C’è stato un momento, mentre Roger Waters stava guardando un montaggio provvisorio del suo nuovo film Roger Waters The Wall, in cui ha pensato che mancasse qualcosa. Durante lo show, venivano proiettate delle immagini di persone le cui vite sono state completamente stravolte dalla guerra, da quelli che hanno perso i loro cari, a quelli scomparsi in guerra, su un muro gigante, costruito attorno alla band, mentre suonava il suo fondamentale doppio album del 1979.
«Stavo pensando a tutte le persone cadute in guerra, guardando le immagini che proiettevamo sul muro», dice. Il 72enne cantautore, vestito casual, con una maglietta nera, jeans e scarpe senza lacci, è seduto su un divano all’interno di una suite in cima al Sony building di Manhattan. «Ho realizzato che un po’ della mia personale narrazione si stesse perdendo. Quindi mi è venuto in mente di fare un viaggio in macchina fino alla tomba di mio padre. In più, questa cosa mi ha permesso di comprare una vecchia Bentley». Sorride calorosamente.
Con l’aggiunta del viaggio di Waters, che porta una variazione un po’ surreale a The Wall, il film diventa qualcosa di più di un tipico film da concerto. Mentre mostra la magistrale produzione del cantante di The Wall, uno show ripetuto 219 volte tra il 2010 e il 2013, tratta anche dell’assurdità della guerra e del segno indelebile che ha lasciato su Waters, che crolla durante il film, leggendo la lettera indirizzata a sua madre che la informa della morte di suo padre durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma, abbinato alle riprese del concerto, Roger Waters The Wall è un film allo stesso tempo commovente e pieno di speranza.
«Abbiamo deciso di intervallare la narrazione con un po’ di realtà, al posto di dire, “Sediamoci qui e guardiamo un concerto all’interno di un cinema”, che mi è sempre sembrato un concetto un po’ stiracchiato», dice Waters. «Penso che le sequenze sulla strada illuminino il tutto con un pensiero politico e umanitario».
In occasione dell’uscita mondiale del suo Roger Waters The Wall, il cantante ha incontrato Rolling Stone per un’approfondita intervista su cosa The Wall significhi per lui e sui suoi piani per il futuro.
Com’è cambiato per te il significato di The Wall durante gli anni?
Non è cambiato, in realtà. Il contesto è cambiato, ma la storia è restata la stessa. Quando le persone vedranno questo film, spero che si possano guardare negli occhi e poi dire, «Sai cosa? Siamo una comunità, siamo in tanti. E siamo tutti uguali»
La parte di “non-concerto” del film sembra sia molto personale. Racconta della prima volta in cui sei andato nel luogo dove è morto tuo padre, ad Anzio, in Italia. Come mai non ci sei andato prima?
Non ci sono mai stato perché il corpo di mio padre non è mai stato trovato. Non ho mai scoperto le circostanze della sua morte, nessun dettaglio.
Come hai scoperto cosa è successo?
Siamo stati nel sud dell’Italia, abbiamo filmato il memoriale di Cassino, c’erano molte persone, anche una crew di un telegiornale.
E un vecchio tizio, un espatriato britannico di nome Harry Shindler che vive in Italia, ha visto la scena in tv. Disse, «potrei essere in grado di aiutare quella persona». Shindler cerca di riempire i vuoti causati dalla guerra, ricostruendo le storie delle persone scomparse. Mi ha contattato e mi sono detto, «Beh, è una buona cosa». Credeteci o no, ha trovato il luogo esatto dove è stato ucciso, in un’area grossa come questa stanza.
Come ti sei sentito la prima volta in quel momento?
Nel film c’è la scena in cui guardo il mare, che è quello di Anzio. È stato molto emozionante essere là, tutto il viaggio in realtà lo è stato.
Ti sei commosso leggendo la lettera del maggiore Harry Witheridge, che informava tua madre della scomparsa di tuo padre?
Avevo guardato quella lettera solo un’altra volta nella mia vita, dieci anni fa. Poi l’ho messa in un luogo dove non sarei mai andato a cercarla. Poi l’ho data a Sean Evans (il regista, ndt) e gli ho detto, «La leggerò quando sarò là». E così ho fatto. Non lo rifarò mai più.
Hai lavorato con una sceneggiatura durante queste scene?
No, è tutto improvvisato. Sapevo solo che avrei avuto con me il libro di Chevallier, La paura. L’ho letto e mi ha colpito molto. È un libro scritto molto bene. Parla della sua esperienza durante la Prima Guerra Mondiale. Ma amo più di tutto quel passo dall’introduzione di John Berger che ho letto mentre ero alla tomba. Sapevo che l’avrei letto perché è così bello: «Sono abietti». Ma oltre a quello, non avevo idea di cosa avrei detto. Non avevo idea di cosa avremmo parlato in macchina. È uscito tutto così.
