Parte oggi, da Firenze, il tour Cocciante canta Cocciante, in cui il cantautore di Bella senz’anima, Celeste nostalgia e Margherita si esibisce fino al 6 agosto nei luoghi più suggestivi del nostro Paese, diretto dal maestro Leonardo De Amicis, da Marostica a Bergamo, da Pompei a Roma. Tutti cantano Cocciante, ma noi lo abbiamo intervistato per chiedergli qualcosa in più sulla sua enorme carriera.
Non tutti sanno che lei iniziò nel 1972 con Mu, un album progressive rock.
È stato realizzato in pochissimo tempo perché avevo un contratto con la RCA che poi è stato chiuso. Subito dopo ne ho firmato un altro e bisognava fare uscire il disco. Con Marco Luberti e Paolo Amerigo Cassella abbiamo creato questo concept album, registrato in 15 notti.
Come in 15 notti?
Non c’erano posti negli studi RCA. Ma alla fine è stata un’uscita originale: mi discostavo da tutto quello che c’era all’epoca. Ero un alieno per come cantavo…
Cioè?
Mezzo rock, mezzo melodico. Mu è un lavoro che mi ha soddisfatto moltissimo.
E che mi dice del disco successivo, Poesia?
Non mi è piaciuto, a parte il pezzo Poesia, che si fece strada.
Come mai non le piaceva?
C’era un produttore che non voleva interpretassi le canzoni come canto io, voleva plagiarmi, chiedeva che io cantassi un po’ più “normalmente”. Mi arrabbiai molto, ma da quella arrabbiatura, come reazione, nacque il disco Anima, dov’era contenuta Bella senz’anima. La mia fu una reazione totale a questa imposizione di cantare come si deve. Io non canto come si deve.
E come canta?
Io sono un impressionista.
Mi spieghi meglio…
Sono impressionista per diverse ragioni. Le mie canzoni sono al 90% allegoriche, canto emozioni. Come un impressionista, tolgo la forma e lascio l’idea, concretizzata in musica e parole, con gli autori con cui lavoro.
Capito, ma torniamo un attimo sul suo primo lavoro Mu.
In realtà, prima avevo cantato per la colonna sonora del film Roma bene di Carlo Lizzani. Interpretai i tre brani in inglese grazie a Luis Bacalov.
Com’è andata?
Cercava un giovane che interpretasse pezzi in inglese. Quando mi vide disse subito di sì, era entusiasta per come affrontavo questi pezzi. Ne sono molto fiero.
Tornando a Mu, perché non ha continuato col progressive rock?
Non lo so perché. Forse sì, avrei dovuto continuare con un rock melodico più accentuato, mi sono lasciato trascinare da una maniera che amavo all’epoca, ma ho iniziato col rock, il rhythm & blues. Col mio gruppo facevamo i brani di Otis Redding e Jimi Hendrix. Mi sono lasciato trasportare dalle onde?
Mu può essere definita la sua prima opera moderna?
Sì, c’era un qualcosa. Quando ero giovanissimo, a Saigon, la mia cultura veniva dalla Francia, ma dall’Italia mi arrivava l’opera classica che sentivo molto. C’era in me una predisposizione a fare questo racconto in musica che non è ovvio, eh.
In che senso?
Ci sono compositori bravissimi, che fanno canzoni splendide, ma poi non riescono a fare un racconto in musica. Perché è un’altra storia. Io ce l’avevo dentro, e in Mu si capisce che c’era questa possibilità. Dopo tanti anni è uscito Notre-Dame de Paris. Amo profondamente l’espressione operistica dei nostri compositori italiani e anche di Mozart: c’è il rispetto delle melodie e del testo, ma anche della voce.
Come viene utilizzata nell’opera?
In un modo splendido, ma che non si può più usare oggi. I tempi cambiano, si canta in un altro modo. Ho amato molto anche la musica nera perché utilizza la voce martirizzandola. E io canto martirizzando un po’ la mia voce. È un modo di espressione e, anche se non è perfetto, amo questa imperfezione che rende umana l’interpretazione e quello che si vuole raccontare.
Torniamo a Anima e partiamo dal titolo. Qual è la sua anima di uomo e artista?
Anima è stato scelto come gioco di parole con la canzone Bella senz’anima. E perché, non avendo un fisico abbastanza rappresentativo, mi sono rifugiato dentro di me. Ero chiuso, introverso, e usciva solo l’anima. Chiudevo gli occhi, cantavo e finiva così. Non cercavo l’esteriorità, inseguivo dentro di me, nell’anima, un modo per esprimermi.
In quel disco c’è anche Quando finisce un amore. Quel pezzo cosa le ha dato?
