La figura di Ivan Graziani continua a sottrarsi a ogni tentativo di catalogazione, eternamente sfuggente e refrattaria alle tendenze e agli algoritmi. Anche perché la sua eredità umana e artistica è nelle salde mani di una famiglia che come poche altre ha saputo dar seguito alla sua integrità, centellinando con cura l’esposizione pubblica della sua memoria e della sua opera.
«È stato del tutto naturale», si schermisce Anna, moglie del cantautore abruzzese. «Ho iniziato a organizzare Pigro, la rassegna tributo a Ivan, ormai 26 anni fa e a tal proposito mi piace ricordare Pepi Morgia che mi ha aiutato tantissimo ad aprire alcuni canali. Poi grazie al Premio Tenco ho conosciuto diversi artisti… Per quanto riguarda la rilettura delle sue opere, Francesco Renga e Mario Venuti hanno inciso alcune loro interpretazioni; a parte loro, pochi altri… Ivan non è facile da cantare».
Non lo è mai stato, e Per gli amici, album di inediti giunto come un inatteso regalo di inizio anno, lo testimonia ancora, confermando ulteriormente — se mai ce ne fosse bisogno — l’attenzione della famiglia nella condivisione di questi materiali. «I nastri erano nelle nostre mani da prima del Covid», spiega il figlio Filippo, «e per anni siamo tornati migliaia di volte sui nostri passi, perché sentivamo l’estrema importanza di pubblicarli ma avevamo la necessità di farlo con cognizione di causa».
È per questo che il suo intervento come produttore è leggero, quasi occulto anche dove in realtà è ben presente. Una sorta di restauro, per usare le parole del secondogenito; concetto che sarebbe piaciuto a quel superlativo artista visivo che era suo padre. «Avendo vissuto così da vicino le canzoni di papà, avendo avuto la fortuna di conoscerlo anche come artista e compositore, è stato facile aggiungere quel quid che mancava per chiudere alcune canzoni in modo tale da rispecchiare il suo volere… diciamo che ho fatto un po’ da intelligenza artificiale».
Per completare il mosaico, Filippo e suo fratello Tommaso hanno sondato l’archivio dei loro stessi ricordi, e di quelli di chi ha collaborato con Ivan, «i quali hanno contribuito in modo corale a ricomporre parte del DNA artistico di nostro padre»; dopodiché lo stesso Filippo è intervenuto fisicamente nascondendosi tra le tracce vocali e chitarristiche per fare da collante tra le tessere. «Mi sono divertito a lasciare degli Easter egg, sono curioso di sapere chi riuscirà a sgamare quei due o tre punti. Certe sue chitarre erano appena accennate ma dimostravano chiaramente un’intenzione compositiva da completare… quanto alle voci, passate attraverso vari studi, molte avevano bisogno di riemergere, e in qualche occasione ho sfruttato la nostra somiglianza vocale per completare certi range di frequenze».
Il tutto è sintetizzato in un’altra metafora grafica, in omaggio al Graziani fumettista: «È stato come ritrovare un suo disegno a matita e limitarsi a chiudere il tratto e a colorare, dove necessario». In effetti, se spesso si abusa del vocabolario cinematografico per descrivere la narrazione cantautorale, certe perle di Ivan sono davvero canzoni a fumetti: «È così che riesco a ricordarmi i testi mentre le canto, sfogliando mentalmente le pagine e i disegni».
Difficile datare i provini riuniti in quello che è a tutti gli effetti un album inedito. Un termine post quem prova a darlo Anna, ricordando che intorno alla metà degli anni ’80 il marito iniziò a lavorare nel suo studio domestico, le Officine Pan Idler: «Quello è stato un grande cambiamento in meglio, perché poteva registrare in qualsiasi momento, giorno e notte. Appuntava continuamente idee musicali, anche quando guidava, utilizzando sempre quei piccoli registratori portatili: metteva giù il tema che gli era venuto in mente e poi magari lo rielaborava in studio. Di notte usciva di casa, attraversava il giardino e si rinchiudeva in studio… era molto dannunziano!».
