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Rickie Lee Jones: «Canto canzoni che vien voglia d’abbracciare»

La crisi superata, la voce che oggi ha «sensualità e humour», il canzoniere di ‘Pieces of Treasure’: intervista a un’artista che non si sente né cantautrice, né interprete, ma sempre e solo storyteller

Foto: Astor Morgan

«Sto studiando l’italiano. Avevo iniziato anni fa e recentemente mi sono iscritta a Babel, non vedo l’ora di andare nei caffè e contrattare sul prezzo». Così si presenta Rickie Lee Jones: disponibile e cordiale, così distante dall’immagine di ragazza altera e inaccessibile che avevamo conosciuto al momento della sua comparsa sulla scena musicale californiana, oltre 40 anni fa. Fu subito chiaro che Rickie non era una cantautrice ordinaria; i suoi primi due album, in particolare (l’esordio omonimo del 1979 e Pirates del 1981), non erano certamente una diramazione della new wave, ma neanche si potevano dire classici, nella loro peculiare miscela di folk, rock, soul e jazz, e forti di una poetica da bohémienne che raccontava le storie dei losers e degli emarginati dell’America di quegli anni. Jones divenne immediatamente un personaggio di culto, e un chiacchieratissimo flirt con Tom Waits le diede un’ulteriore spinta per guadagnare popolarità.

Curiosamente, col passare del tempo non si è tanto consolidata la sua bravura di cantautrice, quanto di interprete. Rickie Lee Jones aveva da subito mostrato un certo interesse nel cantare il repertorio di altri autori; il primo disco in cui si cimenta nell’impresa è il mini Girl at Her Volcano (1983), mentre quello che ha avuto maggior risonanza è Pop Pop (1991). Ora arriva Pieces of Treasure, che potrebbe essere la sua prova più ambiziosa, poiché rivisita alcuni classici jazz dell’American Songbook, da Just in Time a September Song, da They Can’t Take That Away from Me a It’s All in the Game. La voce, il pathos e l’emotività di Rickie Lee Jones, che ha ormai 68 anni, attestano una maturità interpretativa di livello eccezionale.

Rickie, non è la prima volta che fai un disco di cover, in passato è già successo in diverse occasioni. Come spieghi questa tua propensione a cantare canzoni scritte da altri?
Lascia che ti risponda con un’altra domanda: se dipendesse da te, come mi descriveresti artisticamente? Mi definiresti una cantante, una cantautrice, che altro? Qual è la prima cosa che ti viene in mente?

Beh, in un certo senso stai anticipando una domanda che avrei fatto in seguito… ovviamente se penso alla prima parte della tua carriera, quando scrivevi canzoni che avevano una forte identità, ti avrei definita una cantautrice. Ma per quello che fai adesso, e considerando che ti sei evoluta in questo modo, mi sembra molto più calzante la definizione di cantante jazz, o perlomeno direi che sei soprattutto un’interprete di canzoni.
Beh, sì, hai fatto centro, e l’hai detto molto meglio di quanto avrei potuto fare io. Una cosa che trovo sempre interessante quando si parla di musica e di singoli individui con i giornalisti è che spesso si tende a identificare una persona con una singola cosa, e a non scostarsi da quel modello. Ma bisogna saper giudicare rispetto al contesto. Io mi sono sempre pensata come una cantautrice, con le doti di una grande cantante jazz. Quando canto i miei pezzi, sto semplicemente disegnando la mappa, che ha ancora ampissimi spazi per essere interpretata. Non posso realmente interpretare io stessa le mie canzoni, perché le sto raccontando per la prima volta. Ma posso interpretare le canzoni fatte dagli altri; prima riconosco le loro scelte, poi creo nuovi luoghi da esplorare, e sono brava a farlo. D’altra parte, è vero che sono anche una cantautrice unica nel suo genere, e averne conferma è gratificante.

