Roger Waters vuole che tutti conoscano le sue idee politiche. Il nuovo tour This Is Not A Drill si apre con la sua imitazione di uno speaker britannico che si rivolge al pubblico con un tono di voce affettato: «Se sei uno di quelli che pensano “Mi piacciono i Pink Floyd, ma non sopporto le idee politiche di Roger”, puoi andartene subito a fare in culo al bar. Grazie e godetevi lo show».
Waters è decisamente attivo sul fronte politico. È un aperto sostenitore della liberazione della Palestina e del movimento Black Lives Matter, e ha critcato i demagoghi di destra, tra cui il brasiliano Jair Bolsonaro, l’ungherese Viktor Orbán e l’ex presidente americano Donald Trump.
Ha anche accusato l’organizzazione umanitaria siriana dei White Helmets di falsità, nonostante le evidenze contrarie; ha affermato che gli oppositori del regime siriano avrebbero inscenato finti attacchi con armi chimiche per incolpare Bashar al-Assad, una tesi con cui nessun esperto indipendente dotato di credibilità concorda. Di recente ha pubblicato una lettera aperta alla first lady ucraina, Olena Zelenska, spronandola a incoraggiare il marito affinché tratti per la pace con la Russia, una mossa che equivarrebbe a inchinarsi a Putin (nella nostra intervista, Waters liquida i resoconti ben documentati dei crimini di guerra russi in Ucraina come «bugie, bugie, bugie, bugie»).
Per alcuni, il suo sostegno alla Palestina ha superato i confini della critica legittima tramutandosi in intolleranza, voluta o meno. Per esempio, in un vecchio tour Waters ha utilizzato maiali giganti decorati con la stella di David e altri simboli. Ha ribadito più volte di avere un problema con Israele, non con gli ebrei. Quando tocchiamo l’argomento durante la nostra intervista, però, afferma che alcuni ebrei negli Stati Uniti e in Inghilterra sono responsabili delle azioni d’Israele «perché le finanziano».
Waters desidera che il pubblico lo accetti – che prenda sul serio la sua musica, la sua politica, tutto quanto – e perciò a intervistarlo Rolling Stone ha mandato me, che sono un giornalista investigativo.
Secondo Waters, la gente è vittima di un racconto manipolato e non riesce a trarre le proprie conclusioni in modo indipendente dai media «totalmente controllati» e «monopolizzati dai poteri forti e dai governi… oh mio Dio, anche Rolling Stone deve essere immischiato».
Quei media compiacenti, continua, ci propinano l’idea che Russia e Cina siano cattive, mentre noi, per contro, saremmo i buoni. Lui la vede diversamente.
«Ovviamente noi (e quando dico noi parlo di tutti i cittadini che pagano le tasse negli Stati Uniti) non lo siamo. Siamo i più cattivi di tutti, almeno 10 volte di più. Ammazziamo. Interferiamo nelle elezioni di altri Paesi. Siamo noi, come impero americano, a fare tutte queste porcherie».
Gli suggerisco che qualunque cittadino ucraino, ora come ora, probabilmente non la penserebbe allo stesso modo, viste le prove sempre più numerose di crimini di guerra che abbiamo visto, incluse le fosse comuni, lo stupro usato come arma, il fuoco aperto sui convogli umanitari e altro ancora.
«È tutto frutto di quella che ti ho appena descritto come propaganda occidentale», ribatte. «Sono tutte bugie, bugie, bugie, bugie».
Tento di penetrare cautamente il muro eretto da Waters. Non ho tratto informazioni solo dai media istituzionali: ho degli amici in Ucraina e altri che sono andati là come reporter. E ho amici ucraini che fanno i giornalisti. Mi baso, perciò, sulle testimonianze di persone che hanno visto coi loro occhi e so che l’hanno fatto. E comunque non sono solo gli ufficiali ucraini e i media occidentali a riferire delle atrocità commesse: sono già in atto indagini sui crimini di guerra.
Waters non è del tutto convinto. «Può essere…», riflette, prima di lanciare una bordata. «Ma non dimenticare che io sono in una lista di persone da eliminare approvata dal governo ucraino. Sono su quella cazzo di lista e hanno ucciso della gente di recente… Quando ti ammazzano, scrivono “liquidato” sulla tua foto. Ecco, una di quelle cazzo di foto è la mia».
