Il primo album di Rina Sawayama, artista giapponese cresciuta a Londra, si intitola semplicemente Sawayama ed è uscito in un mese infausto di un anno ancora più infausto: aprile 2020. Come se non bastasse, non si trattava certo di un album adatto all’ascolto contemplativo e malinconico in lockdown: smaccatamente pop, ispirato ai locali e ai sound di culto della comunità LGBTQIA+ di cui Rina è fieramente parte, è tutto da ballare e da cantare a squarciagola. Insomma, sulla carta il tempismo era davvero pessimo. Ciononostante, in patria (e cioè in Inghilterra, perché ormai la cantautrice è naturalizzata britannica, anche se resta molto legata alle sue radici asiatiche) è diventato un piccolo fenomeno di costume, arrivando ad attirare una fan base affezionatissima.
Per non perdere l’onda Rina Sawayama si è messa a scriverne immediatamente un altro, nonostante le restrizioni dovute al Covid perdurassero e ballare fosse ancora un sogno lontano. Il risultato, concepito durante il lockdown e tutto il periodo delle chiusure e riaperture a singhiozzo, vede la luce adesso: si intitola Hold the Girl, uscirà il 16 settembre 2022 e la conferma ulteriormente come la più probabile potenziale erede di Lady Gaga. Ci ha lavorato, tra gli altri, con il super produttore Paul Epworth, lo stesso di Florence + The Machine, Rihanna e Adele, per intenderci. «Lavorare con lui era nella mia lista dei desideri da sempre, ha scritto e prodotto molti dei miei dischi preferiti», dice Rina, in collegamento via Zoom da Londra. «È una persona davvero aperta, incoraggiante e tranquilla, nonostante sia una leggenda vivente».
Tra gli altri sogni impossibili realizzati di recente, anche quello di lavorare con Elton John a un remix di Chosen Family, il brano del 2020 che racconta gli affetti e i legami che si creano nella comunità LGBTQIA+. «Elton era già molto legato alla canzone, che la sua famiglia adora», spiega. «Ha un significato speciale per lui: negli anni ’80 e nei ’90 era la tua cerchia ristretta nella comunità LGBTQIA+ a supportarti se eri sieropositivo o se succedeva qualcosa di brutto, perché molti non facevano coming out con i genitori o i fratelli biologici e vivevano una doppia vita. E per lui, che ha attraversato quei decenni, è ancora più bello vedere come si è trasformata la realtà».
Hai esordito durante la pandemia, quando non potevi concretamente renderti conto del successo ottenuto…
E infatti è stato veramente strano: ho capito che stava succedendo davvero, che la mia musica era ascoltata da persone reali e non da avatar virtuali, quando ho ripreso a suonare nei club e ai festival (ride). Ancora non mi ci sono abituata, in realtà, mi emoziono molto. Cerco di concentrarmi su ciò che devo fare, ma pensare a come verranno percepite le mie canzoni dalla gente mi spaventa un po’.
Quando li hai incontrati faccia a faccia, i tuoi fan erano come te li aspettavi?
Incontrarli mi ha aiutato a confermare la validità di ciò che stavo facendo. È curioso pensare che qualcuno possa essere così legato alla tua musica, in generale. Mi ci è voluto un po’ per adattarmi, soprattutto all’inizio, subito dopo la pandemia: incontrare le persone era diventata una tale rarità che valeva anche per i fan. Ma sono stata così commossa dal loro entusiasmo che la paura è subito passata. Il fatto che mi dicessero che il mio album li avesse aiutati a superare quel brutto periodo e a tenergli compagnia durante il lockdown ha significato molto, per me.
Hai raccontato che anche per te gli ultimi due anni sono stati particolarmente duri e che hai sperimentato una forte ansia sociale, tanto che sei rimasta chiusa in casa anche quando finalmente le autorità hanno dato il via libera per uscire. Cos’è successo?
Avevo il panico che, se fossi stata contagiata e avessi a mia volta contagiato gli altri, un sacco di persone avrebbero perso tantissime opportunità. Parlo dei professionisti freelance che lavorano con me, soprattutto. Non è che non uscissi del tutto: alcune cose riuscivo a farle – soprattutto impegni di lavoro, qualche live, qualche shooting – ma solo con rigorosissimi controlli. Tutti dovevano fare i tamponi, tenere le mascherine tutto il tempo, isolarsi preventivamente… Avevo il panico di prendere il Covid e rovinare tutto per me e per gli altri del mio team, perciò mi caricavo eccessivamente di responsabilità e pressioni e non volevo socializzare al di fuori degli incontri professionali, per non rischiare di ammalarmi. Tutto ciò, ovviamente, a un certo punto ha avuto ripercussioni molto negative sulla mia salute mentale. Ero fin troppo cauta e mi arrabbiavo tantissimo con quelli che non erano disposti a prendermi sul serio. È stato un periodo difficile, ma ora mi sento molto meglio, e anzi, sono molto felice che la vita stia ricominciando come prima.