C’è una scena sconcertante mentre stai guidando e fuori dalla finestra un nazista spara a un prete in un campo. Cosa l’ha ispirata?
Martin Scorsese mi ha dato una copia del suo documentario Il mio viaggio in Italia, che racconta del post-realismo nel cinema italiano. E conosco quei film, conosco il Paisà, Roma città aperta e Ladri di biciclette, ovviamente. Ma c’è questa scena in Roma città aperta dove don Pietro, prete cattolico, viene messo di fronte a un plotone di esecuzione. Gli italiani non gli sparano, così l’ufficiale tedesco gli spara in testa. Quindi, per questa scena, ho detto «Voglio avere un collegamento con Roma città aperta. Voglio un nazista in un campo con un prete, e voglio che gli spari mentre guidiamo». So che suona un po’ strano, ma nella posizione in cui si trova nel film, vicino alle scene delle uccisioni di Baghdad (dallo spettacolo di The Wall, ndt), è particolarmente intenso. Funziona proprio come avrei voluto.
Come ti sei sentito a vedere il tuo spettacolo con gli occhi del pubblico?
Bene! Onestamente mi sono sentito come quando mi guardo allo specchio, la mia migliore angolazione. Quindi, sai, dici tipo, «Ma cazzo chi è quel vecchio?». Ma non puoi scherzare con i tuoi 70 anni. Credo, però, che l’energia, quella dello show, quella delle performance, il pubblico, le reazioni, è tutto bellissimo. Mi piace!
Ci sono alcune parti dello show che sono state difficili per te?
Sì, alcune note alte sono difficili, davvero. Ecco perché riesco a fare solo due serate di fila. Run Like Hell l’ho abbassata di un tono. Adesso è in Do, la facevo in Re. Non riesco più ad arrivarci.
C’è stato un momento nel tour difficile a livello di performance?
Parte della seconda metà. Quando abbiamo iniziato a girare con The Wall, stavo su un podio e non c’era nulla attorno. C’erano degli scalini, ecco tutto. In alcuni punti, mi mettevo lì sopra, con la mia uniforme “nazi”, a fare il mio show, guardando dritto nel proiettore. Ogni tanto dovevo togliere lo sguardo, e mi capitava di guardare giù. Da quel podio, ero tipo a tre metri di altezza dalla terra. Dopo un po’ ho detto, «Ragazzi, dobbiamo mettere una barra di metallo su questa cazzo di cosa. Non mi sento al sicuro». Non vedevo nulla, perdevo un po’ l’equilibrio. Le mie orecchie fischiavano per tutti il rumore sul palco, quindi non ero proprio stabile, perché l’udito è importante per stare in piedi. Quindi ho dovuto metterci qualcosa. Dopo è stato più facile. L’altra cosa, certamente, è che fare uno show come questo per tre o quattro notti alla settimana ti porta un sacco di adrenalina. Che figata di droga è! Tranne quando arrivi alla fine del tour. Una settimana dopo, mi sono detto «Oddio, ecco, sono fottuto». Ero così stanco, dopo tre anni.
Mi hanno raccomandato il nuovo documentario su Hendrix, che ho guardato su Netflix qualche sera fa
Dopo la prima del film, ha risposto ad alcune domande assieme a Nick Mason, batterista dei Pink Floyd. Come vanno le cose tra di voi?
Bene. È stato da me la scorsa settimana.
E recentemente voi due siete andati alla commemorazione per il cinquantesimo anniversario dei Pink Floyd, a Londra, alla tua università. Quali sono i tuoi ricordi più vividi dei primi anni?
Mi hanno raccomandato il nuovo documentario su Hendrix, che ho guardato su Netflix qualche sera fa. Non mi è piaciuto molto, devo dire. L’ho trovato ripetitivo. Ma è quello che avevano a disposizione, quindi c’è principalmente il concerto di Monterey. Ma mi ha spinto a cercare se ci fosse qualcosa su Google-land riguardo il primo concerto di Hendriz a Londra, che è stato il primo ottobre del 1966. L’unico motivo per cui me lo ricordo è che ero al college, al Regent Street Polytechnic, e avevamo organizzato un concerto di fine sessione alla Small Hall, un piccolo teatro con un palco e una tenda, e gli headliners erano i Cream. Sono saliti sul palco e hanno attaccato con Crossroads. Poi è arrivato lui e ha iniziato a suonare con loro. Era arrivato a Londra il giorno prima, a quanto pare, e ha attaccato subito. Ha fatto una jam con loro. Lo chiamavano “Junior” per tre o quattro mesi, dopo quel momento perché non aveva una band. Non c’era ancora nessuna band. Era ancora prima dei provini che hanno portato a Noel Redding e Mitch Mitchell. Mi ha ricordato di quello, di essere stato lì.
