Non è ancora tempo di separazione tra Robert Plant e Alison Krauss. «Cantiamo assieme sporadicamente dal 2007», dice lei, «e ogni volta che ci ritroviamo è meglio della precedente». Dopo essere stati in tour negli ultimi due anni per promuovere il secondo album Raise the Roof del 2021, quest’anno faranno altre 28 date negli Stati Uniti, a partire da giugno. Collegati con Rolling Stone via Zoom per l’unica intervista che hanno deciso di concedere sul nuovo tour, spiegano perché non riescono proprio a lasciarsi, parlano dei progetti futuri, delle scalette e di molto altro ancora (la conversazione integrale è disponibile nel podcast Rolling Stone Music Now).
È chiaro che vi piace fare concerti assieme visto che ne avete aggiunti altri. Cosa li rende speciali?
Robert Plant: Tanti anni di lontananza, senza sapere né immaginare se avremmo più lavorato assieme, ci hanno aiutati a metterci alle spalle la rigidità innaturale che avevamo agli inizi. Se ripenso a quando abbiamo cominciato le registrazioni di Raise the Roof, c’era l’idea di spingersi oltre, ma era vaga. Però era stimolante. Non so se lo pensi anche tu, Alison, ma ai tempi delle nostre apparizioni televisive con Duane Eddy e James Burton e altre, che erano classiche e pulite, era difficile immaginare che ci saremmo trasformati una band estremamente libera e funky e in grado di prendersi certe libertà nell’espandere i pezzi. È questo il punto. Siamo cresciuti andando in direzioni inedite e questo ci ha dato lo slancio per riprovarci.
Alison Krauss: È stato favoloso e sono felice che siamo riusciti rifarlo più volte. Ora la band ha un altro respiro e io sono più in sintonia quando si tratta di armonizzare. Pensavo che sarebbe passato troppo tempo fra un tour e l’altro, ma è incredibile quanto passino velocemente i mesi. Non vedo l’ora di rifarlo.
Alison, hai accennato a una maggiore sintonia: so che questo è sempre stato un problema. Robert canta molta liberamente e improvvisa parecchio, quindi armonizzare è una sfida. In che modo le cose sono più facili?
Krauss: Non so se sta cambiando qualcosa (ride). È solo che riesco a intuire un po’ di più il suo fraseggio, quando mi guarda. È buffo, perché lui dice: «Non preoccuparti! È sempre uguale ogni volta». E io: «Ma non è mai uguale!». Quindi, sai, devo stare di continuo in campana.
Plant: Non mi sono accorto di nulla di tutto ciò!
Certo che no.
Krauss: (Ride) Lui non se ne accorge.
Plant: Lei fa un ottimo lavoro. Sento la pietra del sole vichinga che punta verso il nord magnetico quando fai le tue cose. Sono così regali, belle… per me è come essere ad Asbury Park su una giostra, nel tentativo di ricordare le armonie: non sono partito facendo queste cose, non ero che un cantante rock’n’roll che cercava di essere come Dion, tanti anni fa. Ho imparato tanto e quei momenti sono stati emozionanti. È bello imparare e, contrito e umile, venire nel tuo camerino a inchinarmi dicendoti: «Potresti rispiegarmi l’ultima armonizzazione?».
Krauss: Ma non è vero!
Plant: Comunque sia, ha funzionato. Il fatto è questo. Tutti si sono allontanati dal punto in cui sono partiti. Non vedo l’ora di rifarlo, stare fianco a fianco e godermi il percorso. Invece di limitarci a rifare le cose in modo sempre uguale, inseriamo un sacco di interpretazioni intuitive nelle canzoni, ed è per questo che non volevamo che finisse quando siamo arrivati agli ultimi concerti. L’addio è stato molto emozionante.
Cosa avete fatto a partire da luglio, dopo le ultime date?
Krauss: Io sono stata in studio a registrare, che è un processo noioso.
Plant: Ho un gruppo di amici con cui suono, di tanto in tanto. Ho anche riascoltato tutte le mie incisioni inedite e quelle che non ho mai terminato. E mi sono entusiasmato. Mi sono detto: «Wow, cosa potrei farci?». I panorami, le immagini, i luoghi che ho esplorato musicalmente nei pezzi che non avevo completato sono semplicemente incredibili, solo che cimentarmi con quel materiale è un’impresa ardua.
Stai scrivendo anche nuove canzoni?
Plant: Ho un registratore digitale Tascam. Canto, faccio passare la voce attraverso un effetto a pedale per chitarra e poi la incido: suona benissimo. Perché sbattersi per andare in studio? Ma non riesco a trovare le parole. È un momento molto difficile per scrivere i testi.
