Il cambiamento è un processo complesso che richiede coraggio e spalanca le porte all’errore. Una superficie incerta su cui muoversi con cautela. Il contraltare dell’omologazione. Un paradigma su cui Róisín Murphy ha plasmato tutta la sua cifra stilistica, nutrendosi regolarmente di sperimentazioni e metamorfosi. Dalla metà degli anni ’90 con i Moloko a oggi è al cambiamento che ha fatto voto di fedeltà, perché solo trasformandosi continuamente si arriva a conoscersi meglio.
Ne dà dimostrazione la sua discografia ancor prima dei suoi effervescenti cambi d’abito. Dallo swing di Ruby Blue (2005) al pop a dir poco brillante di Overpowered (2007), dall’elettronica di Hairelss Toys (2015) e Róisín Machine (2020) fino alle melodie dub e psichedeliche del nuovo album Hit Parade. Ascoltando il suo repertorio capita spesso di sentirsi prede di un sadico gioco delle carte perché fa questo di mestiere Róisín Murphy: destabilizzare. Ma non per spirito di temerarietà, né per confondere l’ascoltatore privandolo di punti fermi. Semmai per mettere in salvo ciò a cui – da donna e da artista – tiene maggiormente: la libertà di piacere o non piacere.
Non è piaciuta una sua recente dichiarazione condivisa in un commento su Facebook: «Per favore, non chiamatemi terf, non continuate a usare quella parola contro le donne. Vi prego! Ma i bloccanti ormonali sono una merda, con Big Pharma che se la ride mentre va in banca a incassare. I ragazzini confusi sono vulnerabili e hanno bisogno di essere protetti, ecco la verità». Il commento ha sollevato le critiche della comunità LGBTQAI+ e di associazioni come World Professional Association for Transgender Health e ha portato la cantante a pubblicare un post di scuse, ma senza alcun accenno al pentimento per quanto dichiarato. Come a voler chiedere: giudicatemi per la mia musica e non per le mie opinioni.
— Róisín Murphy (@roisinmurphy) August 29, 2023
Fa sorridere che un’artista come Róisín Murphy possa ritrovarsi al centro di simili polveroni mediatici ma in una società in cui la polarizzazione delle discussioni sta radicalizzando le persone oltre ogni ragione tutto può accadere. Volendo qui giudicare l’opera, è dal suo ultimo lavoro in studio che occorre ricominciare, un disco molto consapevole, espressione di un viscerale bisogno di autenticità ma anche contenitore maturo di un disappunto nei confronti del politically correct (l’intervista che segue è stata realizzata prima della polemica).
Ogni tuo disco è un progetto a sé, distinto dai precedenti. Com’è partito Hit Parade?
Uno dei primi brani a venire alla luce è stato CooCool. È una canzone d’amore un po’ vecchio stampo, una ballata romantica e sentimentale ispirata allo stile di Frank Sinatra. Scaturisce da un periodo vissuto all’insegna della gioia e gli ultimi due anni della mia carriera lo sono stati pienamente perché ho avuto la possibilità di fare ciò che desideravo. Una moltitudine di nuova musica si è presentata al mio cospetto, tanti artisti diversi hanno bussato alla mia porta per chiedermi di cantare sulle loro produzioni. Non è fantastico? Mi ritengo fortunata e felice.
È la maturità ad averti dato la consapevolezza di essere felice?
Ho vissuto appieno i miei quarant’anni, a luglio ne ho compiuti 50 e sono ancora qui a immaginare di creare musica dopo quello che abbiamo passato in pandemia. Inoltre la connessione con i miei fan è più viva che mai: è questo ciò che mi rende felice.
Come reagiranno i tuoi fan a questo nuovo disco che, ancora una volta, si discosta da tutti gli altri?
Rimarranno sorpresi dalla discontinuità con Róisín Machine. Voler stupire ogni volta non è però un esercizio fine a se stesso ma scaturisce dalla necessità di spingermi continuamente oltre. Con il percorso avuto e tenendo conto dell’artista che sono, cercherò sempre di muovermi attraverso molteplici dimensioni musicali e numerose collaborazioni.
Il singolo intitolato Fader parla però di un ritorno alle origini e non di fluide progressioni…
Dopo tanti anni di scorribande in giro per il mondo e di contaminazioni artistiche tornare a casa è stata la cosa migliore che potessi fare per ritrovare autenticità. Quando passi una vita intera a tirar fuori ciò che hai dentro alla fine riesci a vederti per quella che sei realmente nell’insieme. Ho scelto di ambientare il video di Fader ad Arklow, la mia città natale in Irlanda, perché ho voluto aggiungere un elemento importante al racconto: me stessa. Sicuramente contorta, spigolosa, folle per qualcuno, ma comunque autentica. Chi si concentra soltanto su alcuni momenti della mia carriera non riesce a visualizzare questa complessità nell’immediato, ma a un’analisi più attenta il quadro apparirà completo.