Mentre eri a casa hai ascoltato molti dischi country, che sono stati un grande spunto nella creazione di Hold the Girl. Non riesco a pensare a un genere musicale più lontano da te e dal tuo mondo, sinceramente…
Per me il country – anzi, il country-pop, per essere precisi – rappresenta la vera autenticità senza filtri, in termini di songwriting. Trasforma l’ordinario in straordinario, creando delle immagini pazzesche partendo da fatti ed eventi molto comuni. È l’arte dello storytelling allo stato puro. Adoro soprattutto le artiste donne: Kacey Musgraves, Emmylou Harris, Dolly Parton, Linda Ronstadt. Ma in generale ascolto quasi sempre solo donne, gli unici maschi che ho sentito parecchio ultimamente sono stati Harry Styles e The Weeknd. E a livello di suoni, per me che non sono americana il country sa di libertà: mi fa pensare alla natura selvaggia, ai canyon e ai deserti. Un modo come un altro per evadere con la fantasia mentre sei in lockdown, insomma.
Molti dicono che il secondo album è sempre il più difficile. È stato così anche per te?
Non sentivo la classica pressione da secondo album, anche se in effetti capivo che, se avevo avuto tutta la mia vita per scrivere il primo, stavolta i tempi dovevano essere molto più ristretti. Una deadline dietro l’altra. Diciamo che la parte più dura in questo caso è stata la logistica, perché è stato registrato interamente durante la pandemia. Alcuni di noi erano a Londra, altri a Los Angeles, altri ancora a Nashville, il che era un bel casino. In più, ero completamente priva di stimoli e ispirazione in quel periodo: non era il momento di creare nulla di nuovo, per me. Non riuscivo a pensare a nulla di peggio che a dover scrivere un album (ride). Poi, però, ho capito che dovevo uscire dal buco nero in cui ero precipitata: ho cominciato a parlare con altri songwriter per capire come se la cavavano loro, e pian piano, con l’aiuto di tutti, ce l’abbiamo fatta. E sono molto fiera del risultato, perché nonostante le premesse sono riuscita a non scendere a compromessi e a trasformare i sentimenti negativi in musica.
E in effetti il sound di Hold the Girl è estremamente gioioso: non si direbbe che è stato scritto in un momento buio della tua vita…
All’inizio è stata davvero dura, ma poi tutto è venuto naturalmente. La sfida più dura è stata trovare delle tematiche, perché con il fatto che la mia vita la trascorrevo chiusa in casa, non sperimentavo nulla di nuovo. Ero nel fiore degli anni – ho compiuto 30 anni in isolamento – ma non potevo fare nulla. Però era un’ottima età di cui scrivere: un momento in cui sei adulto, ma ricordi ancora bene cosa pensavi e provavi quando eri teenager. Allo stesso tempo, cominci a porti delle domande esistenziali: sei abbastanza grande per diventare genitore, e ti chiedi che tipo di madre o padre saresti. Un sacco di canzoni dell’album riflettono proprio questi stati d’animo. È stato un processo di introspezione illuminante, ma ha rappresentato anche una bella sfida.
A proposito di genitorialità, hai dedicato una canzone a tua madre, Catch Me in the Air. Cos’ha detto quando l’ha ascoltata?
L’ha adorata, anche se ovviamente le riesce difficile pensare che scrivo canzoni su di lei. Non abbiamo mai avuto un rapporto facilissimo, ma è contenta che io sia riuscita a mettere in musica ciò che abbiamo vissuto. Sicuramente in cuor suo si augurava che arrivassi a fare tutto ciò che desideravo nella vita, a differenza sua: come molti immigrati con figli piccoli, ha dovuto lottare e soffrire molto per assicurarmi un futuro. Credo che ora abbia la percezione che l’ho vendicata, in un certo senso (ride).
Non è l’unico modo in cui hai vendicato gli immigrati nel Regno Unito: di recente hai convinto il Mercury Prize, uno dei principali premi musicali nazionali, a cambiare i criteri delle sue nomination, ammettendo anche persone non nate sul suolo britannico, ma naturalizzate inglesi.
In realtà non ho la sensazione di avere fatto qualcosa in prima persona: sono stati soprattutto gli altri – i miei fan, la stampa, le petizioni – a fare notare che non era giusto che non potessi essere candidata al Mercury per quel motivo. Molte altre persone erano nella mia stessa condizione, tra l’altro, anche tanti dei miei collaboratori. Mi sono limitata a raccontare i fatti, e grazie ai miei incredibili fan, la storia è diventata virale. Un paio di mesi dopo, la regola è stata cambiata. È importante non tanto per il premio in sé, ma perché è un riconoscimento del valore di un artista o di un’opera, da cui gli immigrati erano esclusi. Che messaggio potevano trarne? È stato un cambiamento straordinariamente simbolico.
Altro traguardo simbolico: quest’anno hai partecipato in veste di attrice al tuo primo film, il quarto capitolo della saga John Wick...
Non è che sognassi disperatamente di apparire sul grande schermo, sia chiaro. Ero solo molto interessata all’ambiente del cinema e alla recitazione. In fondo già avevo sperimentato la sensazione, perché nei miei videoclip interpreto diversi personaggi, ma è stato molto bello farlo su scala molto più grande. Un’esperienza pazzesca, molto fisica: sul set ti stanchi tantissimo, gli orari sono molto dilatati, ma il risultato è stato fantastico e ne è valsa davvero la pena.