«Quando leggo in giro critiche contro di me, magari in un blog o altro, vado sempre a controllare da dove arriva quella roba. È stupefacente che, alla fine della ricerca, spesso tutto riconduca a qualcosa.ukraine.org», dice, citando un ipotetico indirizzo web ucraino.
Non è vero, ma non è neanche del tutto falso. Esiste in effetti una lista stilata da un’organizzazione ucraina di estrema destra che contiene i nomi di centinaia di migliaia di nemici dell’Ucraina, dai presunti membri del battaglione privato Wagner a giornalisti accusati di cooperare coi governi fantoccio del Donbas. Il sito, che ha ricevuto una condanna unanime a livello internazionale (ma non è stato oscurato dal governo ucraino), dice che non si tratta di una lista di obiettivi da eliminare, ma di una fonte di «informazione per forze dell’ordine e servizi segreti».
Tra i grandiosi effetti visivi del tour di Waters c’è un messaggio luminoso che recita “L’occupazione e i diritti umani non possono coesistere”. «Volevo aggiungere un “Fanculo l’occupazione israeliana”», mi spiega, «ma la frase era troppo lunga». Visto quel messaggio, gli domando perché opporsi all’occupazione israeliana della Palestina per lui sia una giusta causa, a favore di cui schierarsi, ma non la resistenza ucraina contro l’invasione russa.
«Perché è una guerra inutile», dice. «E tutte quelle persone non dovrebbero morire. La Russia non avrebbe dovuto essere spinta a invadere l’Ucraina, dopo che per vent’anni ha provato a evitarlo cercando una soluzione diplomatica coi governi occidentali».
In pratica è colpa della NATO se Putin ha deciso di invadere l’Ucraina.
Ci troviamo a un punto morto e non sono più tanto certo se per lui resistere all’invasione russa sia sbagliato perché comporta alti rischi di escalation nucleare (ragionamento che implica che valga la pena combattere per i diritti umani solo quando comporta bassi rischi) o se lo sia perché alla Russia dovrebbe essere lasciata una propria sfera d’influenza, cosa che però evoca un ritorno all’imperialismo e alla politica del Grande Gioco.
Dobbiamo passare oltre, suggerisco, perché è importante toccare anche l’argomento della Siria. Waters ha condannato ripetutamente l’intervento degli Stati Uniti in Siria che, inizialmente, era volto a combattere l’Isis e a sostenere la resistenza a Bashar al-Assad. Gli faccio notare che nel 2017 gli Stati Uniti avevano lanciato 11.325 attacchi in Siria, mentre nello stesso lasso di tempo la Russia ne aveva fatti 71.000. «C’è una leggera differenza perché i Russi sono stati invitati dal governo siriano», replica velocemente Waters. Mi chiedo ad alta voce se il governo di Bashar al-Assad, che è stato eletto con il 95,1% dei voti alle ultime “elezioni” sia legittimo. Come prevedibile, Waters ha una risposta pronta: «Insomma, anche negli Stati Uniti non esistono elezioni regolari, perché tutto è pagato e comprato dopo la sentenza Cittadini Uniti contro Commissione Elettorale Federale».
Ricordandomi che Waters sostiene che al centro della sua filosofia politica ci sarebbe la dichiarazione dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, riprovo. Gli dico che un mio amico che ora vive in Inghilterra è stato picchiato e torturato con scariche elettriche nelle prigioni di Assad. E che la maggior parte degli oppositori in Siria non ha niente a che fare con l’Isis. L’opposizione è guidata da persone laiche che vogliono la libertà, ma Assad e la Russia le hanno bombardate fino allo sfinimento, le hanno torturate e obbligate a fuggire dal Paese.
Waters ammette che è possibile che tutto questo sia accaduto e che il mio amico sia stato torturato. Ma ben presto torniamo sul sospetto che gli attacchi chimici in Siria contro gli oppositori siano stati una messa in scena, in parte perché Waters sostiene che Assad non avrebbe motivo di fare una cosa simile e poi perché spingerebbe l’Occidente a intervenire (anche se poi non è accaduto). Waters ha «passato molto tempo a studiare la faccenda» ed è soddisfatto delle conclusioni che ha tratto.
«Sono sereno con me stesso e posso andare a dormire sapendo che la narrazione che viene propinata dai media occidentali è propaganda e non risponde a verità», dice. «Sono certo di avere ragione. Sono sicuro anche che il tuo amico sia stato torturato. Non sono certo che tu abbia ragione, ma sono ponto a crederti».