Di alcuni pezzi Anna riesce a tracciare la genesi e i primi momenti di condivisione; ricorda bene L’italianina, «scritta quasi per gioco partendo da una vecchia canzone popolare di Alghero, il paese di sua madre», e La canzone dei marinai, «dedicata ai pescatori di Marotta». Canzone quest’ultima che aveva in qualche modo anticipato l’album attraverso la collaborazione virtuale con Colapesce e Dimartino, dei quali Filippo elogia l’operato e la coerenza compositiva dimostrata nelle loro integrazioni: «All’inizio erano intimoriti dall’idea, ma li abbiamo esortati a lanciarsi, perché venisse fuori la loro personalità. Hanno aggiunto i ritornelli e l’arrangiamento, riuscendo a conservare l’atmosfera originale, con una delicatezza di approccio ammirevole… e alla fine è stato davvero come se l’avessero cantata insieme. Sapere che ci sia una generazione di giovani artisti influenzate da mio padre mi fa estremamente piacere».
Forse perché la nuova leva si avvicina al cantautorato partendo da posizioni più musicali rispetto a quelle maggiormente letterarie dei capostipiti. «Sì, stanno iniziando a capire che la musica va anche suonata oltre che scritta (ride). Ma se in molti scoprono mio padre solo adesso è anche perché non è mai stato un artista nazionalpopolare. Anche quando ha scritto d’amore non lo ha fatto in modo convenzionale, ma raccontando storie quotidiane di persone reali, con un nome proprio, che vivevano in città ben precise».
Nazionalpopolare, Graziani padre, non lo era neanche dal punto di vista dell’immagine. «Per carità, con quei suoi occhiali rossi, le collane di pelle e i coralli al collo. Adesso sembra normale, ma all’epoca non lo era affatto», ricorda Anna, a cui fa eco il figlio: «Quando ero piccolo facevo karate, e un giorno mi rubò le protezioni dei piedi e le indossò sul palco. Poi però una volta lì pensava solo alla musica… in 42 anni non ho mai sentito nessuno di quelli che sono stati a un suo concerto esprimere giudizi “normali”… dicono tutti: “Ci spettinava! Erano in tre ma sembravano dodici”! Era un musicista vero, papà».
E musicista lo è diventato anche lui, che si definisce un prodotto della chitarra di suo padre, pur non essendo stato un vero e proprio allievo, «perché quando ho iniziato a suonare questo strumento lui non c’era più. Però sono cresciuto tra le chitarre sparse in ogni angolo della casa, ne ho sentito l’odore e lo spostamento d’aria mentre le suonava, capisci? Ho ricordi molto intimi di quello strumento. Sono come il figlio di un cavaliere medievale che cresce all’ombra della spada paterna. Dopo tanti anni, ogni giorno imparo qualcosa di nuovo sul modo di suonare di papà, mentre suono le sue canzoni capisco dove vuole andare a parare».
Da chitarrista, mi interessa saperne di più, cercare i modelli di quello stile così personale: «Ci sono dei fraseggi ricorrenti in tutta la sua produzione che sono legati al boogie, perché lui in testa ha sempre avuto i primi ascolti adolescenziali degli anni ’50, Buddy Holly, Elvis… E quello stile lì è al cuore del suo chitarrismo. Inoltre aveva una grandissima capacità di suonare a corde aperte, l’ho riscoperta proprio ascoltando i pezzi del nuovo album, aveva questa secchezza della mano destra… ho delle chitarre che se te le faccio vedere, sono rovinate tutte nello stesso punto, soprattutto la chitarra acustica, dove era superlativo. Ci sono dei video di fine anni ’70 dove lo vedi battere il pugno destro sulla cassa per dare il tempo, un modo di suonare davvero muscoloso. E poi era un metronomo, un orologio svizzero. Era un chitarrista ruspante»
Da artista non-nazionalpopolare, esattamente trent’anni fa Ivan partecipò (per la seconda volta) al Festival di Sanremo con la sua Maledette malelingue. Ricorda Anna: «A lui non è mai piaciuta l’idea della gara, e i suoi pezzi non erano propriamente adatti a Sanremo, però è stata un’esperienza positiva… a parte i battibecchi continui con Mario Luzzatto Fegiz, con cui poi siamo diventati buoni amici».