Nel mondo del jazz, i musicisti e gli appassionati in genere si occupano solo di quello; possono avere talenti in altri campi, ma non li sfruttano. Una persona creativa dovrebbe poter fare di tutto: ad esempio, io non sono una brava pittrice, ma mi piace dipingere quadri, vengono strani e difficili, tutti istinto e nessuna formazione scolastica. Per concludere, direi in definitiva questo: che stia cantando, scrivendo o dipingendo, io sono una talentuosa storyteller.

Rickie Lee Jones ritratta nel 1981 da Annie Leibovitz

Ma pensi che paradossalmente sia più facile esprimere i tuoi sentimenti e il tuo mood attraverso l’interpretazione delle canzoni altrui, invece di comporre le tue?
È la verità, ed è sempre stato così. Ho un modo di comporre molto astratto, perché mi viene naturale in questo modo, non posso fare diversamente. Ma quando canto, mi piacciono le canzoni semplici e immediate, quelle che ti viene voglia di abbracciarle. Io non sarei capace a scrivere canzoni così, non ne sarei neanche interessata. Quindi per me accogliere le canzoni degli altri è un modo per aprirmi al mondo, che da sola non saprei fare.

Ora, al momento ci sono tantissimi autori di canzoni, di jazz o pop o doo-wop o altri stili ancora, che seguono un concetto nella loro scrittura. E questo va benissimo, per loro. Però, al contempo questo non significa che siano bravi a scrivere canzoni. Loro sono soddisfatti perché viviamo in quest’epoca in cui si tende a idolatrare qualsiasi personalità e ad apprezzare qualsiasi cosa essi facciano. Ma per quanto mi riguarda, preferisco rivolgermi al mondo del jazz, che è talmente vasto che qualcosa che apprezzo lo trovo comunque.

Quindi è per questo motivo che per il nuovo disco ti sei dedicata a pezzi classici dell’American Songbook?
In realtà, per me questo è il primo disco in cui mi dedico esplicitamente al jazz. A dire il vero avevo già iniziato a farlo con Pop Pop, ma poi il mio produttore decise di dare al disco un gusto più “argentino”, per cui l’album segue questa doppia tendenza, da una parte quella di fare canzoni più accessibili, e dall’altra di renderle sofisticate. Invece quest’ultimo disco, grazie alla supervisione di Russ Titelman, è esattamente il disco che volevo fare.

In base a quali criteri hai selezionato i pezzi da interpretare?
Russ mi ha mandato tutta una serie di suggerimenti: pezzi che avevo già fatto in passato anche molti anni prima, brani che immaginava mi potessero piacere, bozzetti canticchiati o fatti alle tastiere, eccetera. Un processo un po’ intricato che ha portato alla scelta finale – c’erano naturalmente alcuni pezzi che mi piacevano particolarmente e che volevo sicuramente fare. La prima della lista era It Never Entered My Mind, che per assurdo alla fine non è nella tracklist dell’album ma che sarà una bonus track.

Immagina ora di essere un critico musicale che deve recensire Pieces of Treasure. E dimmi a tuo parere quali sono i pezzi con la migliore interpretazione e quali in cui ci sono margini di miglioramento.
Se parliamo soprattutto della mia voce, direi che indubbiamente è invecchiata acquisendo una nuova sicurezza, ma anche assumendo una sensualità e uno humour che prima non aveva.

Io direi che comunque è rimasta una voce ancora molto fresca e luminosa, in modo abbastanza sorprendente.
Sorprende anche me, a dire il vero! Ed ero molto preoccupata, prima di iniziare a incidere con la band, che la voce fosse all’altezza. Ma poi tutto è andato per il meglio e ci siamo ritrovati a essere un vero ensemble in un unico processo creativo. Questa è una cosa che raramente avevo fatto prima… avere la sensazione di fare davvero parte di una band e di vivere insieme il momento di creatività.

