A dieci anni esatti dall’ultimo lavoro da studio e dopo aver passato lungo tempo on the road a rievocare il mito dei Doors, Robby Krieger torna a pubblicare nuova musica. The Ritual Begins At Sundown suona come un atto liberatorio capace tanto di rievocare l’avventura del gruppo capitanato da Jim Morrison, quanto la passione di Krieger per la musica strumentale e per l’insegnamento di Frank Zappa. La nuova uscita ci ha dato l’occasione di capire le difficoltà dell’uomo nel rapportarsi con nuovi cantanti, di ricordare (e magari chiarire) alcuni episodi controversi della storia dei Doors e di accettare senza rimpianti il passare del tempo. Perché, come confessa Robby, “le tue cose migliori le scrivi tra i diciotto e i ventun’anni, ma le comprendi solo se riesci ad invecchiare”.
Possiamo definire The Ritual Begins At Sundown il tuo album più zappiano in assoluto?
Assolutamente sì, e non solo per la cover di Chunga’s Revenge. Io e Arthur Barrow siamo amici di vecchia data e abbiamo lavorato tanto insieme fin dagli anni settanta. Una cosa che ho capito è che, se sei stato alunno di Zappa, è molto difficile togliersi quell’imprinting. Qualsiasi cosa ti metti a fare, sarà sempre segnata da quell’esperienza. Questa volta, io e Arthur abbiamo voluto esagerare, radunando un po’ di vecchi amici che avevano lavorato con lui e Frank: Tommy Mars alle tastiere, Chad Wackerman alla batteria, Jock Ellis al trombone e Sal Marquez alla tromba. Credo che Zappa rappresentasse qualcosa di culturalmente molto simile ai Doors alla fine degli anni sessanta. Era estremo come lo eravamo noi, ma senza pezzi che potessero passare alla radio. I nostri testi e la nostra musica indagavano un lato dell’animo umano che forse si voleva tenere nascosto, perché pericoloso. Però tirammo fuori anche dei singoli capaci di arrivare anche al popolo. I suoi andavano a demolire tutto quello che trovavano per la loro strada, senza compromessi e senza mai curarsi dell’aspetto commerciale. Per noi fu una rivelazione assoluta.
Il titolo sembra rimandare al rituale del saluto al sole che avviene al tramonto a Venice Beach.
In realtà l’ho preso dal titolo del dipinto che è diventato poi la copertina del disco. È una mia opera. Chiaramente, tanto il quadro che il titolo rimandano proprio all’immaginario di cui parli. Los Angeles, con tutte le sue contraddizioni e le sue follie, rimane uno dei posti più magici che tu possa incontrare e la mia arte non può che esserne sempre condizionata. Non importa viverci, né per quanto tenpo tu l’abbia frequentata. Basta averci passato del tempo, anche poco tempo, perché ti segua per sempre. Mi piace l’idea di portare con me tutto quello che sono stato, senza però rendermi ridicolo o scimmiottare quello che sono stato. Se vado in giro con John Densmore, come ho fatto a lungo con Ray Manzarek, ripropongo quello che sono stato, lo celebro e do ai fan quello che vogliono. Se però torno in studio, non voglio evocare quello. O, quanto meno, non voglio fare solo quello. Non a caso, i miei ultimi album sono totalmente strumentali, mi sento libero di spaziare tra i generi e di non sentirmi un vecchio nostalgico.
Non credi però che dieci anni tra un album e l’altro siano un lasso di tempo che non potrai più permetterti in futuro?
Forse hai ragione, per questo ora ho finalmente uno studio personale. Ho scritto tantissimi pezzi e nel giro di qualche mese usciranno altri due album. Questa volta non del tutto strumentali. Quando hai avuto a che fare con uno come Jim Morrison, è difficile immaginare qualcuno al microfono. Amo molto la musica strumentale, ma negli anni mi sono reso conto che registrare brani senza cantante era un modo per evitare confronti, per non dovermi trovare nella condizione di dire “se qui ci fosse stato Jim”. Ora invece sono riscito a fare un lavoro da questo punto di vista. Sto lavorando con cantanti molto giovani e, allo stesso tempo, chiedendo aiuto ad alcuni amici. Un brano dovrebbe essere cantato da Macy Gray. Ho scritto un brano a cui sono molto legato e che è dedicato a Brandon Lee, il figlio di Bruce. In primavera uscirà anche la mia biografia, dopo anni di richieste da parte dei fan.
Nonostante abbiate venduto milioni di album e facciate parte da cinquant’anni dell’immaginario collettivo mondiale, ho sempre pensato a voi come la band meno compresa tra quelle esplose negli anni sessanta.
Assolutamente. Ne ho parlato per anni con Ray e ci siamo sempre definiti una sorta di paradosso nella storia del rock. I nostri album vendevano tantissimo già ai tempi, non abbiamo dovuto attendere la scomparsa di Jim per essere compresi da chi ci conobbe alla fine degli anni sessanta. Invece, col tempo, hanno iniziato a considerarci un po’ come una band legata a un periodo storico ben preciso, non come a qualcosa senza tempo. Forse perché molti di quelli che ci ascoltavano conoscevano solo i brani che passavano alla radio. E anche chi comprava gli album, lo faceva per ascoltare le hit che aveva sentito. La nostra discografia è piena di brani dimenticati e questo dà perfettamente l’dea di quanto non siamo stati capiti.
