In primavera, mentre la pandemia si diffondeva a New York a velocità terrificante, Robin Pecknold era chiuso nel suo monolocale nel Greenwich Village. «Non attraversavo una fase particolarmente creativa», dice il cantante, autore e leader dei Fleet Foxes, 34 anni. «Ho passato delle brutte settimane, mi svegliavo alle 7 di sera e stavo in piedi fino a mezzogiorno. Di notte il mondo sembrava più normale».
Oltre al fatto che «nel 2020 anche solo essere vivi è stato stressante», Pecknold aveva un album di cui occuparsi. Aveva passato l’autunno e l’inverno precedente a registrare gli strumentali per un nuovo progetto dei Fleet Foxes, ma le canzoni erano nel migliore dei casi finite a metà, senza testi, erano scampoli vocali o idee su come andare avanti. «Non sapevo se abbandonarlo, se pubblicarlo nel 2022 o cos’altro fare».
È andata avanti così per marzo, aprile e maggio. Poi a giugno la svolta. Mentre guidava verso nord, nella regione dei monti Catskills, ascoltava a bordo della sua Toyota 4Runner i mix grezzi e si è ritrovato più volte fermo a bordo strada a scrivere i testi. Ne ha raccolti abbastanza per riempire un album. «Ho fatto 10 mila chilometri in tre settimane».
Le canzoni che ha scritto nelle lunghe ore passate in auto sono diventate Shore, il quarto album dei Fleet Foxes, uscito giusto in tempo per l’equinozio d’autunno. È uno splendido disco folk che parla di vita, morte e arte, pieno di sofferenza e di fugaci momenti di conforto. È l’album più soddisfacente dei Fleet Foxes dai tempi del debutto del 2008. Uscito praticamente senza alcuna promozione, è la sorpresa di cui avevamo bisogno in un mondo fuori controllo. «La fine dell’estate mi sembrava perfetta per pubblicare questa musica», dice Pecknold. «Se c’era un momento giusto per questo disco, è adesso».
Ha iniziato a scriverlo dopo la fine del tour per Crack-Up, l’album del 2017 che ha segnato il ritorno alla musica dopo che Pecknold si era dedicato allo studio pressp la Columbia University e al surf (che è anche il motivo per cui guida un suv: «È più semplice trasportare la tavola»). Nella speranza di evitare un’altra lunga pausa tra i dischi, ha portato le tracce strumentali negli studi di New York, Parigi e Los Angeles, dove ha lavorato a stretto contatto con la fonica Beatriz Artola e un gruppo di collaboratori scelti.
La musica era solare e piena di luce, ma trovare un tema forte e una prospettiva da cui scrivere i testi era difficile. «A volte non li sopporto», dice Pecknold dei testi. «Passo un sacco di tempo su una melodia o una progressione di accordi e poi magari rovino la canzone con un brutto testo. È una cosa molto delicata. Non esistono classici della musica con un brutto testo». Anche prima della pandemia si era ritrovato di fronte a un muro, un esaurimento creativo. «Non c’era niente di cui parlare», dice. «Ho sbagliato a pianificare l’album. Passare un anno e mezzo con quelle canzoni prive di parole è stata una pessima idea».
Poi, mentre il lockdown si protraeva, Pecknold ha iniziato a intravedere una via di fuga. «Quell’esperienza mi ha dato una nuova prospettiva su cosa significano comunità, morte, gratitudine e privilegio», dice. «Questo è il mio disco meno personale. Volevo parlare di cosa sento pensando agli altri».
Per spiegare questo approccio non c’è esempio migliore di Sunblind, un’incredibile litania che parla di musicisti morti troppo in fretta, che appare all’inizio di Shore. “Per Richard Swift”, canta Pecknold, invocando l’artista e produttore scomparso nel 2018 che ha lavorato con Black Keys, Shins, David Bazan e molti altri. Come tanti musicisti della sua generazione, Pecknold lo conosceva e ha sofferto per la sua scomparsa. Spiega che quel verso è un modo per onorare quanto fosse importante per tutta la scena indie: «Tanti miei amici gli erano ancora più vicini», dice. «Vedere il modo in cui la sua morte li ha colpiti… è stato difficile per questa comunità».