Quali sono le canzoni che ritieni maggiormente rappresentative del disco? Intendo, sia dal tuo punto di vista personale che da quello dell’equilibrio musicale dell’album.
Penso che la prima canzone dell’album, Just in Time, che è anche il primo singolo, sia straordinaria. Il bello è che è nata quasi per caso, in un momento in cui il gruppo stava provando e io mi sono messa a cantare, e in questa atmosfera di relax si è formata la canzone. Just in Time parla di me, in questo momento; è swing, è sexy, è carina. Poi ho avuto una lunga relazione personale con September Song

Anche una delle mie canzoni preferite…
Io l’ho sempre amata, da quando me la insegnò mio padre, dovevo avere 8 o 10 anni. Adesso, cantarla a 68 anni, e farla in qualche modo diventare mia, seppur parli di temi universali come la speranza e il valore dell’amore… sai, andando avanti con gli anni si finisce per avere un maggiore apprezzamento delle gioie della vita, e cantare queste canzoni d’amore è veramente bello.

Da quanto ho capito, per questo disco è stato decisivo l’incontro con Russ Titelman (produttore dei primi due album di Rickie, nda), dopo 40 anni di vuoto. Che è successo?
In realtà, come lui mi ha ricordato, aveva prodotto anche Naked Songs, il mio disco unplugged degli anni ’90. Ma dopo quello, non ci siamo più visti né parlati per anni e anni. Credevo che ce l’avesse con me per qualche motivo, magari perché avevo rifiutato delle proposte di produzione da parte sua, cosa che può essere anche successa, chi lo sa. Ma quella è la sua vita: Russ produce dischi dalla fine degli anni ’50, e se li ricorda tutti. Io intanto avevo battuto altre strade, alcuni dischi li avevo prodotti io stessa, altri con l’aiuto di produttori esterni – la maggioranza dei quali, va detto, non aveva lavorato benissimo, e alcuni dei quali si erano anche rivelati misogini. E allora mi sono detta: come sarebbe lavorare con qualcuno che non solo mi conosce benissimo come artista, ma che oltre tutto mi vuole bene? Nessun altro produttore mi ha mai voluto bene…

Insomma, una relazione che trascende il rapporto professionale…
C’è un rapporto di fiducia reciproca che ci consente di fare quello che vogliamo. In assenza di fiducia, c’è un blocco insuperabile, mentre in questo caso è il contrario, ci sono le condizioni ideali per applicare il know how di Russ, che è eccezionale.

Rickie Lee Jones e Russ Titelman. Foto: Vivian Wang

Proviamo allora a tornare a 40 anni fa, a quei primi dischi che ti vedevano esordire nel mondo della musica. Che rapporto hai con loro, ti capita di ascoltarli? Ti ci riconosci ancora?
Raramente riascolto i miei vecchi lavori. Ma il ricordo è ottimo. Il mio primo disco non era solo la presentazione di una nuova artista, ma una grande raccolta di canzoni; ognuna di esse è diversa dalle altre, ma sono tutte di grande qualità. Aveva dei testi piuttosto sofisticati, c’era un po’ di blackness, r’n’b e jazz… insomma è un disco che mi suscita ancora un bellissimo ricordo. Invece se riascolto Pirates, mi piacerebbe tanto poterlo rimasterizzare: ha la voce registrata troppo bassa.

Ma a quei tempi, avresti mai immaginato che la tua carriera potesse durare oltre 40 anni?
Certo! È sempre stato il mio obiettivo. Fare della musica la mia vita… ma ho fatto attenzione a non toccare vette troppo alte, in modo che in caso di caduta non mi facessi troppo male. Ci sono troppe pop star che giungono a picchi altissimi nei primi cinque anni di carriera, ma poi scompaiono. Io ho sempre cercato di vivere una mia vita anche al di fuori delle scene, come diceva Frank Sinatra. E bisogna avere pazienza: ci sono sempre dei cicli, le cose vanno e vengono, devi saper aspettare, e credere nella musica. Credere sempre di potercela fare.

Quali sono stati il momento top e quello più basso della tua lunga carriera?
Il momento peggiore è stato 20 anni fa; credevo di non essere più in grado di scrivere, ero in piena crisi creativa, e in più ero in un periodo senza management; mi sono veramente chiesta se sarei riuscita a pagare le bollette. Contemporaneamente, alcuni giornalisti hanno scritto delle cose tremende, di gente che non conosce minimamente le cose, e fu molto brutto. Un periodo terribile, davvero. Il momento migliore? È adesso.

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