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Ride: «Comprate i dischi, non esiste un prezzo troppo alto per quel che la musica ti dà»

Se non paghiamo adeguatamente i musicisti, resterà solo Beyoncé. Lo dice Mark Gardener in questa intervista in cui parla dello spirito del nuovo album ‘Interplay’, della disputa col manager che ha rischiato di distruggere la band, del revival dello shoegaze, del prossimo tour in Italia

Foto: Cal McIntyre

«Per fare il nuovo album dei Ride c’è voluto un sacco di tempo e la band ha attraversato molti alti e bassi, più di quanto fosse mai accaduto in passato», ha detto Andy Bell a proposito di Interplay, terzo capitolo post reunion che pesca dai gruppi su cui gli inglesi si sono formati per puntare a fare musica sempre nuova anche dal punto di vista dei suoni.

Ne parliamo con Mark Gardener, l’altro frontman della band, in collegamento dalla sua casa di Burcot, nell’Oxfordshire. Non lontana da Oxford, la cittadina si trova a pochi minuti di distanza dall’OX4 Sound, lo studio di registrazione di Gardener dove il nuovo album è stato realizzato e dove nel corso degli anni sono passati Swervedriver, Brian Jonestown Massacre, Robin Guthrie. Uno studio che ha visto i Ride stare insieme non solo come musicisti ma anche come i vecchi amici che sono. Come quando, al termine delle registrazioni di Peace Sign, uno dei singoli che hanno anticipato l’uscita del disco, ispirato alle imprese del free climber Marc-André Leclerc, hanno guardato tutti insieme L’alpinista – Sogni in vetta, il documentario che racconta la storia di questo atleta visionario, scomparso in Alaska a soli 26 anni, probabilmente vittima di una valanga.

«Invecchiando si diventa un po’ nostalgici ed è naturale rivolgersi anche alla musica che ascoltavamo quando eravamo teenager e la vita non era tanto complicata», dice Gardener a proposito dei riferimenti del nuovo album. «Mi vengono in mente The Hurting dei Tears for Fears, ma anche i Depeche Mode, una band che ho amato e che amo ancora. A quei tempi ascoltavo sempre la raccolta dei loro singoli: New Life, Blasphemous Rumours… Sono influenze che ci sono sempre state. Soprattutto poi non volevamo sentirci ostacolati dal fatto di essere considerati una band che rappresenta una scena. Veniamo sempre classificati come gruppo shoegaze, qualsiasi cosa significhi, ma volevamo semplicemente essere liberi di fare una musica ispirata sia da quella che amavamo da teenager sia da quella che ancora oggi ci piace scoprire».

Quando avete debuttato con Nowhere nel 1990 eravate poco più che teenager, ma l’influenza di queste band non era certo evidente. Il vostro suono era molto diverso dal loro.
È vero, e il motivo era che a me e Andy (Bell, ndr) piacevano moltissimo anche altri gruppi di quel periodo come gli Smiths e gli Echo & The Bunnymen, che rappresentavano maggiormente l’idea di underground che amavamo. A Andy piacevano moltissimo anche i Fall. Quando poi abbiamo iniziato a suonare con Steve (Queralt, ndr), lui lavorava in un negozio di dischi di Oxford e quindi aveva un osservatorio privilegiato sui dischi interessanti che uscivano. Mi vengono in mente quelli della Creation e della 4AD, i My Bloody Valentine, i primi House of Love, i Cocteau Twins. Era bravo a buttarceli lì, e noi pensavamo: sono band nuove, diverse da tutto quello che conosciamo, e sono fantastiche. Il suono dei nostri primi pezzi derivava quindi da un mix tra questi gruppi e gli altri che ascoltavamo e amavamo, come appunto gli Smiths e ovviamente i Beatles.

Il nuovo album è meno centrato sulle chitarre rispetto ai vostri precedenti lavori. Chi ha suonato i sintetizzatori?
Steve è più di tutti l’uomo dei synth. Per Interplay è arrivato con delle tracce piuttosto definite, ma anche Andy li suona un po’. Durante la prima parte del lavoro io invece mi sono occupato delle registrazioni e del suono, perché non avevamo con noi nessuno che lo facesse: eravamo solo noi quattro. La maggior parte dei pezzi che sono finiti sull’album arrivano da quelle prime sessioni e sono molto orgoglioso di come suona il disco, perché di base è stato fatto tutto nel mio studio.