Siamo arrivati in un vicolo cieco. Chiedo allora a Waters quali siano le sue idee politiche di fondo: cosa unisce quei punti di vista spesso così estremi e incongruenti? «Politicamente, la mia piattaforma è molto semplice: è la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo firmata a Parigi nel 1948. Tutti gli articoli: 29, 30 o quanti sono».
Oltre ai 30 articoli della dichiarazione dei diritti dell’uomo, Waters è fedele solo a un altro concetto: quello del «bar», un «luogo sicuro» in cui le persone «possono liberamente scambiarsi idee e pensieri, senza timore di ripercussioni».
Se Waters ed io ci troviamo in quel bar, nella migliore delle ipotesi è un locale dove l’atmosfera è piuttosto calda. Waters è affascinante e cortese, ma la conversazione più volte degenera in urla animate e interruzioni. E questo prima ancora di arrivare alla questione di Israele.
«Non sono assolutamente antisemita, per nulla», dice Waters. «Ma questo non ha fermato gli stronzi che hanno cercato di infangarmi dandomi dell’antisemita».
Segue un botta e risposta in cui tentiamo di fissare alcuni concetti base. Waters non accetta la definizione standard dell’IHRA (l’International Holocaust Remembrance Alliance) di antisemitismo. Israele ha il diritto di esistere? «Dire che Israele non ha diritto di esistere come Stato in cui vige l’apartheid, come in Sudafrica o altrove, non è una dichiarazione antisemita», risponde Waters. Critica «il fatto che sia un progetto suprematista e colonialista che si fonda su un sistema di apartheid». Finiamo a parlare di storia antica e gli dico che gli ebrei hanno una storia legata alla regione d’Israele vecchia di millenni. Non è offensivo definirli colonialisti? «No, non lo è. Quelle persone non sono originarie di lì. Non sono i discendenti di popolazioni indigene che hanno sempre vissuto lì».
Quest’affermazione non solo è falsa per quanto concerne molti cittadini israeliani, ma minimizza anche la portata dell’orrore e della sofferenza che sono stati inflitti prima della fondazione di Israele e del desiderio che ne è nato, quello di una patria per gli ebrei.
Provo a buttare lì un’altra domanda su Israele. Nel 2020 Waters ha cantato: “Cammineremo mano nella mano e riprenderemo la terra, dal fiume Giordano al mare”. Sapeva, Waters, che l’espressione “dal fiume al mare” spesso è utilizzata per alludere alla distruzione di Israele o al trasferimento di tutta la popolazione ebrea israeliana altrove, quindi accolta con orrore da israeliani ed ebrei?
«No, cazzate. È solo una descrizione geografica della terra fra il Giordano e il Mediterraneo. Per me non ha altra connotazione», dice. «Nessuno dice che dovrebbero andarsene, che è quel che loro hanno detto alle popolazioni locali nel 1948».
Alla fine dell’intervista entrambi siamo rimasti sulle nostre rispettive posizioni. Durante lo show di Waters viene spesso mostrato un messaggio che ovviamente gli è caro: “Controlla il racconto, comanda il mondo”. Me ne vado dall’intervista convinto che sia esattamente l’opposto: Waters è un esempio di come ognuno possa costruire una propria narrazione e distorcere il mondo per adattarlo a essa, restando impermeabile non solo ai media e alla propaganda, ma anche ai fatti e alle prove che potrebbero cambiarla. È un percorso che porta a una posizione nichilista per cui si prova compassione solo per le vittime coerenti con la propria teoria personale, minimizzando o negando le sofferenze degli altri. È uno scenario così desolante da farmi sentire quasi felice per un mondo in cui esiste una narrazione condivisa, anche se controllata da media tanto malvagi.
Roger Waters ed io siamo riusciti ad evitare la rissa da bar. Andandomene, però, sento un gran bisogno di un drink.
James Ball è il direttore responsabile del Bureau of Investigative Journalism. Ha fatto parte del team che ha vinto il Premio Pulitzer per i reportage sui leak di Edward Snowden e i Panama Papers. È anche co-conduttore del podcast The New Conspiracist. Questa è una versione editata della conversazione che trovate a questo link. L’intervista è disponibile anche su Apple Podcasts e Spotify. L’articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.