Anche i Pink Floyd sono stati in tour con Hendrix.
Sì, anche quello non c’era nel documentario. È iniziato il 3 novembre 1967 circa e siamo andati avanti fino al 19 dicembre. Sono state sei settimane di tour per tutto il Regno Unito, suonando nei cinema e nelle piccole sale comunali e cose così. Mi ricordo che ci mettevamo negli angoli del palco a guardare la performance di Hendrix a fine serata, perché non c’era altro spazio. Faceva Purple Haze, Hey Joe e Wild Thing. Era più o meno quello il set.
Com’è stato averci a che fare?
Oh, era davvero gentile. Non mi sono mai sentito molto vicino a lui. Ma ad un certo punto ha scoperto che sapevo un sacco di fantascienza. Leggevo molto e lui aveva appena scoperto gente tipo Theodore Sturgeon, Robert Heinlein, Kurt Vonnegut e Asimov. Era un po’ infantile, Jimi. Innocente. Un compare perfetto, per quanto ho potuto conoscerlo, molto dolce. Ovviamente brillante.
Doveva essere un ottimo tour.
Sì, è stato figo. In effetti, è stato durante quel tour che ci siamo fermati in una piazzola di sosta, spento lo Zephyr IV, visto che viaggiavamo in macchina, acceso la radio e sentito Sgt. Pepper. Hanno suonato tutto l’album su Radio 1, quando è uscito. Non mi dimenticherò mai, stare seduto lì e dire tipo, «Cazzo. Wow. È un album meraviglioso». Beh, ne avevamo già sentito parecchio perché stavano registrando nello studio in fianco al nostro, mentre noi facevamo il nostro primo album. Sì, è stato parecchio rivoluzionario.
Non hai fatto parte dei Pink Floyd per trent’anni, ma Gilmour ha detto di recente che è un capitolo ufficialmente chiuso. Come ti fa sentire questa cosa?
Penso abbia fatto la decisione giusta (ride). Voglio dire, non è niente che mi riguardi, possono fare quello che vogliono. Sì, solo l’eredità ha a che fare con me. Ma per il resto non sono affari miei. Tutto quello che hanno fatto dopo che ho lasciato non sono fatti miei.
Hai sentito il loro ultimo album, The Endless River?
Alcuni pezzi.
Ti è piaciuto?
No, ma sai cosa? Ci sono un sacco di album là fuori che non mi piacciono.
Tornando al tuo film, hai detto che The Wall sarebbe stato il tuo ultimo grande tour. Lo pensi ancora?
Non so. Mi piacerebbe farne un altro, se fosse possibile. Ho alcune cose su cui sto lavorando, e se riuscissi a pensare come trasportarle in un’arena, potrei partire un’altra volta. Penso di essere pronto a farne un altro.
Hai dichiarato che il tuo nuovo lavoro consisterà in un radiodramma ambientato a Belfast su tuo nonno e un bambino. Precedentemente, però, ti sei lasciato sfuggire di essere impegnato su un nuovo album chiamato Heartland. Sono la stessa cosa?
No, Heartland si rifà a due cose. Una è la poesia che ho scritto sull’America, “Heartland”. L’ho scritta nel 2004, quando George W. Bush è stato rieletto, per cui ci trovi dentro tutta la mia preoccupazione sul caso. In realtà, con questa poesia voglio dire che nel cuore dell’America ci sono persone ospitali, in buona fede ma leggermente fuori rotta. Mi sono immaginato i vicinati cooperare, difendersi l’un l’altro. Il che se ci pensi è mitologico. Il poema si chiude con una cosa simile a “ai giovani e coraggiosi non serve altro che un segno dal vecchio e dimenticato Dio, così da poter raggiungere le alte sfere del Creato”, qualcosa del genere. Prendilo come un invito ai giovani americani a respingere Donald Trump e il suo cazzo di parrucchino.
Quindi hai un po’ abbandonato Heartland?
No, quella poesia potrebbe non spuntare fuori tanto facilmente.
Credevo fosse un album.
Lo era, ma ti dirò per bene cos’è. Ho scritto un brano per, Michael, un merdosissimo film con John Travolta sugli angeli. Mi hanno chiesto di scrivere una canzone, a mio dire ottima, e io l’ho fatto. Ovviamente l’hanno respinta, cosa che ho trovato molto divertente. Nella canzone ho usato il termine “heartland”(cuore), non so ancora se farne un disco. Potrebbe essere come potrebbe non essere.
Cos’altro ci sarà nel radiodramma?