A proposito di sintetizzatori mi ricordo che, un paio d’anni dopo il vostro primo album, una vostra cover di The Model dei Kraftwerk venne inserita in una compilation benefica messa insieme dal New Musical Express. Era una cosa molto diversa dal vostro suono di allora, ma poi siete andati avanti con le chitarre.
Quella cover era molto fedele all’originale, a parte la mia voce. Ai tempi stavo ancora imparando a suonare la chitarra, mentre Andy era già un grande chitarrista. Era lo strumento che avevamo scelto per fare rumore, volevamo ottenere quel suono tipo cascata. Poi però non abbiamo mai fatto due volte lo stesso disco: alla fine ci si annoia se si cerca di fare sempre le stesse cose. I nostri album sono sempre stati abbastanza diversi l’uno dall’altro. Usare un certo strumento è come usare un colore. Nel nostro caso l’uso di chitarre e bassi si è evoluto nell’uso dei synth. È stata un’evoluzione naturale: non mi piacerebbe stare in una band che si ripete, è una cosa che non mi interessa proprio.

Del resto il rock’n’roll non è solo chitarre. Ce l’ha detto Jim Reid a proposito del nuovo album dei Jesus and Mary Chain.
Ecco, sono molto d’accordo con lui. Non ho ancora ascoltato il nuovo album ma li seguo dai tempi di Psychocandy, un disco che ho amato molto.

Come vi siete divisi i compiti di scrittura dei nuovi pezzi?
La maggior parte delle backing tracks sono nate con noi quattro che suonavamo insieme in studio. È questo l’interplay a cui fa riferimento il titolo dell’album, è una parola chiave nella creazione del disco. Molti dei pezzi sono nati a partire da idee su cui uno di noi aveva lavorato a casa sul proprio computer. Interplay è insomma un titolo perfetto per questo disco perché abbiamo condiviso la responsabilità della scrittura delle canzoni, e i pezzi sono il frutto di tanti input diversi. Essendo in quattro a partecipare a questo processo, le idee nuove non mancano mai.

Il mese prossimo inizierà un lungo tour che vi porterà prima negli Stati Uniti, poi in Europa e Giappone e infine in Gran Bretagna. Al momento però non sono previste date italiane.
Proprio oggi ho visto un piano di massima per il 2025 e dovremmo essere in Italia intorno a marzo-aprile. Mi spiace che ci voglia così tanto tempo ma intanto magari ci sarà tempo perché il nuovo album giri un po’.

Come suonerete le nuove canzoni dal vivo? Ci sarete solo voi o si aggiungeranno altri musicisti per la parte elettronica?
Ci saremo solo noi quattro. Ce la caveremo bene: abbiamo già preparato le tracce con le parti di synth più d’atmosfera, per essere liberi di suonare le chitarre. Aggiungere altri musicisti non sarebbe stato praticabile: già così è difficile guadagnare abbastanza.

Andy Bell ha detto che per realizzare il disco avete attraversato molti alti e bassi. Cos’è successo?
La cosa più grave è successa a tutti ed è stata la pandemia. Due persone molto importanti per noi erano soggetti fragili, quindi è stato molto complicato perché avevamo paura di poterle contagiare e creare grossi problemi. Questo ha fatto sì che per molto tempo non ci siamo incontrati di persona, per precauzione. Tra l’altro nel febbraio 2020 eravamo in tour e abbiamo fatto l’ultimo live proprio in Italia (il 4 febbraio alla Santeria di Milano, nda). In precedenza eravamo stati anche in Cina, quindi eravamo piuttosto preoccupati. Tornati a casa, c’è stato il lockdown. L’altra cosa davvero brutta è stata che avevamo licenziato il nostro manager, ma lui aveva un team di avvocati molto aggressivo e ci ha chiesto un sacco di soldi. In pratica, nelle sue intenzioni, avremmo dovuto versarglieli a rate come in una sorta di pensione integrativa. È stato orribile perché ha provato a chiederci una parte di guadagni che risalivano a molti anni fa. Diciamo che non ha preso molto bene il licenziamento e, se le cose fossero andate come lui sperava, avrebbe praticamente distrutto la band. Questo perché i soldi che ci ha chiesto non c’erano. Il suo team di avvocati era migliore del nostro e in questi casi chi ha il team migliore porta a casa il risultato migliore.