Sunblind va avanti elencando i nomi di Judee Sill, John Prine, Elliott Smith (un artista incredibilmente importante per la formazione di Pecknold, che ricorda di aver passato ore sul sito della sua fanbase per trovare le tablature per chitarra dei suoi pezzi), David Berman dei Silver Jews e altri protagonisti di tragedie recenti e antiche, tutti insieme in un elenco cosmico di ringraziamenti. Poi la canzone esplode di luce, con un ritornello celebrativo che Pecknold ha scritto solo poche settimane fa: “Andrò via per il weekend / Prenderò in prestito una Martin o una Gibson / Con Either/or e The Hex / Mi porterò dietro tutte le cose che avete scritto / Nuoterò per una settimana in calda acqua americana con cari amici / Nuoterò in alto su un prato, nell’Eden / Seguirò tutti gli indizi che avete lasciato”.
«Quel ritornello dice che vivrò al meglio delle mie possibilità, e lo farò per ringraziarli. Loro non possono farlo, o non hanno potuto», dice. «Parla della gratitudine di chi è vivo. Sono davvero fortunato».
Le stesse emozioni si irradiano dalla title track, che Pecknold considera una lettera d’amore alla musica che l’ha ispirato per tutta la vita. «Quella che somiglia a una canzone su una relazione, o a una canzone d’amore, in realtà parla di musica, dico quanto sono grato di poter lavorare ancora. Questa cosa invisibile può essere così importante e molto più reale di tante cose tangibili».
Un altro brano chiave del disco è Jara, in onore di Víctor Jara, il cantante e attivista cileno ucciso durante il colpo di stato del 1973 – supportato dagli Stati Uniti – che ha affossato il presidente socialista Salvador Allende. Con il verso dedicato «al grande tiranno bianco» e i riferimenti obliqui al sacrificio di Jara, è il brano del disco che parla più direttamente dell’ingiustizia che Pecknold ha visto attorno a sé quando all’inizio della pandemia molti vicini sono scappati dalle loro villette a schiera. «Vedere un quartiere di New York che si svuota, e sapere che non tutti avevano le stesse opportunità… è così ingiusto», dice.
Alla fine dell’estate, mentre le proteste di Black Lives Matter riempivano le strade della città, il cantante è sceso a manifestare nel suo quartiere e ha usato la sua auto per portare ghiaccio e altre provviste a chi ne aveva bisogno. Ha scritto il testo di Jara pensando a chi ha avuto un ruolo più attivo nella battaglia contro razzismo e oppressione. «Nella canzone la voce narrante paragona un amico, un attivista convinto, al suo Jara personale», dice. «Ho diversi amici molto attivi politicamente, mi ispirano come faceva Víctor».
Uno dei momenti più leggeri dell’album arriva con Young Man’s Game, che accoppia un groove energico e liberatorio a un testo che prende in giro con leggerezza i dubbi esistenziali di cui Pecknold scriveva uno o due dischi fa: “Potrei preoccuparmi ogni notte / Trovare qualcosa di unico da dire / Potrei passare per erudito / Ma sarebbe una cosa da ragazzi”.
«Credevo che l’obiettivo dei giovani fosse trovare qualcosa da deprecare», dice Pecknold. «È stato divertente rigirare il concetto. In realtà è bello invecchiare, non fare gli stessi errori, non soffrire per le solite cose».
Tolto questo brano e altri momenti sparsi, Shore è soprattutto un disco che si apre agli altri. Le registrazioni sono state ricche di nuove collaborazioni, con un cast di tre batteristi famosi (Christopher Bear dei Grizzly Bear, Homer Steinweiss dei Dap-Kings e Joshua Jaeger, un collaboratore di Angel Olsen) che hanno dato alle canzoni di Pecknold nuove sfumature ritmiche. Il primo brano in scaletta, Wading in Waist-High Water, mette in mostra la voce di Uwade Akhere, una cantante pressoché sconosciuta che Pecknold ha trovato dopo che qualcuno gli ha fatto vedere un video in cui interpretava la sua Mykonos.