C’è molta mia antipatia verso la religione organizzata. Per esempio, c’è una canzone, If I Had Been God, di cui amo i primi due versi: “Se fossi stato Dio, avrei modificato le vene della faccia per renderle più resistenti all’alcol e meno soggette all’invecchiamento/ Se fossi stato Dio, sarei stato padre di molti figli e non avrei fatto soffrire i Romani se me ne avessero ucciso uno”. Ecco come inizia.
Quando pensi che potrà uscire il disco?
Non saprei. Vedremo. Mi spiace molto per i giovani. Come possono emergere tra i pirati del cazzo come Spotify e Pandora o in generale tutti coloro che ti rubano tutto? È davvero impossibile. Da come parla questa gente, sembra che nemmeno il burro si scioglierebbe loro in bocca: “È un servizio pubblico, è la cosa giusta da fare.” No, non lo è: state rubando e basta. È un furto. State rubando dalla bocca dei figli dei musicisti che dovrebbero poter vivere di questo. La verità è che ti pagano qualcosa come centomillesimi di centesimo per ogni stream. Ridicolo.
La tua musica e i cataloghi dei Pink Floyd sono su Spotify. Non hai notato una differenza da quando sono notevolmente aumentati gli utenti dello streaming?
No, però l’ho pensato di Randy Newman. Hai presente la sua grande canzone, My Life Is Good? Lo so che è un dibattito importante ma la mia vita è troppo impegnata per poterci pensare. Le compagnie di streaming sono così potenti perché le etichette anni fa si sono vendute il culo. Hanno semplicemente preso un casino di azioni dello streaming senza dare nulla agli artisti. Perché non è scritto sul contratto.
Tornando al film, cosa ha pensato tua madre di The Wall, considerando che si ispira all’assenza di tuo padre? Le piaceva la tua musica?
Sì, sono sicuro che sarebbe venuta a The Wall nel 1980. Lei veniva spesso ai concerti. “Molto interessante”, mi avrebbe detto. “Ovviamente, caro, lo sai che sono completamente sorda. La musica per me non vuol dire nulla.” E io le avrei detto: “Lo so, mamma, me lo ripeti da quando ero alto così.” Era una persona motivante, una di quelle che elargiva complimenti gratificanti tipo “ottimo lavoro”. È morta a 96 anni, 2 o 3 ottobri fa.
Le piaceva la canzone Mother?
Non ne abbiamo mai parlato. Comunque non parlava di lei.
Mi sono sempre chiesto da dove venisse quel verso in Another Brick On The Wall, quello che dice “Se non mangi la tua carne, non puoi fare il pudding”. Ti riferivi alla tua famiglia?
È qualcosa che avrò sentito probabilmente come ammonimento a finire la carne da bambino. Non da parte di mia madre ma dalla mia bisnonna. Potrebbe averlo detto per scherzo. Anche se non ho memoria di nessuno forzato a mangiare carne prima del pudding in famiglia. È un’idea davvero calvinista quella del soffrire prima di poter godere di qualcosa. Da dove vengo io comunque la carne è una merda, davvero.
È divertente che quel verso sia nelle radio tutt’oggi.
“Come puoi meritarti il pudding se non mangi la carne? Tu, sì, tu dietro al capanno delle bici. Fermati, figliolo.” I capanni delle bici erano un argomento in voga a scuola. Questo perché erano il luogo perfetto per masturbarsi o fumare sigarette, due tabù quando ero ragazzo.
Non penso che le cose siano cambiate molto oggi.
Probabilmente, no. Tutti credevano in una grande rivoluzione sessuale negli anni Sessanta. Devo dirti che però non me la ricordo poi così tanto [ride]
Hai mai pensato di scrivere un libro di memorie?
Ogni tanto scrivo qualcosa. Ho cominciato nel 2011 credo. Il primo testo che ho scritto si chiamava Trasferimento a Cambridge ed era incentrato sul trasferimento a Cambridge della mia famiglia quando avevo appena un anno e mezzo, alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Sto continuando a scrivere altri pezzi. Prima o poi dovrò modificarli e trasformarli in qualcosa di coeso. Purtroppo non sono un archivista e molte cose andranno perse. Che ci vuoi fare? O accumuli o no. Preferisco essere me stesso piuttosto che Bill Wyman. Non ho niente contro di lui ma è davvero un archivista. Così come Nicky [Mason]. Nicky è un archivista meticoloso, fantastico.
Infatti ha scritto il proprio libro, Inside Out.
Già, foto splendide. Eravamo un po’ distanti quando mi ha mandato il manoscritto. Ogni volta che ci ripensiamo, ci facciamo delle sane risate. Perché poi gli ho rimandato indietro il libro con scritto sopra “Spazzatura” [ride] Maq è davvero un gran bel libro. Magnifico, lo adoro.