Robert, di recente hai ritrovato la locandina del tuo primo concerto, che è bellissima e recita: “The Black Snake Moan, il suono più strano e selvaggio del R&B”. Deve essere strano pensare che è roba di 60 anni fa.
Plant: Sì, è così, e la sto guardando proprio ora. Ho aperto una scatola, dentro c’erano delle lettere e ho trovato questo volantino. Autoprodotto, molto grezzo, ma avevo 15 anni. È semplicemente fantastico. Rifarei tutto quanto. That Black Snake Moan è un pezzo straordinario. Spesso la mattina lo ascolto per iniziare la giornata, solo per ricordarmi quanto il talento di Blind Lemon Jefferson fosse incredibile, straordinario, e quanto fossero divertenti i suoi testi, molto controversi. È un bel modo di cominciare la giornata.
Bella questa cosa. Alison, nel genere che suoni si dà per scontato che i musicisti stiano su un palco fino a quando, in pratica, non si reggono più in piedi o anche oltre. Tu sei ancora piuttosto giovane, ma sono sicuro che hai sempre pensato che continuerai a farlo, se potrai, fino agli 80 o 90 anni.
Krauss: Impossibile prevedere come starai in futuro o se cambierai idea. In questo ambito musicale molti hanno iniziato da giovani e hanno suonato tantissimo. Non avevano altro. Ma trovo difficile indovinare come mi sentirò quando sarò più vecchia.
Robert, ci sono artisti della tua generazione che stanno andando in pensione. Hai mai pensato di ritirarti? Sembra che ti piaccia stare on the road, vuoi continuare a farlo finché ti sarà possibile?
Plant: Lo spirito di squadra, le cose che si condividono sul palco, le fragilità che porti silenziosamente con te, il confronto con te stesso sono cose a cui non voglio rinunciare. Non posso fermarmi e basta. La gente mi chiede: «E il tuo libro?». Io rispondo: «Stai scherzando? Quello che faccio è spettacolare. Perché dovrei fermarmi a pensare?». Questo è l’oggi. Ciò che è successo a Schenectady nel 1969 è un’altra storia. E per me il continuum non deve interrompersi. Oggi ho tirato fuori tutti i miei quaderni coi testi e mi sono detto: «Devo ritrovare l’ispirazione, ho qualcosa da dire». Quindi sì, continuerò, almeno finché ci saranno degli effetti che mi fanno suonare bene (ride). Be’, per Elvis ha funzionato! Ascolta la compressione sulla sua voce in alcune grandi ballate del ’57.
L’anno scorso hai cantato Stairway to Heaven, per la prima volta dopo molti anni, a un evento di beneficenza. Cos’hai provato, Robert?
Plant: È stato un momento catartico. La gente dice: «Oh, che bello. Non la voleva più fare». Ma non l’ho cantata davvero, l’ho solo abbozzata. Perché è una canzone troppo importante per me, per come mi sentivo allora e per il momento che vivevo con Jimmy, John e Bonzo. Quindi, quella sera, è andata come è andata. È stata dura, ma alla fine mi sentivo meglio che all’inizio.
Stavo riflettendo sul fatto che potrebbe essere l’ultima volta che l’hai cantata. Ti andrebbe bene?
Plant: Sì, probabilmente hai ragione. Non sono ancora al punto di dover fare il giro delle piste di pattinaggio finlandesi con un’orchestrina di accompagnamento (ride). Non credo che la rifarò, ma chi lo sa? Qualcosa potrebbe cambiare. Lo spirito e il cuore potrebbero tornare nell’anima. E poi è una canzone lunga. Chi si ricorda tutte quelle parole?
Avete questa trentina di date in vista, ma anche le vostre rispettive carriere da seguire. Come la vedete questa collaborazione in futuro?
Plant: Spero che riusciremo a fare ancora qualcosa insieme.
Krauss: Ci siamo divertiti così tanto a incidere i dischi e ad andare in tour che anche a me piacerebbe rifarlo. Sento che abbiamo creato qualcosa di nuovo quando abbiamo registrato. È stata una sorpresa per me e so che lo è stata anche per Robert, anche se lui sembra più spavaldo da questo punto di vista.
Plant: L’unico modo per arrivare a fare un concerto è creare prima la magia in una stanza. Una volta che l’hai ottenuta, non puoi sbagliare, a meno che non ci siano differenze di personalità enormi. Noi non le abbiamo, perché ci prendiamo in giro a vicenda, ma sotto sotto c’è molto amore e una forte affinità. È bello. Molto bello.
Da Rolling Stone US.