è stato il momento in cui è cambiato tutto.
C’è stato un momento in cui vi siete resi conto che quello che stavate scrivendo avrebbe cambiato per sempre la vostra carriera?
Assolutamente no, però col tempo ho capito che gli album migliori dei Deep Purple, sia quelli della formazione di Machine Head che di quelle successive, sono stati quelli in cui la band si divertiva. Non ti serve conoscere la nostra storia, i gossip e tutto il resto: basta ascoltare un album per capire in che momento era il gruppo. Alcune band hanno composto i loro album migliori in momenti di grossa tensione o poco prima di sciogliersi, ma non è il nostro caso. Quando non ci siamo divertiti abbiamo sempre composto album minori o buoni solo in parte. Forse anche per questo ci sono stati così tanti cambi di formazione. Anche quando ascolto album dove non ho suonato riesco comunque a capire questa cosa. In questo senso, Machine Head è l’apice di quella formazione. Il clima cameratesco aveva raggiunto un tale livello che i brani uscivano uno dietro all’altro, ma allo stesso tempo si vedeva già all’orizzonte tutto quello che poco tempo dopo ci avrebbe distrutti.
Possiamo dire che nel biennio 1971-1973 nessuno suonava dal vivo come voi? Forse nemmeno i Led Zeppelin, che si trovavano al loro apice da questo punto di vista.
Credo che non sia sacrilego, soprattutto se parliamo di un certo tipo di sonorità. Questo soprattutto perché eravamo una band di musicisti, prima che di autori, e quello potevi comprenderlo soprattutto venendoci a vedere suonare. Band come Led Zeppelin o Black Sabbath per me restano intoccabili, ma credo che in quel momento nessuna di esse potesse disporre di tre elementi come Jon Lord, Ian Paice e Ritchie Blackmore. E te lo dico perché fin da prima che io e Ian Gillan entrassimo a far parte del gruppo, il loro unico credo era che per ottenere successo e restare nel tempo fosse necessario essere degli ottimi musicisti. Un po’ l’opposto del punk, se vogliamo, ma con la stessa voglia del punk di non scendere a compromessi. Ritchie non è mai stato un mostro di simpatia, ma è una delle persone più coerenti che abbia mai conosciuto. E mi ha insegnato molto. Anche senza di lui, se avessimo suonato solo per il successo avremmo dovuto smettere nella seconda metà degli anni ’90. Quando tutti parlavano di noi come delle vecchie scoregge. Invece non abbiamo mai suonato tanto come nel nuovo millennio.
Non a caso, nella nuova edizione di Machine Head sono presenti due concerti, di cui uno completamente inedito registrato proprio a Montreux pochi mesi prima di registrare l’album.
Sì, in realtà non so bene di cosa stiamo parlando, perché non ho sentito nessuno dei due concerti. So che in quello di Montreux è presente Swiss Yodel, che è un episodio divertente, e che sostanzialmente si tratta di un bootleg. Il secondo dovrebbe essere una nuova versione di In Concert ’72. Però anche queste sono scelte della casa discografica, in cui non siamo minimamente coinvolti in prima persona. L’importante è che li abbia ascoltati tu (ride). Onestamente sono più interessato al nuovo album che abbiamo registrato alla fine dello scorso anno e che dovrebbe uscire nei prossimi mesi.