Nell’estate del 1989 Paul McCartney è partito per il primo tour solista. Siccome coi Wings negli anni ’70 faceva poche canzoni dei Beatles e nel nuovo tour ne avrebbe suonate una ventina, gli serviva un chitarrista in grado di ricreare le parti strafamose di George Harrison e John Lennon. Poteva chiamare i chitarristi più celebri del mondo, ha scelto Robbie McIntosh. «È stato il momento più alto della mia vita», racconta il chitarrista via Zoom dalla sua casa di Weymouth, in Inghilterra. «Più di così non si può avere».
McCartney lo ha ingaggiato per incidere Flowers in the Dirt e Off the Ground, e l’ha riportato on the road con sé per il New World Tour del 1993. Ma il lavoro di McIntosh con McCartney rappresenta solo una piccola parte del suo cv musicale. Nell’83, poco dopo la morte di James Honeyman-Scott, è entrato nei Pretenders suonando in classici come Middle of the Road e Don’t Get Me Wrong, prima di farsi da parte nel 1987 per dedicarsi alla famiglia.
Negli ultimi anni ha girato il mondo con John Mayer, Norah Jones, Tom Jones e Sinéad O’Connor e ha lavorato in studio con Céline Dion, Tori Amos, Talk Talk, Tears for Fears, Josh Groban, Mark Knopfler e tanti altri, troppi da elencare.
Come hai conosciuto James Honeyman-Scott?
Ai tempi dei Foster Brothers. L’ex ragazza di Graham Foster, che era il leader della band, usciva con James a Hereford. Lui poi è venuto a Londra, una volta per fare l’audizione con Chrissie per entrare nei Pretenders, e così ci siamo conosciuti. L’anno in cui sarebbe morto m’ha chiamato, voleva rimpolpare il suono live e avere un altro chitarrista per poter suonare un po’ di piano. Si era accorto di essere un po’ limitato con la sola Chrissie che suonicchiava la Telecaster. A lui piacevano Beach Boys, Beatles, Who e Kinks, era molto musicale. Chrissie era più sul garage rock, le piacevano Mitch Ryder, Question Mark and the Mysterians, cose punk tipo Ramones e New York Dolls. Era la cosa più bella dei Pretenders, questo incontro tra lui e lei.
Com’è andata l’incisione di Learning to Crawl?
Ci conoscevamo già abbastanza bene prima di entrare in studio, stavamo provando da qualche settimana. Una delle prime cose che abbiamo fatto è stata 2000 Miles. Lei ci ha fatto ascoltare un pezzo alla chitarra, io mi sono messo a giocherellare e ho iniziato ad aggiungere le mie parti.
Chrissie ha detto che forse avrebbe dovuto accreditarti come co-autore.
Davvero l’ha detto? Che cosa carina. È successo lo stesso con Middle of the Road e sono sicuro che sia accaduto altre volte anche con Jimmy.
Ti sentivi un componente della band o un musicista stipendiato?
Un membro a tutti gli effetti, Chrissie ha sempre voluto che ci sentissimo una band.
Sempre in quel periodo è morto anche il bassista originale dei Pretenders, Pete Farndon. Sono successe tante cose tragiche in pochissimo tempo.
Quando è successo l’avevano già scaricato. Jimmy l’aveva cacciato perché non riusciva a suonare. Era un eroinomane. Ho incontrato Pete solo una volta, è stato in studio durante il missaggio del secondo disco, ma è stata una cosa veloce.
Qual è il tuo ricordo più bello di quando hai suonato allo US Festival?
Oh Gesù (ride)! Fare lunga chiacchierata con Steve Wozniak. Non sapevo di cosa stesse parlando, a dire il vero. O forse era Steve Jobs? So per certo di avere parlato con uno di loro due. Ero dietro le quinte a guardare Joe Walsh, che è salito sul palco dopo di noi. Mia moglie era lì con la mia figlia maggiore, che ora ha 40 anni. Ricordo che Dave Hill, il manager dei Pretenders, mi ha detto di muovermi il più possibile sul palco, voleva che fosse un’esibizione emozionante, così mi sono messo a correre in giro come un matto. Riguardare quel video è imbarazzante.
Raccontami del Live Aid.