Com’è finita?
Abbiamo fatto un accordo extragiudiziale. Questa faccenda ci ha ricordato che la musica siamo noi, mentre lui non era mai stato la musica, perché lavorava con noi per i soldi. Spesso si legge di band a cui capitano cose simili, e quella volta stava capitando a noi. Ce l’abbiamo fatta e ne siamo usciti più forti, anche se ne avremmo fatto volentieri a meno. Dato che siamo musicisti, avevamo a disposizione uno strumento per fare in modo che tutto quello stress e quella frustrazione potessero trasformarsi in qualcosa di creativo. Il disco nuovo è arrivato anche così.

Come si regge economicamente un gruppo come il vostro?
Di soldi ne girano pochi, a meno che tu sia Ed Sheeran o Beyoncé, o una band molto famosa. È dura perché non siamo più giovani come agli inizi: abbiamo delle responsabilità e dei figli. Lo streaming ha cambiato tutto. La fonte di guadagno sono i concerti. Senza quelli, saremmo costretti a fare un altro lavoro. Ma anche così, io lavoro in studio tutto il giorno, Loz è in università (il batterista Loz Colbert è assistente alla cattedra di musica popolare dell’Università di Huddersfield, nda), Steve lavora anche lui e Andy ha tutti i suoi altri progetti musicali. Insomma, per sopravvivere dobbiamo fare dei lavori integrativi: non possiamo contare solo sui Ride. È così da anni, e molte persone se ne stupiscono perché veniamo percepiti come un gruppo di successo. Ovviamente questa situazione non riguarda solo noi, ma anche tutte le altre band con cui abbiamo parlato.

Negli anni ’90 guadagnavate molto di più?
Senz’altro e poi non avevamo le nostre famiglie e le responsabilità che abbiamo oggi. Negli anni ’90 era di sicuro tutto più facile e incassavamo di più perché vendevamo i dischi. Con quelli e con le royalties ci si poteva campare. Dalla reunion in poi, invece, solo il primo anno è andato bene anche dal punto di vista economico, anche se per pagare le bollette e il mutuo ho dovuto continuare a lavorare in studio. Diciamo che, da allora, ciascuno di noi ha sempre avuto un altro lavoro accanto ai Ride.

Dalla reunion sono passati dieci anni. Quali sono le principali differenze all’interno della band tra la prima parte della vostra carriera e quella post reunion?
Oggi siamo uomini, allora eravamo ragazzi ed eravamo un po’ “fuori”. Mi sembrava di essere alla guida di una macchina molto veloce che rischiava sempre di schiantarsi contro un muro. Come band eravamo anche molto incoerenti, attraversavamo alti e bassi ed eravamo confusi e disorganizzati. Oggi siamo più maturi e abbiamo messo su muscoli, siamo più forti. Suoniamo meglio, a partire dai live. Questo ha anche a che fare con la tecnologia: sul palco ciascuno sente quello che fanno gli altri, mentre agli inizi io non è che sentissi molto. Sentivo molto rumore, ma nella prima parte della nostra carriera non penso di aver mai potuto ascoltare la voce di Andy mentre eravamo sul palco: cercavamo di cantare in armonia in mezzo a tutto quel rumore. Come ci riuscissimo è ancora un mistero.

