Puoi ascoltare “Everything Will Be Alright in the End” mentre leggi:
Rivers Cuomo ora è più tranquillo. Dopo otto mesi al Village, uno studio di Santa Monica, gli Weezer sono all’ultimo giorno di registrazione del loro primo album da quattro anni. Gli ultimi due dischi, Raditude (2009) e Hurley (2010), sono forse stati gli album meno amati di 20 anni di carriera.
Cuomo sembra rapito nei suoi pensieri, mentre suona inespressivo la stessa parte di chitarra per decine di volte. Va al posto dell’ingegnere del suono: «Come si fanno i loop? Command-L?».
Avevo un sacco di canzoni, ma non sapevo cosa farmene.
Ogni volta che c’è una pausa va in una saletta a consultare un Google doc, dove ha annotato in modo iperspecifico quello che resta da fare. Ogni canzone ha un numero e una lunga lista di note: “Rifare l’assolo”, “legare meglio i suoni” e così via. Gli altri Weezer sono abituati al suo modo di lavorare, ma ormai lasciano intravedere un filo di esasperazione.
Quando si accorge di avere bisogno di un coro, il frontman 44enne scrive su Facebook: “C’è qualcuno che vuole cantare con gli Weezer?”. Mezz’ora dopo ecco il coro improvvisato: il bassista Scott Shriner, il chitarrista Brian Bell, la moglie di Cuomo, una ragazza della reception, due attori di un Romeo e Giulietta che a Cuomo è piaciuto, un paio di amici di Facebook.
Il video di “Back To The Shack”:
Cantano più volte: “Everything will be all right / In the e-e-end…”. Con il Blue Album (1995) gli Weezer si erano proposti come l’alternativa nerd e divertente ai gruppi grunge ultraseriosi che andavano per la maggiore. Dopo il disastroso Pinkerton (1996, autoprodotto), erano tornati dal vecchio produttore Ric Ocasek e aveva funzionato; il Green Album (2001) fu disco di platino. Sono da lui di nuovo, 13 anni dopo.
«Volevo un album complesso, ma classico, avevo un sacco di canzoni, ma non sapevo cosa farmene», dice Cuomo. Ha trovato una risposta nella meditazione, esercizio quotidiano che Rick Rubin gli consigliò nel 2003.
Gli Weezer suonano “Island In The Sun” nel 2010:
Ha perdonato il padre, un batterista jazz che aveva visto tre volte in 20 anni e che poi è diventato pastore pentecostale («Un po’ come il papà di Katy Perry»).
Guarda i suoi sermoni prima di salire sul palco. «Mi sono sempre trovato a disagio come frontman e guardare lui, che mi assomiglia, mi aiuta più di guardare David Lee Roth», continua. «Spesso, sul palco, penso: “No, non sto andando bene”. Ma ho quasi fatto pace con tutto».
Leggi la recensione di Everything Will Be Alright in the End.
Questo articolo è stato pubblicato su Rolling Stone di ottobre. Potete leggere l’edizione digitale della rivista, basta cliccare sulle icone che trovi qui sotto.