Avevo un fazzoletto in testa e continuavo a versarci sopra dell’acqua per rinfrescarmi. Sul palco c’era un gran casino, i monitor erano assordanti. Abbiamo suonato tutto velocemente. Avevamo solo 20 minuti e l’idea di Martin [Chambers, il batterista dei Pretenders] era suonare più canzoni possibile in quei 20 minuti, anche al doppio della velocità rispetto al disco. È stata una bella giornata. Ho incontrato le altre band, ho conosciuto i Beach Boys, mi hanno presentato Carl [Wilson], che era molto amico di James Honeyman-Scott. Ho conosciuto anche Bruce Johnston.
Hai visto suonare i Led Zeppelin?
Solo un pochino. Ero insieme a Charlie Burchill dei Simple Minds. Io, lui e il nostro pianista Rupert [Black] bevevamo birra e gironzolavamo. A un certo punto abbiamo chiacchierato con Jeff Bridges. Non ricordo di aver assistito a tutto il set degli Zeppelin, ma ricordo di aver visto i Power Station.
È stressante essere sul palco sapendo che un miliardo di persone ti sta guardando?
Sì, anche se oggi ne sarei molto più consapevole. All’epoca avevo 27 anni e a quell’età non si è così spaventati, si fanno le cose e basta. Quando ho suonato con McCartney a Rio davanti a tutta quella gente mi è sembrato un concerto come tanti. Non sapevo che avrebbe battuto tutti quei record.
Dimmi della lavorazione di Get Close, era un periodo tumultuoso per il gruppo.
La band a quel punto si riduceva a me e Chrissie. Il disco è stato una creazione di Jimmy Iovine e Chrissie. Non credo che a lui piacesse molto la batteria di Martin, penso che Jimmy volesse che il tempo fosse un po’ più preciso. Chrissie non era più granché interessata e la band era composta solo da me e lei. Ho inventato io la parte di chitarra divertente di Don’t Get Me Wrong. Abbiamo inciso un demo e siamo volati a New York. La canzone è stata registrata per il film Gung Ho, con Michael Keaton, una commedia su un’azienda automobilistica che viene rilevata. La casa cinematografica ci ha spesato per volare fino a New York su un Concorde. Abbiamo preso con noi Paul Wickens, che ora è il tastierista di Paul McCartney, e un bassista. Chrissie ed io abbiamo fatto amicizia con Steve Jordan, che ora è nei Rolling Stones, ha suonato lui la batteria in Don’t Get Me Wrong.
A quel punto vedevi Chrissie come un’amica o come la tua capa?
Eravamo amici. Lei e mia moglie andavano molto d’accordo perché erano in stato interessante nello stesso periodo. Il suo primo figlio, avuto con Ray Davies, è nato più o meno nello stesso periodo di mia figlia. Siamo ancora amici. Non suono più nei Pretenders, ma ho fatto un concerto di beneficenza con lei, qualche mese fa.
Perché hai lasciato il gruppo nel 1987?
Non ne potevo più di andare in tournée. Volevo stare a casa. Mi sembrava di trascurare il mio matrimonio.
Chrissie era stupita? Eri stato la spina dorsale della band negli anni precedenti.
L’ha presa bene. È una persona molto forte. Ha detto: «Ah, ok». E poi non stavo guadagnando particolarmente bene, non prendevo diritti d’autore, ma non è per questo che me ne sono andato.
Ti ha dato fastidio aver avuto un ruolo importante nella creazione di alcune grandi hit, senza però ricevere i crediti da autore?
Non sono il co-autore, ho solo ideato le parti di chitarra. Si potrebbe dire lo stesso di quello che George ha fatto nelle canzoni dei Beatles. Erano scritte da John e/o Paul. Mi dicevo: ho solo inventato le parti di chitarra, non ho scritto i testi, non ho scritto la melodia, ho solo pensato a un riff orecchiabile. Quindi no, non mi dà fastidio.
Come sei entrato nell’orbita di Paul McCartney?
Ho incontrato Paul e Linda in studio, quando ancora stavo nei Pretenders, ma solo per salutarli e prendere una tazza di tè. Hamish Stuart era un mio amico, faceva già parte della band di Paul e probabilmente gli ha detto: «Conosco Robbie, è un bravo ragazzo» o qualcosa del genere. Mi ha raccomandato, insieme a Chrissie. Sono andato a suonare qualche brano nello studio di Paul e poi agli Olympic Studios. Per Flowers in the Dirt ha chiamato tre o quattro produttori. Una parte l’ha fatta da solo, poi ha lavorato con Mitchell Froom, Chris Hughes e Ross Cullum. Non ho suonato su nessuno dei pezzi di Trevor Horn. Ricordo che ero agli Olympic Studios e c’erano Paul e il suo manager. Mi hanno chiesto: «Vuoi unirti alla band per suonare dal vivo?». «Non voglio stare in giro per tanto tempo. Non sono sicuro». «Be’, non staremo mai via per più di tre settimane alla volta». «Va bene, allora».