Conosciutisi nel 1965, Anna Bischi e Ivan Graziani si erano sposati nel 1972, anno dei primi singoli da solista firmati con gli pseudonimi Rockleberry Rock e Ivan & Trasport, mentre la parallela carriera di fumettista lo portava a guadagnare fino 120 mila lire a striscia per una rivista porno svedese (ripeteva spesso che «il disegnatore è libero di fare quello che vuole, mentre il cantante è nelle mani di troppa gente»).
Dell’avventura musicale di Ivan, la signora Graziani è memoria storica nel vero senso della parola, avendo seguito il marito anche in tour, sin dai primissimi anni: «Sì, perché noi il road manager ce l’avevamo, solo che dormiva in macchina con lui, e io a guidare. Gli piaceva portarmi con sé, avere vicino un pezzo di casa. Addirittura una delle ultime volte che ha presentato i provini alla RCA ci sono andata io al suo posto. Mi disse: “Amore, ti prego, vai tu perché io non ho più voglia di parlarci”… Il grande Ennio Melis aveva già lasciato l’azienda, era l’album con Prudenza mai e uno dei nuovi direttori, sprezzante, commentò: “Non è certo la Nona di Beethoven”».
Un rapporto a dir poco combattuto, quello con la casa discografica romana, una «via crucis», nei ricordi di Anna: «Un giorno eravamo in studio a fare i missaggi. Si è affacciato alla porta un tizio che credo vendesse cosmetici, faceva tutt’altro, insomma, e ha urlato: “Basta ascoltare musica, qui bisogna lavorare!”… Poi c’era anche chi, come il direttore del reparto estero Carlo Basile, riconosceva le sue qualità intellettuali e le condivideva». Il problema, per così dire, era anche nella qualità della scrittura: «Ivan era avanti e alcuni facevano fatica a capirlo», prosegue lei, «ma adesso finalmente in tanti scoprono cose di cui lui aveva scritto in tempi non sospetti, dalla pazzia al rapporto tra l’insegnante e la giovane allieva, ai produttori che approfittano delle ragazze che vogliono fare carriera… Era un vero cronista, attento alla vita di tutti i giorni. A volte sento certe notizie al telegiornale e penso che lui ci avrebbe già scritto una canzone».
Parlando dell’ambiente musicale di quegli anni, oltre alle note collaborazioni da turnista con Battisti, De Gregori, Venditti e la PFM, spuntano fuori insospettabili amicizie: «Era molto amico di Renato Zero, e aveva una certa sintonia anche con Amedeo Minghi… una volta partecipavano entrambi a una trasmissione televisiva e ricordo il loro tragitto dall’albergo al palco, arrabbiatissimi perché li avrebbero fatti cantare in playback».
Il fatto che questo nuovo album sia edito dalla Numero Uno, la casa discografica di Battisti e Mogol con cui pubblicò i suoi grandi successi a partire da Ballata per quattro stagioni (1976), chiude un cerchio. Altrettanto fa l’ultimo brano, che all’album dà il titolo, Per gli amici, in cui Ivan cita se stesso con il ritornello di Lugano addio e Filippo risponde a tono: «Quando ho sentito quel passaggio ho detto: ah sì, vuoi giocare? Allora io butto il carico! Così ho sovrainciso una mia chitarra con il groove di Monna Lisa». Un ultimo Easter egg, in attesa che nuovi bozzetti, “fragili fiori di Ivan”, saltino fuori chiedendo di essere svelati.