Robert Smith non era pronto alla visione in 4k del film sull’incredibile concerto dei Cure ad Hyde Park. «Il primo volto umano che ho visto è stato il mio», dice. «È stato piuttosto terrificante».
Quando gli hanno proposto per la prima volta il film, intitolato Anniversary 1978-2018 Live in Hyde Park London, nei cinema di tutto il mondo dall’11 luglio, il frontman era piuttosto scettico. Quando sono ripresi dalle telecamere, i musicisti cambiano il loro modo di suonare, ma alla fine Smith ha deciso che l’occasione era troppo importante per rinunciare.
L’evento a Hyde Park è arrivato 40 anni dopo il primo concerto dei Cure, a Crawley: per festeggiare, Smith ha riempito la scaletta di classici, Just Like Heaven, Lovesong e Boys Don’t Cry. Poi ha chiesto al regista Tim Pope, collaboratore storico della band, di dirigere il film “sul momento” e senza avvertire il resto della band, occupato a suonare per più di 65mila persone. Alla fine, superato lo spavento del primo close-up, è felice della scelta.
«È un’esperienza piuttosto travolgente», dice del film. «Pensavo che l’avrei visto con una certa indifferenza, ma mi ha coinvolto più del previsto. Sono felice di aver filmato quel concerto, è stata una delle giornate più belle della storia della band, il tempo era fantastico e la nazionale inglese stava andando bene ai mondiali. È stata un’enorme festa… una celebrazione della nostra musica».
Lo show è arrivato subito dopo il concerto dei Cure al Meltdown festival di Londra, e Smith era determinato a distinguere nettamente le due esperienze. Per il festival, ha costruito un set che iniziava con i primi brani del gruppo, continuava fino alle canzoni più recenti e poi tornava indietro per i classici. Per lo show del quarantennale, invece, ha scelto 30 canzoni che «il pubblico voleva ascoltare».
«Sapevamo di aver venduto 65mila biglietti… e che non sarebbe stato un concerto normale», dice. «La maggior parte del pubblico avrebbe passato tutta la giornata ad Hyde Park, quindi abbiamo approcciato la cosa come se fosse un festival. Ci sono dei gruppi di canzoni che funzionano bene insieme, e ho pensato che non avrebbe avuto senso cercare di incastrare b-side o brani più oscuri, perché avremmo perso il contatto con il pubblico. Insomma, sapevamo che il set avrebbe funzionato prima ancora di salire sul palco».
A parte la performance, Smith è riuscito ad apprezzare così tanto il film perché non è stato coinvolto più di tanto nella produzione. Oltre a lavorare al mix in 5.1 con Paul Corkett, co-produttore di Bloodflowers, ha lasciato tutto il lavoro a Pope. A quanto racconta, il suo ruolo consisteva nel rispondere a domande come: “Credi dovremmo aprire con questa inquadratura?” “E questa, invece, può funzionare?”. Un metodo che ha contribuito a creare lo spazio giusto perché potesse apprezzare il film nel complesso. Adesso, con il senno di poi, il frontman avrebbe voluto fare di più, magari riprendere gli show d’apertura di Interpol, Goldfrapp e Ride. Ma è felice che tutto sia andato nel verso giusto, soprattutto per quanto riguarda il set della sua band.
L’unico problema che ha dovuto affrontare durante la giornata aveva a che vedere con il suo rapporto con la luce del sole. A Hyde Park c’era un caldo asfissiante, e Smith è abituato a suonare nell’oscurità. «Non riesco a parlare prima del tramonto, davvero», ha detto al pubblico. «Uso tutta la mia energia per non diventare un mucchietto di polvere». Guardando indietro, dice che non era pronto a tutta quella luce, e il sole non è tramontato prima di metà concerto.
«Salire sul palco è stato abbastanza scioccante. Avevamo passato tutto il tempo nel backstage con gli altri musicisti», dice. «Era tutto coperto da tende… c’erano ventilatori, drink per rilassarsi e così via. Mi sono reso conto della temperatura solo quando sono arrivato sul palco. Abbiamo camminato dritti verso il tramonto, una scena piuttosto drammatica. Il miglior light show del mondo, se riesci a sopravvivere. Se fossimo tutti 20 anni più giovani, forse sarebbe stato più semplice».
«In un certo senso, però, ha dato al concerto un’aria più teatrale», continua. «Tim direbbe che ha contribuito all’arco narrativo del film. C’è una progressione naturale: abbiamo concluso il set dove abbiamo iniziato, con i vecchi classici, ma nel finale le luci erano piuttosto intense. Se avessimo suonato sempre nell’oscurità sarebbe stato l’ennesimo film su un concerto, e nient’altro».
Smith è felice di quanto il sole abbia reso tutto più “rozzo”. Con la luce, dice, il pubblico può vedere «tutte le schifezze ai lati del palco e backstage. Sembra davvero di essere lì, e questa è la cosa più importante».
È un’affermazione piuttosto insolita per un musicista che per anni ha ripetuto quanto amasse “perdersi” sul palco. «Di solito le prime due o tre canzoni della scaletta mi servono per abituarmi», spiega. «Non sono uno di quei performer che ripete continuamente: Hyde Park, come va? Non voglio ricordarmi del posto dove sto suonando. Sono su un palco e suono le mie canzoni. È per questo che non parlo durante i nostri concerti. Ho perso l’abilità di comunicare solo con le parole. È molto strano. Quando canto e suono, sono come trasportato. So che suona come una cosa da hippie, ma è sempre stato così per me. Ho sempre pensato che se fossi riuscito a perdermi nelle canzoni, magari sarebbe successo lo stesso al pubblico».