Sei fan dei Beatles fin da ragazzino, com’è stato suonare con Paul in studio?
All’inizio ero terrorizzato, ma poi è stato assolutamente fantastico. Lui era gentilissimo. Gli ho raccontato di aver imparato Blackbird quando avevo 12 o 13 anni, come tutti. Gli ho mostrato come la suonavo, ma c’era un pezzo che era leggermente diverso. Non ha detto: «È sbagliato». Ha detto: «Oh, io non lo faccio così». Mi ha chiamato a fare l’Unplugged, anche se non avevo una telecamera puntata su di me. Era me che guardava per gli attacchi.
Prima d’allora non era mai stato in tour da solista, era stato in giro coi Wings negli anni ’70, ma non aveva mai fatto tante canzoni dei Beatles in concerto.
Vero. Alcuni di quei pezzi non li aveva mai fatti dal vivo, come Sgt. Pepper.
E poi Can’t Buy Me Love, Things We Said Today e tanti altri.
Già. Anche il medley di Abbey Road e Magical Mystery Tour. Ovviamente la roba dei Wings che abbiamo suonato l’aveva già fatta. È stato notevole che ci abbia consentito di dare dei suggerimenti. Non credo sia stata sua l’idea di fare la cosa di Abbey Road, penso sia stata di Wix, che è ancora il suo tastierista. Lo vedo ancora spesso, è uno dei miei amici più cari. Eravamo tutti insieme nei Chris Thompson and the Islands. Per il secondo tour, del 1993, è stata mia l’idea di fare Fixing a Hole, dato che ho sempre amato quel brano.
Alcune di queste canzoni lui le aveva eseguite l’ultima volta in studio o sul palco con George Harrison alla chitarra. Com’è stato?
Fantastico. Di All My Loving, per esempio, non ho voluto cambiare l’assolo per suonare cose mie. In Fixing a Hole, io e Hamish abbiamo suonato l’assolo insieme, visto che nel disco è raddoppiato. Ecco perché è così potente, sono due chitarre, Paul l’ha raddoppiato con George. Io e Hamish l’abbiamo rifatto nota per nota. È stato fantastico. Nel medley di Abbey Road, potevamo suonare quello che volevamo quando facevamo il botta e risposta di chitarre, alla fine. E poi in Let It Be ci sono due assoli diversi. L’assolo del singolo e quello dell’album sono completamente differenti. Lì ho fatto una cosa mia. In realtà era un po’ una merda, a pensarci bene, era un po’ troppo rock. E poi ho avuto tutto per me quel piccolo momento, alla fine di Things We Said Today, in cui si passa a Eleanor Rigby. Ci ha dato molta libertà. Era un grande bandleader, Paul. Non ci diceva mai «suonate questo» e non si lamentava mai di quel che facevamo. Magari diceva: «Puoi fare questo pezzo un po’ più così o cosà?». Almeno con me, non è mai stato particolarmente esigente. Forse è stato un po’ più pignolo con Hamish che suonava il basso, visto che Paul è un bravo bassista. No, non mi sarebbe piaciuto essere nei panni di Hamish. Nel pop non ci sono bassisti migliori di Paul e di James Jamerson. Se vuoi essere un bassista, ascolta loro due. Hanno tutto. Tutto.
Che differenza c’è tra Paul persona e Paul icona?
Considerato chi è e che il mondo ruota intorno a lui da quando aveva 19 o 20 anni, è incredibile. L’ho visto durante l’ultimo tour. Non lo rivedevo da anni. L’ho incontrato la sera prima che suonasse a Glastonbury, quando ha fatto un concerto a sorpresa. Non era lontano da dove vivo. Io e [il batterista] Chris Whitten siamo andati in camerino da lui, c’erano la moglie e la truccatrice. Abbiamo chiacchierato per cinque minuti. È stato fantastico. Sembra molto più vecchio, ma ha 80 anni.
Adoro l’album Unplugged. Lo ha fatto prima di tutti gli altri grandi.
La cosa bella di Paul è che ha detto: «Se lo facciamo unplugged, dovrà essere completamente unplugged». Nessuna di quelle chitarre acustiche era a spinta attaccata, erano solo microfonate. Questo significa che non potevamo girare per il palco, dovevamo stare vicini al microfono. Il pianoforte e la batteria erano microfonati. Niente strumenti elettrici, solo microfoni.