Daniel Rossen, il co-frontman dei Grizzly Bear, appare in Cradling Mother, Cradling Woman e si aggiunge al ricco crescendo strumentale nello stile che Pecknold ammirava e da cui scappava mentre scriveva le sue prime canzoni: «È un musicista unico. Sono molto grato di aver incontrato i Grizzly Bear agli inizi. Ma mi sono sempre preoccupato di non fare niente di troppo simile alle loro cose, condividiamo troppe influenze».
Quella stessa canzone contiene un sample di Brian Wilson che conta il tempo per la sua band, preso (con tutte le autorizzazioni del caso) dal boxs et di Pet Sounds che Pecknold venerava quando abitava a Seattle. Il sample viene da un outtake di Don’t Talk (Put Your Head on My Shoulder) in cui Wilson dà istruzioni su come registrare le armonizzazioni. «Crea un mondo assurdo, una magia egualitaria con solo la sua voce… era come vedere Picasso dipingere», dice Pecknold. «Ascoltare quella clip, quando ero teenager, mi ha convinto a scrivere canzoni e a registrare effettuando sovraincisioni».
Gli altri quattro membri dei Fleet Foxes – Skyler Skjelset, Morgan Henderson, Casey Wescott e Christian Wargo – non hanno suonato in Shore. Anche se hanno contribuito a vari livelli ai dischi precedenti del gruppo, Pecknlod dice che sono sempre stati soprattutto musicisti da tour. «Gli album in studio sono sempre stati in larga parte frutto del mio lavoro e della mia visione», scrive nel comunicato di presentazione dell’album. «Ho sempre scritto tutto, cantato e registrato gran parte delle armonie, così come gli strumenti».
Il bilanciamento tra i ruoli dei membri non è sempre stato chiaro per il pubblico. Era una scelta voluta, almeno in parte. «Non ho scritto chi ha suonato nel primo disco dei Fleet Foxes perché non volevo che alcune canzoni fossero attribuibili solo a me», dice. Il secondo LP, Helplessness Blues, «era un disco solista, molto più degli altri», continua. «In Crack-Up, io e Skye abbiamo lavorato insieme – si occupava del suono e della produzione –, poi abbiamo fatto una session con gli altri per aggiungere delle idee. Pensavo che avrei fatto lo stesso anche questa volta, ma con il lockdown e tutti i problemi logistici… non lo so. Volevo finirlo e liberarmene».
A un certo punto era convinto che avrebbe suonato queste canzoni con la band in un tour autunnale. «In parte, questo disco è nato per registrare canzoni divertenti da suonare dal vivo», dice. «Non succederà per un anno ed è strano». Allo stesso tempo, però, è anche liberatorio: «Non possiamo partire in tour. Non c’è più la strada della monetizzazione folle. Le cose stanno così. Il disco è solo un disco. Non è male».
Per un certo periodo, Pecknold ha addirittura pensato di pubblicare Shore su Bandcamp – «Volevo farlo uscire, non mi interessava che cosa sarebbe successo» – poi ha deciso di collaborare con l’etichetta Anti-. Una volta chiuso l’LP, ha iniziato a scambiarsi file con gli altri della band. «Ci siamo scambiati idee, abbiamo scritto raggruppati in piccoli gruppi», dice. «Non ho mai composto con i ragazzi con cui suono in tour, ma sono tutti grandi musicisti con una prospettiva interessante. Sarà divertente lavorare con loro. Forse riusciremo a finire questi pezzi per il prossimo anno, così quando sarà il momento di andare in tour avremo qualcosa di nuovo».
La scrittura di Shore ha fatto sentire Pecknold più a suo agio con la musica e la vita, si è liberato di alcune delle preoccupazioni che lo affliggevano. «Pensavo che avrei fatto solo due dischi, tanto la gente non ascolta di più, né le interessa», dice. «Ora mi piace pensare alla mia carriera come a quella di un regista che magari riesce a fare otto bei film».
Pecknold non vuole apparire troppo spensierato, ma sembra felice. «Provo ancora ansia e sono preoccupato, ma non per me, per quello che succede nel mondo. È uno strano momento, questo, c’è quasi dell’ottimismo. Non sappiamo cosa succederà a novembre, forse cadrà tutto a pezzi. Ma nell’aria c’è un po’ di speranza e non è sempre stato così».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.