L’impressione è che la musica oggi rivolga lo sguardo troppo al passato. Così non finisce per penalizzarsi da sola?
È sempre stato così. Le hit degli anni ’80 guardavano alle hit dei ’60. La nostalgia è un leitmotiv ma a oggi credo non sia questo il problema più grosso per la musica. Penso che nella musica stia accadendo esattamente quello che accade nel mondo là fuori: siamo invasi da narcisisti, pieni delle loro voci. Stanno tutti lì tronfi a fare continuamente bella mostra della propria vita e ognuno racconta cosa ha fatto ieri o cosa farà domani. È un brusio tutt’attorno in cui le opinioni possono diventare espedienti: «Questi sono i miei sentimenti», «Ehi guarda quanto sono potente», «Non potete fregarmi perché io so cosa voglio». Le piccole voci, le atmosfere ASMR e i bisbigli che nel disco compaiono qua e là ricalcano quelli dei narcisisti che mi danno ai nervi.
Deduco tu non abbia un ottimo rapporto con i social…
Con i social ho una relazione sana. Preferisco esprimere il mio coraggio nel lavoro e non nell’esposizione di un’opinione che diventa statement. Non mi interessa vendere stronzate, imbracciare discussioni, assumere posizioni politiche, ma soltanto mostrare il mio cuore. Instagram, ad esempio, per me è un quaderno degli appunti, una scatola da cui estrapolare progetti in divenire, ispirazioni su cui lavorare, che si tratti di immagini, servizi fotografici, film, luoghi. È un gioco, ma quando non sarà più divertente smetterò di servirmene.
Grazie a Instagram hai conosciuto l’artista che ha realizzato la copertina del disco…
Sì, si tratta di un’immagine creata con Intelligenza Artificiale dall’artista Beth Frey, poi affiancata dal lavoro grafico di Bráulio Amado e dallo studio creativo Object & Animal. Mi sono sentita particolarmente attratta dal suo lavoro ed è nata questa sinergia creativa.
Sul fronte delle produzioni invece è Dj Koze il tuo braccio destro stavolta. Cosa hai assorbito del suo background?
Per Stefan Kozalla, aka Dj Koze, l’hip hop è il più grande punto di riferimento. Nel 1998 con la sua band International Pony ha contribuito a far crescere la scena tedesca e sono entusiasta che la sua verve abbia potuto contaminare il mio ultimo progetto. L’hip hop è pura modernità, parla il linguaggio dell’oggi e rappresenta il sound più globale che possa esistere, in termini di vendite e di storytelling.
Ciò che da sempre contraddistingue la tua esperienza come musicista è il forte attaccamento alla clubbing culture. Dai Moloko a oggi cos’è cambiato?
Tutto. Ad essere sinceri sono un po’ triste perché non sono più molte le serate alle quali mi piacerebbe partecipare. I promoter puntano soltanto al guadagno e il sistema dei club è diventato una gigantesca macchina: oggi non serve essere dei veri musicisti per far ballare le persone, basta essere ambiziosi. Un paio di anni fa è capitato che un dj mi chiedesse di poter usare Time Is Now e Sing It Back per realizzare nuovi mix. Gli ho risposto: «Sai che registrare le parti vocali e gli elementi acustici di Time Is Now è costato più di tutta la roba che tu usi per suonare?». Quando sto di fianco a un dj voglio proteggere la mia musica, non sputtanarla.
Quindi sei enigmatica ma anche molto diretta quando occorre?
Apparire enigmatica mi consente di stare davanti alle grandi folle e andare ancora a fare al spesa al supermercato per i fatti miei. Non sono in alcun modo famosa. Non lo sono mai stata. Neppure quando Sing It Back era una hit mondiale. La fama non mi ha mai impedito di godermi una giornata in spa coi miei figli. Quando voglio però posso sentirmi famosa per una notte, nei gay club. La celebrità non è mai stata una mia priorità, ho preferito creare qualcosa di cui non dovermi vergognare.
Nei versi iniziali di Róisín Machine hai affermato “I feel my story’s still untold”. Ti rispecchi ancora in quel testo?
Sì, almeno in questo non è cambiato nulla. La mia storia è ancora tutta da raccontare.