Rkomi – In viaggio oltre il rap
Nel nuovo album ‘Taxi Driver’ il cantante è un tassista che porta in giro i suoi ospiti, tra cui Tommaso Paradiso, attraverso i territori non solo del rap, ma anche dell’indie, del pop, della canzone d’autore. Il disco nasce dalla voglia di uscire dalla comfort zone e fare musica senza etichette. «Vorrei che al pubblico brillassero gli occhi come brillano i miei quando ascolto Dalla o Battisti»
Foto: Tarfu Studio
Quando si decide di intraprendere un viaggio, le strade che ci si pongono davanti sono molteplici. Si può scegliere la destinazione più prestigiosa e gettonata del momento, oppure esplorare nuovi territori ancora poco battuti. Si può scegliere il percorso più comodo e veloce, oppure quello più tortuoso e accidentato. Si può procedere in solitaria, oppure in compagnia di nuovi compagni di viaggio. Si può optare per un mezzo di trasporto di lusso, come un jet privato, o per uno non convenzionale, come un vecchio taxi giallo. Davanti a tutti questi bivi Mirko Martorana, in arte Rkomi, anni 27 tra pochi giorni, ha sempre selezionato l’opzione B.
La sua storia comincia all’interno della scena rap, quando nel 2016, ad appena 22 anni, pubblica un mixtape di culto come Dasein Sollen, che convince una leggenda come Marracash a prenderlo sotto la sua ala e a curare la direzione artistica del suo album di debutto, Io in Terra (2017). Sono gli anni in cui la cosiddetta “nuova wave” dell’hip hop italiano rivoluziona completamente i canoni del genere e il mercato discografico, e lui ne è uno dei protagonisti indiscussi. Nonostante i presupposti per una carriera da rapper di grande successo ci siano tutti, però, Rkomi è un animo inquieto e curioso per natura (un po’ come uno dei suoi grandi idoli, John Frusciante, che all’apice del successo dei Red Hot Chili Peppers è uscito dal gruppo per inseguire i suoi sogni), e non si accontenta di seguire il percorso che il destino sembra aver tracciato per lui. Più si avventura fuori dalla sua comfort zone e più quello che scopre gli piace: senza esitazioni, decide di sterzare bruscamente verso la musica suonata e cantata, anche se non ha mai preso in mano uno strumento e non ha mai scritto una canzone nel senso più tradizionale del termine. Il risultato è l’album Dove gli occhi non arrivano, del 2019, che contiene i primi tentativi non tanto di cambiare genere musicale, ma di crearne uno tutto suo, che mantenga alcuni elementi delle sue origini ma che sia proiettato verso un sound più caleidoscopico, con collaborazioni con Elisa, Jovanotti, Dardust.
Taxi Driver (di cui per ora conosciamo solo il titolo), il suo nuovo lavoro in uscita il 30 aprile, ha portato questo concetto ancora più lontano, pescando riferimenti e spunti dalle sonorità italiane e internazionali di ieri e di oggi. «I contenuti li ho curati in ogni aspetto», ci racconta in un soleggiato pomeriggio milanese. «Nel 2021 non basta più solo il talento musicale, ci vuole talento anche nello scegliersi i collaboratori, nel dare un’impronta visiva importante ai progetti, nel saperli comunicare nella maniera adatta. Comincio a capirlo solo adesso».
Quando hai iniziato ad allontanarti dal rap e ad avvicinarti al mondo della musica suonata?
Alla fine del 2018, con le collaborazioni con musicisti come Jovanotti ed Elisa: non abbiamo semplicemente registrato insieme, abbiamo condiviso tanto, e per me è stato illuminante, perché mi sono reso conto che fino ad allora mi ero perso moltissime cose. Conoscevo bene l’hip hop, ma non sapevo niente di tutto il resto e non avevo idea che si potesse lavorare anche in un altro modo. Il pubblico hip hop in Italia è molto “agorafobico”, e questa è una sensazione che mi è sempre arrivata moltissimo, soprattutto dopo Dove gli occhi non arrivano: per me sarebbe stato fin troppo facile fare un disco di strofe rappate e ritornelli, la gente avrebbe dovuto apprezzare il fatto che avessi provato una strada diversa, e invece spesso mi sono sentito incompreso. Ci sono stato anche male.
Appunto: chi te l’ha fatto fare? Da dove nasce l’esigenza della svolta?
Non sentivo più l’adrenalina, il brivido del rischio. Ho ricominciato a provare quelle sensazioni proprio grazie a Dove gli occhi non arrivano, un progetto dove mettevo con le spalle al muro l’ascoltatore e mi presentavo di nuovo. Poi è arrivata l’idea di Taxi Driver, un album di collaborazioni atipiche, capace di attraversare tanti territori diversi, dall’indie alla trap al pop al rock al cantautorato, “portando” gli ospiti a casa loro. Anche a rischio di finire in luoghi dove non mi ritrovo io. Un po’ come fa un tassista, che guida tutto il giorno per la città trasportando i suoi passeggeri verso la loro destinazione. Taxi Driver per me è un film incredibile, l’ho visto decine di volte: ovviamente non condivido per niente il modo di vivere di Travis Bickle, il protagonista, ma ne capisco perfettamente il nichilismo, l’ansia, le paure, le fobie. Non a caso è un disco meno leggero del precedente, più tormentato.