E in studio di registrazione?
Abbiamo imparato un sacco, l’esperienza rende tutto migliore. Abbiamo anche capito che possiamo andare avanti solo se facciamo grande musica. Non ci possiamo affidare a cose che abbiamo pubblicato trent’anni fa. Se continuassimo a suonare solo i vecchi dischi, chi verrebbe più ai nostri concerti? Ci sarebbe sempre meno pubblico. La sfida per noi è fare dei bei dischi adesso, e penso che ci siamo riusciti, al contrario di altre band che sono tornate insieme. Nei Ride c’è ancora una buona intesa: se non fosse così il nuovo album farebbe schifo.

Ci sono tante band più giovani di voi, come DIIV, Bdrmm, Just Mustard e altre ancora, che hanno sempre detto di essersi ispirate allo shoegaze. Ce n’è qualcuna che ti piace in particolare?
I DIIV mi piacciono, e anche i Bbdrmm, ho anche una loro maglietta. Mi piace che in alcune di queste band si senta un’influenza e che allo stesso tempo ci abbiano messo del loro. Quelle che fanno musica genericamente shoegaze invece non mi interessano. Insomma: mi piacciono i gruppi che mi portano in posti dove non sono ancora stato. E poi devono avere buone canzoni. Ma ci sono anche delle band che hanno iniziato con noi e che fanno ancora dei buoni dischi. Penso agli Slowdive, che mi sono sempre piaciuti. Sono contento per il loro successo di oggi, stanno andando bene anche in America.

Alcune canzoni delle band che abbiamo appena citato hanno avuto successo anche grazie a TikTok. Qualche settimana fa James Blake ha scritto che i musicisti si sono trasformati in influencer e questo a discapito della qualità della musica. Oggi usiamo principalmente tramite le piattaforme di streaming. Come vivi oggi da musicista questo passaggio, ormai avvenuto, dalla musica dei dischi alla musica di internet?
Un minimo è necessario adattarsi. Io sui social ci sto poco. Instagram o X sono un po’ come cartelli stradali che dicono: io sono qua. Mi piace parlare delle band che apprezzo o che sono passate per il mio studio, è anche un modo per far pubblicità al mio lavoro. Da questo punto di vista i social sono una cosa utile. Non mi piace invece dire: oggi sono qui e mi sto mangiando un gelato. Coi social ho un rapporto di odio-amore. Andy è molto più presente di me su Instagram, io ci sto poco anche perché onestamente non ho tempo. Il mio è un approccio più vecchia maniera.

E delle piattaforme streaming cosa pensi?
Fino a tre mesi fa non le avevo mai usate. Poi mi sono iscritto a Tidal, ma non ho Spotify o Apple Music. I soldi non arrivano ai musicisti, quindi non volevo dar da mangiare alla bestia. Ma capisco che oggi funziona così. Io stesso non posso permettermi di comprare tutti i CD che vorrei ascoltare. Quando i musicisti arrivano nel mio studio, prima di mixare o di masterizzare chiedo loro quali dischi amano e poi li ascolto per farmi un’idea dei loro gusti. Prima li compravo, ora li ascolto su Tidal. Da un lato sono contento perché risparmio, dall’altro sono combattuto perché penso che sto rubando la musica di qualcun altro. E so bene quanto tempo e quanta fatica ci vogliono per fare musica. So anche che ci sono tante persone per cui la musica è importante, ma se i musicisti non vengono pagati rimarrà solo Beyoncé, e gli altri non sopravviveranno. Nessuno lo fa per i soldi, ma non puoi fare il musicista a un certo livello se sei costretto a fare anche un altro lavoro a tempo pieno.

Tornando ai social, più siamo connessi attraverso i nostri telefoni e meno lo siamo nella vita vera. Siamo esseri sociali e abbiamo bisogno essere maggiormente comunità, di essere connessi con persone vere. I social alla fine ci disconnettono dagli altri, e penso che sia importante trovare un equilibrio tra presenza sui social e vita vera. Anche qui, però, sono contento se qualcuno scopre i Ride attraverso Instagram e viene ai nostri concerti. Il mondo va così e dobbiamo farcene una ragione. Ma per me la musica rimane un tesoro: i miei dischi, i miei CD, le band che mi piacciono. Penso che dieci sterline per un CD siano poche in confronto alle emozioni che un album mi suscita. Non esiste un prezzo troppo alto per quello che la musica ti può dare.

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