Lavorare a Off the Ground è stata un’esperienza positiva? Mi sa che è stato diverso da Flowers in the Dirt.
Molto diverso. Gli unici produttori erano Paul e un tizio chiamato Julian Mendelsohn. Era più un ingegnere del suono che un produttore, a dire il vero, ma aveva prodotto alcune hit. Abbiamo fatto tutto nello studio di Paul. Secondo me a quell’album manca qualcosa, è un po’ monotono. In Flowers in the Dirt con tutti quei produttori e il tempo che ci è voluto per realizzarlo ci sono un sacco di colori diversi. Di Off the Ground mi piace la title track, dove suono un po’ di slide, cosa che adoro fare. Ci sono un paio di canzoni scritte da lui con Elvis [Costello] che sono fantastiche, ma non è un grande album. Però ci siamo divertiti un sacco.
In cosa è stato diverso il tour 1993 da quello del 1989?
C’erano alcune canzoni diverse. L’allestimento del palco era differente. È stato un grande tour.
Parlami di Linda.
Una delle persone più gentili che abbia conosciuto. Si comportava nello stesso modo con tutti, non importava se pulivi le stanze dell’hotel o se eri un’attrice o un attore di grido o chissà che. Non si dava arie. Io, mia moglie e i miei figli abbiamo passato una giornata fantastica a casa di Paul e Linda. C’erano anche Stella e Mary. James era ancora piccoletto. Avevano dei piatti su cui si poteva dipingere e poi si mettevano nel forno. Li abbiamo ancora. Linda era la più simpatica. Adorabile. Quando lavoravamo a Off the Ground, andavamo un paio di volte alla settimana a casa loro e lei cucinava. Nel fine settimana ci mettevamo a guardare la tele. Era davvero bello.
Che tragedia che sia morta così giovane.
Sì. L’ultima volta che ho suonato con Paul dopo il tour di Off the Ground, lui ci ha congedati tutti. Poi è uscita la Anthology dei Beatles. Ho suonato con lui alla serata di beneficenza per Montserrat alla Royal Albert Hall (nel 1997, ndr). Linda era ancora viva, è morta circa sei mesi dopo, all’epoca era malata. Ho detto a Paul: salutamela.
Quando Paul è tornato in tour, nel 2002, speravi che ti chiamasse?
Sì, ma non è successo. Ha assemblato una band tutta americana. Aveva il tastierista era americano, ma poco prima della partenza del tour ha abbandonato la nave e quindi Paul ha richiamato Wix: lui era davvero l’unico che avrebbe potuto farlo ed è anche un tipo fantastico.
Di recente hai caricato una serie di dischi solisti su Bandcamp. Deve essere una bella soddisfazione.
Adoro scrivere, non mi è mai bastato essere solo un chitarrista. Preferisco scrivere cose piuttosto che suonarle e basta. E poi il mondo della chitarra è un po’ una giungla: ci sono così tanti grandi chitarristi in giro e a me la competizione non piace. Mi sono un po’ defilato e scrivo le mie cose. Non devo cercare di suonare come Larry Carlton o Stevie Ray Vaughan. All’inizio mi ispiravo un po’ a Ry Cooder e ai Little Feat, ma adoro Ron Sexsmith. Vorrei poter scrivere canzoni come lui: è un genio assoluto. E McCartney, Lennon, Jimmy Webb, Bob Dylan. Queste sono le persone che ammiro davvero. E anche Chrissie.
Ti mancano i grandi palchi? Se John Mayer o qualcun altro ti richiamasse torneresti alla vita fatta di jet privati e arene?
Non ne sono sicuro, non mi piace granché volare. Ho avuto una trombosi venosa profonda quando ho fatto la chemio e non è stato piacevole. L’idea di fare voli a lungo raggio mi preoccupa. Dopo essere stato male ho volato un po’, ma non tratte lunghe. Detto questo, ci penserei su.
Cosa speri di fare nei prossimi cinque anni?
Vorrei registrare altri album e magari andare un po’ più in tour con la mia band. Sarebbe fantastico. La prossima settimana farò una cosetta in trio, qui in zona. E la mia band suonerà a un matrimonio la settimana dopo. È un gruppo di quattro elementi. Ma vorrei solo continuare a scrivere, davvero. E rimanere vivo (ride). Sarebbe bello.
Da Rolling Stone US.