La prima collaborazione atipica che ci sveli è quella con Tommaso Paradiso, per il singolo Ho spento il cielo…
Con lui ho costruito un gran bel rapporto. È una persona estremamente intelligente e, nonostante sia già un nome di primo piano, è davvero alla mano. Mi sono reso conto che spesso più gli artisti sono famosi, più sono umili: Jovanotti, Elisa, Tommaso, ma anche Sfera, che magari da fuori non dà assolutamente quest’impressione. Un altro artista con cui mi piacerebbe lavorare, che stimo moltissimo ma che non conosco ancora personalmente, è Cesare Cremonini.
Si dice in giro che tu ormai non ascolti neanche più rap…
Non è proprio così, in realtà. Se capita che esca il disco di qualcuno che apprezzo moltissimo, come Nas, me lo vado a cercare. Al momento, però, ascolto soprattutto rock: i Morphine, i Primus, John Frusciante… Ma anche artisti pop come Dominic Fike. Sto crescendo tanto. Da otto mesi sto prendendo lezioni di piano, dopo aver tentato anni fa quelle di chitarra, che avevo abbandonato, forse perché ancora non ero pronto. Ora ho trovato un maestro incredibile, e il pianoforte mi sta cambiando la vita. Mi piacerebbe diventare un grande cantautore, prima o poi.
Cosa significa “cantautore” per te che vieni da tutt’altro ambito?
Non credo ci sia questa grande differenza tra un cantautore e un rapper, se non nell’approccio più profondo, semplice ma non banale. Vorrei che al mio pubblico, prima o poi, brillassero gli occhi come brillano i miei quando ascolto un pezzo di Dalla o di Battisti.
Spesso, per la critica, gli artisti che arrivano dal rap e non hanno un background musicale tradizionale vengono trattati quasi da figli di un dio minore, o vengono presi in considerazione più per le loro storie personali che per la loro produzione…
Sì, è una cosa che soffro un po’ anche io, ma credo sia questione di tempo: devo ancora dimostrare chi sono e cosa faccio, e quando ci riuscirò il problema sparirà. Comunque in generale cerco di non dare troppo peso ai pareri esterni, infatti anche sui social non sono molto presente. Più che con la critica, però, mi trovo in difficoltà con alcuni fan: quelli del rap sono estremamente nostalgici, e se ti allontani dal posto in cui ti hanno conosciuto, li hai persi automaticamente. Non vogliono che tu cresca, in un certo senso. Forse è colpa anche nostra, non siamo ancora riusciti a spiegare bene che cos’è l’hip hop e come funziona l’evoluzione.
Tu sei parte di quella che viene definita la “generazione 2016”: artisti come te, Sfera, Tedua, Ernia, Ghali, che hanno portato in Italia le sonorità della trap, tra le altre cose. Avresti potuto cavalcare quell’onda in eterno, ma te ne sei distaccato quasi subito…
Quello che ho voluto fin dall’inizio è che, piaccia o non piaccia, il nuovo progetto di Rkomi ti faccia sempre dire «cazzo, non me l’aspettavo». Tendo a resettare completamente il passato, in tutti gli ambiti: nella musica, con gli amici, con le donne… Una volta che si è chiuso un capitolo, il passato non esiste più. Tempo fa leggevo che quando due aragoste si contendono un territorio, per riuscire ad accettare meglio la nuova situazione l’esemplare che sloggia azzera la sua memoria: ecco, io sono proprio così.
Oddio, questa è davvero strana! Dove l’hai letta?
In un libro di Jordan B. Peterson, uno psicologo canadese che spiega concetti scientifici in maniera molto semplice: si intitola 12 regole per la vita. Io leggo tantissimo, anche se ho iniziato tardi a farlo. Ultimamente Come il fiume che scorre di Paulo Coelho, Il mondo di Sofia di Jostein Gaarder, L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, Invisible Monsters di Chuck Palahniuk…
A proposito, la tua scrittura è sempre stata considerata molto complessa e articolata. Nel tuo libro del 2018 Ossigeno, però, raccontavi che i tuoi testi sono poco ragionati, un flusso di coscienza. È ancora così?
No, è molto diverso. È stato così fino a Dove gli occhi non arrivano, ma poi ho capito che dovevo cambiare, perché volevo approfondire le mie liriche. In più, lavorando con i musicisti il metodo è molto diverso, ci vuole più tempo e più struttura.