È per questo che hai deciso di pubblicare una cover di Yes, The River Knows?
Yes, The River Knows è il mio brano preferito tra quelli che ho scritto per i Doors ed è proprio uno di quei brani che solo i fan più accaniti hanno amato. E magari nemmeno loro. Ma potrei citarne mille altri. Gli album di molti nostri colleghi dell’epoca sono stati sezionati, analizzati in ogni loro parte. Non ti sto dicendo che sui Doors non esista una bibliografia sterminata, ma inevitabilmente è quasi tutta impernata sulla figura di Jim. Cosa per altro giustissima, in un certo senso. Jim è stato probabilmente il più grande vocalist della storia del rock e di certo il miglior partner compositivo che avrei potuto trovare, ma un certo punto la nostra musica non interessava più. Interessava solo venirci a vedere sperando che Jim desse di matto. È stato un momento molto triste, perché noi sapevamo chi fosse e quanto potesse anche cadere in basso.
Non si è mai compreso del tutto il perché della vostra assenza a Woodstock. Fu legata alla paura degli organizzatori dopo l’incidente di Miami o cosa?
Sono nate molte leggende circa la nostra assenza. La verità è che fummo invitati, ma stavamo trattando anche una data a New York. Quando ci trovammo a discutere la cosa, Ray se ne uscì con una frase tipo: Ragazzi, stiamo davvero pensando se suonare a New York o in un prato in mezzo al nulla? Se volete suonare davanti a venti persone, allora scegliamo Woodstock. Ecco la verità. Ray era fantastico da quel punto di vista, ma in quel caso sbagliò alla grande. Sai com’è, per noi New York era un posto speciale, credo abbiamo fatto i nostri concerti migliori da quelle parti. C’era sempre un’atmosfera particolare. Suonammo in questo club. Ray era ancora convinto di aver fatto la scelta giusta. Poi scoprimmo la verità.
Col senno di poi, forse è stato meglio così.
Ci ho pensato spesso. Come sai, quello fu un momento davvero drammatico. Molti ci consideravano in fase calante, anche dal punto di vista musicale. The Soft Parade non era stato accolto bene. La stampa lo definì un disco di Jim Morrison accompagnato da un’orchestra. Miami ci diede il colpo di grazia. Ho pensato per anni di non essere stato capace di salvare Jim, ma col tempo ho capito che fu già un miracolo essere riusciti a tenerlo con noi per un altro paio d’anni. La verità è che nessuno avrebbe potuto salvarlo. Non so come sarebbe potuta andare una serata come quella di Woodstock, forse come quella all’Isola di Wight, probabilmente molto peggio. Devi pensare che a Wight suonammo l’estate successiva, quindi più di un anno dopo rispetto a Miami e comunque Jim non era già più quello di un paio d’anni prima. Fu una performance corale molto buona, ma se conosci la nostra storia sai anche che quel Morrison era un animale in gabbia.
Eppure The Soft Parade non era così male come lo dipinsero. Conosco molte persone che lo ritengono un gran disco. Diverso, ma un gran disco.
Spesso mi hanno detto che chi ama davvero i Doors, lo fa senza alcun pregiudizio. Ho parlato con persone che considerano quell’album alla stregua dei primi due o di L.A. Woman. Non so. Tuttavia, credo anch’io non fosse affatto un brutto lavoro. Non fui io a volere tutti quei fiati, ma chi arrangiò brani come Touch Me o Tell All The People fece un lavoro eccezionale. Anche The Soft Parade stessa è fantastica. In altri casi, invece, alcuni buoni brani sono stati in qualche modo sotterrati da tutti quegli strumenti e l’idea di pubblicare una versione stripped dell’album è nata proprio da lì. Sono operazioni che talvolta fanno storcere il naso, ma è stato quasi un gioco, del tipo “così ora non ci rompete più le palle con questa cosa degli ottoni”. L’unica cosa certa è che buttammo un sacco di soldi: già fare duecento take per un brano ti porta alla follia, ma farlo in uno studio in affitto è quasi criminale.
Perché allora avete dovuto un altro album prima di utilizzare uno studio di vostra proprietà?
Perché Paul Rothchild decise di lasciarci a piedi solo prima delle registrazioni di L.A. Woman. Morrison Hotel servì a rimetterci un po’ in asse e a rimetterci in pace con le nostre radici. È stato il preludio a L.A. Woman in qualche modo. Se Paul fosse rimasto con noi, non avremmo mai potuto registrare un nuovo album nei nostri uffici, non ce l’avrebbe mai permesso. Già era terrorizzato dal fatto che Jim potesse morire da un momento all’altro come Janis Joplin, pensa se avrebbe mai accettato che potesse cantare i brani nel cesso del nostro quartier generale. Eppure, quando ci mollò, ci salvò la vita. Ritengo ancora che L.A. Woman sia il nostro album migliore e se Jim avesse fatto ritorno da Parigi, avremmo sicuramente continuato a lavorare in quel modo. Ognuno arrivava in studio con delle idee, Jim non si sentiva braccato e le tensioni erano sparite. Credo che Riders On The Storm sia una delle cose più incredibili che abbiamo mai fatto. Non a caso, su The Ritual Begins At Sundown, Tommy Mars la cita all’interno dell’assolo di Hot Head.