Lo adoro. All’epoca, quando si usciva con un disco, c’era un singolo che poteva schiacciare tutti gli altri pezzi, come se non esistessero più. Ho questa fortuna di avere due brani per ogni album: uno era il singolo e il secondo usciva per merito acquisito. Il pubblico lo ha eletto. Cerco sempre di fare così: molti pezzi sono usciti in maniera imprevista rispetto a quelli scelti dalla casa discografica. Un tempo, poi, si facevano i dischi, non solo le canzoni.
Che intende dire?
Ogni disco voleva raccontare un momento della vita. Oggi sembrano più pezzi messi insieme, uno dietro l’altro, giusto per fare un album. Noi, quelli della mia generazione, cercavamo di creare un mondo ogni volta diverso.
Come è successo per Concerto per Margherita con cui ha lavorato con il grande Vangelis, recentemente scomparso.
Sì, abbiamo lavorato insieme a Londra. Ma vorrei menzionare tre collaborazioni. La prima è con Ennio Morricone, con il quale ho collaborato in Anima. Quando finisce un amore è arrangiata da lui.
Che ricordi ha?
Lui non capiva bene come componessi, perché non sono un musicista, non leggo la musica, non la scrivo, è tutto istintivo. Diceva che ero come un gatto che cadeva sempre sulle zampe. Ho amato molto il suo intervento nelle mie canzoni, ha dato un’eleganza che non c’era.
La seconda collaborazione immagino sia Vangelis.
Anche lui non scriveva la musica, non la leggeva: suonava e basta. Improvvisava eternamente e non ricordava più niente di quello che aveva fatto cinque minuti prima. Lui sentiva i pezzi e improvvisava con le sue tastiere. C’era una magia incredibile. Arrivammo ad arrangiare tutti i pezzi del lavoro, tranne Margherita. Alla fine mi disse: “I pezzi ce li hai, perché non togli Margherita?”.
E lei che rispose?
«Ma come? Sei pazzo? È proprio il pezzo che abbiamo scelto, il disco si chiama Concerto per Margherita!». Con lui è stato un lavoro molto interessante. Un completamento. Amo i musicisti e le persone che mi arricchiscono.
La terza menzione è per…?
Paul Buckmaster, l’arrangiatore di Elton John che ha arrangiato Cocciante, nel 1982, un ricordo bello. Loro tre – Morricone, Vangelis e Buckmaster – sono talenti. Ecco. Amo confrontarmi con questo genere di artisti. Anche se in contrasto con loro.
L’esempio più grande di contrasto che ha avuto?
Luc Plamondon e Pasquale Panella, gli autori, rispettivamente, dei testi della versione francese e italiana di Notre-Dame de Paris. Mi piace lavorare con persone che non vanno nella mia stessa direzione, perché esce qualcosa di nuovo.
Nel 1981 ha suonato al Q Concert, il live con Rino Gaetano e i New Perigeo. Cosa ricorda e che persona era Gaetano?
Mi sembra strano che oggi le nuove generazioni identifichino spesso Rino Gaetano con A mano a mano, trovo bello che i pezzi viaggino, che non rimangano fermi. La stessa cosa successe con Laura Pausini e Io canto. Le canzoni devono poter vivere.
Torniamo al Q Concert con Gaetano.
Il direttore artistico della RCA faceva concerti a tre mettendo a confronto gli artisti, quasi uno contro l’altro. Eravamo così diversi io, Rino e i New Perigeo, ma era bello ritrovarsi insieme. Abbiamo dovuto interrompere purtroppo per Rino, poi stava scoppiando Cervo a primavera e non c’era più l’equilibrio di prima.
Che persona era Rino?
Aperta, piacevolissima, sempre pronta a parlare e a discutere con gli altri. Quello che è successo, nella sua vita un po’ disordinata, lo ha portato a subire l’incidente. Peccato, era un grande talento.
Senta, ha citato Cervo a primavera. Con quel brano è iniziato il sodalizio artistico con Mogol. Cosa ha rappresentato per lei?
Con Luberti e Cassella abbiamo scritto diversi dischi, ma avevo l’etichetta del cantante arrabbiato e triste, che non proponeva qualcosa di più solare. Ho trovato, con Mogol, la parte lucente che, alternata a quella scura, diventa interessante. Da quel momento mi sono alzato dal pianoforte.
Che significa?
Per me era un problema essere sul palco e cantare in piedi. Cervo a primavera mi ha dato il lato solare. È stato come essere un comico che sa fare il tragico o un attore drammatico che sa essere pure divertente.
La sua canzone più sottovalutata?
Non ho fatto questa analisi. Ho cercato di capire quella che preferivo e penso sempre a Quando finisce un amore.
Un rimpianto?
Durante tutta la mia carriera non ho mai avuto il privilegio di essere ultra primo. Ero sempre in concorrenza con nuove proposte e mi arrabbiavo perché non riuscivo a emergere rispetto a qualcuno che, certe volte, non meritava. Ma è stato un bene.
Ah sì?