Il lavoro, in senso lato, è una cosa che ti distingue da molti altri tuoi colleghi e coetanei: rispetto a tanti altri artisti giovanissimi passati direttamente dai banchi alle classifiche, tu hai passato anni a lavorare anche dieci ore al giorno prima di diventare famoso…
Esatto, ho cominciato a 16 anni nel ristorante di mio zio, e poi a 18 ho lasciato la scuola e ho lavorato a tempo pieno, perché volevo l’indipendenza. Per quanto mi riguarda è stata una fortuna: era una vita pesante, rispetto ai miei amici mi perdevo un sacco di cose perché non avevo il tempo di farle, ma mi faceva stare bene. Ovviamente, col senno di poi, mi pento di aver mollato gli studi, ma da subito avevo in mente che 18 anni me ne sarei andato di casa. L’avevo anche annunciato a mia mamma con grande anticipo.
E lei?
È stata furba: per mantenere una zona di comfort per entrambi, e per sentirsi più tranquilla, inizialmente si è trasferita lei, lasciandomi quella che era casa nostra a Calvairate per sei mesi. Nel frattempo mi ha raggiunto Tedua, che ai tempi viveva a Genova e veniva a Milano una volta a settimana: nel giro di breve è diventato il mio coinquilino e dopo un po’ abbiamo trovato un altro appartamento insieme, permettendo a mia mamma di riprendere possesso di casa sua.
È contenta della carriera che hai intrapreso, alla fine?
Sono una persona molto insicura e autocritica, ma anche molto responsabile: le mie cazzate le faccio con una tale cognizione di causa che riesco a cavarmela in ogni situazione. Ci sono stati dei periodi in cui non ero per niente contento e rilassato anche se con la musica avevo ingranato, e quindi si preoccupava: giustamente, è felice se io sono felice. Rispetta moltissimo il fatto che mi sono fatto da zero, come artista ma soprattutto come uomo, visto che non ho mai conosciuto mio padre. Ho dovuto affrontare parecchie prove, per arrivare fin qui.
La prova più grande qual è stata?
Non mi va mai troppo di parlarne, per quanto tanti altri miei colleghi lo facciano. Diciamo che ho avuto tante problematiche familiari, che ci hanno fatto parecchio soffrire. Sono cresciuto con mia madre, una donna eccezionale che mi ha tirato su da sola, e mio fratello maggiore, che è una persona incredibile, a cui voglio un mondo di bene. Ha fatto tante cose, nei miei confronti sempre giuste, ma per se stesso molto sbagliate. Intendiamoci, né io né mia mamma siamo dei santi (ride). Insomma, abbiamo tutti dei caratteri molto forti. La prova più grande è stata proprio mettere insieme queste tre identità e farle convivere.
Soprattutto in un contesto con spazi molto ridotti come possono essere le case popolari di Calvairate, immagino. È difficile non pensare a come debba essere stato affrontare un lockdown in quella situazione.
Io ho ancora tutti gli amici e parte della mia famiglia lì: ovviamente è stato molto difficile, perché gli appartamenti sono piccoli e le famiglie parecchio numerose (noi abitavamo in tre in 60 metri quadri ed eravamo quelli fortunati), ma c’è anche tanta solidarietà e fratellanza. Ci si offre il caffè tra vicini, ci si aiuta, cosa che magari in zone più residenziali non succede. È una cosa che mi manca molto.
Oggi, per molti, essere cresciuti nelle case popolari è diventato quasi uno status symbol, tanto che perfino chi ha origini super borghesi finge di provenire da quel contesto. Come ti fa sentire questo?
Magari fosse stato così ai miei tempi! Noi non avremmo mai potuto imbucarci in una festa di ragazzi ricchi, per dire. È una moda, tutti vogliono essere quello che non sono, anche nel rap. In realtà chi ha vissuto davvero esperienze estreme spesso le nasconde, perché ci è stato male e non ha voglia di rivangare il passato. Oppure perché non è nel suo interesse condividerle.
Con il tuo quartiere hai ancora un legame molto forte?
A marzo dell’anno scorso ho aperto una palestra lì, che si chiama Sit Hanuman e ha tra i soci i miei due maestri di Muay Thai, un’arte marziale thailandese che pratico quotidianamente da moltissimi anni. Ovviamente il Covid ha messo tutto in stand-by, ma l’idea sarebbe quella di fare pagare la quota d’iscrizione in base al reddito, in modo da dare a tutti i ragazzi la possibilità di fare sport. Io stesso ho iniziato a praticare Muay Thai grazie al mio maestro, senza pagare, perché non ne avevo la possibilità. È stato lui a capire che ne avevo un gran bisogno: grazie al suo aiuto e a questa disciplina sono cambiato totalmente. La palestra avrà anche una sala ricreativa con una biblioteca e una PlayStation a disposizione di tutti, in modo da dare a tutti un’alternativa, rispetto a stare tutto il giorno a farsi le canne in piazza. Avrei tanto voluto che ci fosse un posto del genere quando ero piccolo io.