Sì, perché le mie canzoni non sono nate per essere dei successi, ma per il bisogno di scriverle. Forse hanno più probabilità di esistere nel tempo perché non sono state bruciate dal momento. Certe volte ci sono pezzi che non se ne può più di sentirli. I miei, invece, hanno un po’ di sobrietà e non erano di moda per l’epoca, anche se questa cosa mi ha fatto danni.
Cioè?
Io non ho mai voluto far parte dei cantautori politici che avevano vetrine come la Festa dell’Unità. Non essere mai di moda ha avuto declinazioni positive nel tempo, anche se all’epoca me ne lamentavo.
Ma quindi come definirebbe i suoi pezzi?
Le mie canzoni sono mie, non fanno parte di una moda. Margherita era il brano d’amore per eccellenza, uscito nel momento politico italiano più forte. Non mi aspettavo il successo, invece è uscito ed è subito esploso.
Però ultra primo una volta ci è arrivato. A Sanremo, nel 1991, vinse con Se stiamo insieme. Se lo aspettava?
Già per me andare a Sanremo era la cosa che non dovevo fare, ma con la casa discografica decidemmo di rischiare, perché la mia generazione non apprezzava il lato troppo commerciale della kermesse. Per me fu assurdo, avevo vicino gente di altissimo livello come Renato Zero e Marco Masini all’apice, era un confronto duro. Ho vinto, non tutti erano d’accordo, essendo un po’ fuori dal contesto ho penato a impormi.
Poi però non ci è più tornato, in gara, al Festival…
Non amo ripetere le grandi esperienze come The Voice, perché vorrebbe dire entrare in un ingranaggio. Faccio la mia carriera rischiando qua e là. L’ho fatto con Notre-Dame de Paris, che avrebbe potuto uccidere la mia carriera se fosse andato male.
Cosa ricorda della vittoria sanremese?
Che dissi, mettendomi un po’ tutti contro: “L’ho fatto, l’ho vinto, ma non tornerei più”. Non voglio tornare a Sanremo per dare lustro a un momento. È una scelta, la mia, senza essere contro al Festival. Ci sono persone che vanno tutti gli anni, è una decisione personale, ma non la mia.
Chi le piace tra le nuove leve della musica?
Non amo chi segue l’onda, anche se ci sono canzoni belle. Amo l’urto, quello che non si doveva fare ed esce fuori lo stesso. Come i Måneskin, che hanno rischiato a fare un tipo di rock che prende ispirazione dagli anni ’60 e ’70. Hanno fatto bene. Anche Mahmood è una proposta originale che si discosta da tutti gli altri. A livello internazionale mi piace molto Stromae, che ha associato la personalità di Jacques Brel con la musica attuale. E poi lo apprezzo anche per come vive il palco.
Nella nostra scorsa intervista mi disse che stava preparando un disco di inediti e la sua personalissima versione della Turandot. Che aggiornamenti mi dà, visto che il prossimo anno festeggerà i cinquant’anni di carriera?
Con Turandot ci siamo fermati per il Covid, ma è tutto pronto. Dovevamo fare la prima, ma poi il virus ci ha stoppati. È stato un bene: se avessimo iniziato a farlo sarebbe stato peggio interromperlo. L’anno prossimo, invece, esce un disco di inediti.
Tra i suoi festeggiamenti c’è uno show tv?
Non c’è ancora, forse ci sarà, ma nulla di programmato.
Quanto ha influito la pandemia sul suo lavoro?
È la prima volta che mi fermo così tanto tempo. È uscita fuori una nuova composizione, un’opera completa. Lo stop è servito a qualcosa.
Che mi dice, invece, della guerra?
Gli uomini sono incorreggibili. Pensavamo di esserne usciti, da queste guerre, ma ci ritorniamo: la nostra umanità è fatta di pace e di guerra, dobbiamo rassegnarci. È terribile perché ci fa capire i pazzi che ci sono ancora in giro. E siamo nel pieno momento di persone atipiche e violente. Come Trump: è stato traumatico vedere un capo di Stato agire e pensare a quel modo. L’uomo vuole sempre più potere e il potere fa impazzire le persone.
Lei oggi che artista si sente?
Un pianeta a parte. Contento di esserlo, perché l’ho scelto io, da tanto tempo. L’artista che può sperare di rimanere è perché ha un mondo suo personale che combatte, a volte con difficoltà, ma che lo caratterizza. Quando si sente una mia canzone, subito si capisce che sono io come melodia e armonia. Sono fiero quando un giornalista, parlando di Notre-Dame de Paris, mi ha detto: “Ma questo sei tu!”. E io ho risposto: “Ma chi doveva essere se non io!”. Sting, che io apprezzo molto, si è messo a scrivere un’opera imitando Puccini, e non si riconosceva più lui. Avere questo mondo prezioso è difficile, va combattuto. E io, tutta la vita, combatto e combatterò ancora.